Zeitschrift Aufsätze

Rosamaria Alibrandi

Il «saggio sistema del signor Beccaria» Riflessioni politiche di un marchese siciliano del Settecento sul diritto penale

Una premessa: dall’«arsenale di spavento» delle pene alla «pratica quotidiana della penalità»

1Quel fenomeno polidimensionale che è la pena, con la sua storia complessa, sembra sottrarsi ad una definizione univoca1. Se anche si voglia leggere nella pena una pratica comunicativa tesa a ricondurre il reo alla coesistenza civile e a conferire una valenza inclusiva e dialogica alla prassi punitiva2, il sistema sanzionatorio, tuttora pervaso da un marcato simbolismo, mostra come gli obiettivi della giustizia, pur diacronicamente secolarizzati e mitigati, restino ancorati al micidiale binomio sorvegliare-punire3, proprio come quando a una società composta da un esiguo numero di persone strutturate secondo precisi segmenti, con dispositivi di controllo personalizzati, diretti, immediati, corrispondeva l’impianto puramente castigatorio studiato e descritto da Foucault4, scaturito dalla liturgia punitiva e dall’arsenale di spavento dei castighi di antico regime5.

2Dal rituale che scandiva un cerimoniale di sofferenze si è dipanata, dunque, l’equazione tra delitto e castigo.

3Sino al tardo Seicento, in un’Europa fortemente intrisa di valori religiosi, la punibilità di un comportamento inflattivo rientrava nelle maglie del diritto canonico. Dalla fine del XVIII secolo, con l’affermarsi di nuove forme di repressione, anche dei reati politici, fioriva la riflessione sulla pena e sulla giustificazione della pretesa punitiva dello Stato6.

4Mentre si riconosceva che la legittimità dello Stato risiedesse nella rinuncia dei singoli ai diritti naturali, quali la libertà, in cambio della sicurezza che il potere politico assicurava loro7, si evidenziava la necessità di ridurre la categoria delle azioni punibili, escludendone quei «comportamenti che andavano incontro a disapprovazione solo religiosa o solo sociale»8.

5Il giusnaturalismo operava la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo, sul presupposto che l’etica corrispondesse al diritto naturale; si arricchiva poi di una componente razionalista, della quale i principali esponenti erano Beccaria e Wolff, e di una empirista, apportata, dopo Hobbes, da Thomasius. Una svolta conservatrice si era nel contempo verificata con Leibniz, che aveva respinto la tendenza presente in Hobbes e poi in Pufendorf e Thomasius9, a una laicizzazione della giurisprudenza, affermando il suo indissolubile legame con la religione cristiana, espressione suprema di giustizia e razionalità. Leibniz distingueva il diritto naturale, emanato dalla ragione divina, dal diritto positivo, le cui leggi potevano anche essere ingiuste. Nel più ristretto ambito della tecnica giuridica, il filosofo preconizzava il riordino di tutto il diritto vigente, e la redazione di un nuovo codice, breve e chiaro, che esponesse il diritto romano-germanico, per eliminare la confusione determinata dalla massa di leggi, dalla loro interpretazione dottrinaria e dalla quantità di sentenze, ma non proponeva una riforma né una innovazione rispetto al diritto vigente. In buona sostanza, per Leibniz il diritto giustinianeo costituiva ancora la migliore espressione di un diritto razionale e pertanto, se sistematizzato, poteva essere ancora valido ed atto alla edificazione del diritto naturale. La proposta di codice riguardava dunque la riorganizzazione del materiale giuridico esistente, per conseguire la quale proponeva di utilizzare le regole metodologiche mutuate dalle scienze, quasi un prontuario di tecnica della codificazione10. Con la sua concezione delle società naturali, di cui prospettava una articolata classificazione in diverse tipologie, riconosciute e conservate dal diritto naturale11, tracciava uno schema nell’ambito del quale qualsiasi governo potesse realizzare l’imperio della ragione, fine esclusivo della prassi politica; accoglieva quindi, con lo sguardo volto costantemente al passato,l’idea di includere in una razionalizzazione del sistema giuridico anche il diritto germanico, in modo che un nuovo codice si sostituisse ad ogni altra fonte di diritto12.

6Dopo la battaglia di Thomasius per l’abolizione della tortura come strumento inquisitorio13, Montesquieu, che come Leibniz affermava che la legge non era comandamento, ma rapporto necessario derivante dalla natura delle cose, formulava l’assunto che non poteva esservi libertà senza certezza del diritto; e la certezza del diritto doveva essere assicurata da sentenze di tribunali basate su leggi precostituite. La garanzia istituzionale della libertà andava fondata sulla separazione tra il potere da cui promanava la legge e quello che la applicava. La sicurezza personale restava inoltre legata al contenuto delle leggi riguardanti la vita, l’integrità e la libertà: ecco che la normativa relativa alle sanzioni e ai giudizi penali acquisiva «un’inedita centralità politica» e che alla bontà del sistema penale si legavano le libertà fondamentali del cittadino14.

Delitti e castighi. La razionalità penale del capolavoro di Beccaria

7Montesquieu, al quale nel pamphlet beccariano viene fatto espresso riferimento, influenza profondamente l’opera di Cesare Beccaria, il cui proposito è risolvere i problemi della legislazione penalistica con «precisione geometrica»15, in un ripensamento del diritto penale quale strumento di tutela dell’uomo che affondava le radici in una grave crisi politica e culturale16. Il contesto teorico e dottrinale nel quale il giovane marchese muoveva i suoi primi passi nell’agone pubblico era comune ad altri giovani aristocratici in conflitto con le generazioni precedenti e, in generale, con l’ideologia della nobiltà milanese. Tra costoro spiccava la figura carismatica di Pietro Verri, “suggeritore” del pamphlet che si sarebbe scagliato contro l’ingiustizia della giurisprudenza criminale, e ideatore del «Caffè» (1764-66), cenacolo di intellettuali al quale Beccaria partecipava attivamente17.

8La giustificazione della pena nell’ambito della riflessione politica illuminista sul diritto di punire si imbatte in un luogo comune fortemente radicato: «Ce lieu commun consiste à considérer la théorie utilitariste de la fonction préventive des peines comme un élément caractéristique de la doctrine pénale des Lumières»18. Le teorie dei riformatori illuministi sulla giustizia penale sono state considerate una strategia «pour le réaménagement du pouvoir de punir, selon des modalités qui le rendent plus régulier, plus efficace, plus constant et mieux détaillé dans ses effets»19. Perché punire, dunque, la domanda di fondo.

9La pena moderna non doveva più essere la vendetta sovrana, fondata sulla legge del taglione che governava le proposte dei riformatori, secondo la quale alla violenza commessa doveva far seguito una analoga pena20.

10Secondo la ricostruzione di Foucault, il progetto di riforma penale teorizzato alle soglie del XIX secolo conteneva l’esigenza di misura legata al funzionamento della meccanica punitiva, al principio d’economia della sanzione penale che costituiva una delle principali linee d’oggettivazione di crimine e criminale21.

11La pena deve produrre i suoi effetti maggiori su coloro che non hanno commesso delitti, agendo sulle loro rappresentazioni. Perché l’efficacia sia massima, bisogna che sia prontamente ed efficacemente applicata. Il potere punitivo deve rinunciare all’antico sistema delle prove legali, che fissavano l’epistemologia del ragionamento giudiziario su una vera e propria aritmetica della verità, scarsamente intelligibile ai non adepti; deve elencando preliminarmente, e con precisione assoluta, tutti i crimini, classificandone le specie a seconda degli interessi lesi, ed attribuendo una gradualità agli atti criminosi rispetto alle fattispecie. Il progetto teorico dei riformatori, con questa sua esigenza di specificare concretamente ogni crimine secondo la sua natura e legare idealmente la punizione alla natura del crimine, si fonda su una rigida «tassonomia dei castighi e dei delitti»22 che unisce alla definizione astratta del delitto e della pena «la necessità di una individualizzazione delle pene conforme ai caratteri peculiari di ogni criminale»23.

12Tale esigenza di qualificazione, tuttavia, si esprimeva ancora attraverso il riferimento all’intenzione soggettiva, dolosa o colposa, alle circostanze concrete che rendono il reato più o meno riprovevole, limitandosi a profilare all’orizzonte l’eventualità di «una modulazione che si riferisce al soggetto che commette l’infrazione, alla sua natura, al suo modo di vivere e di pensare, al suo passato, alla qualità e non più all’intenzione della sua volontà». Bersaglio della meccanica punitiva non è ancora l’homo criminalis da riformare, bensì l’attore individuale dotato di interessi e capace di rappresentazioni. La pena deve dunque essere in grado di agire su questi fattori della dinamica a delinquere, la punizione è «arte di energie che si combattono, arte di immagini che si associano»24.

13L’analisi sembra ben attagliarsi all’impianto logico, geometrico, del celebre pamphlet di Beccaria

14Dopo l’esordio legato all’idea del contratto sociale, poiché le leggi sono base della convivenza civile25, Beccaria introduce il tema della pena, originata dalla necessità di garantire la sicurezza dello Stato in cui l’uomo si consorzia «cedendo una parte della propria libertà», e questo dono non è gratuito: il diritto sovrano di punire è fondato «sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi»26.

15Legittimato lo Stato all’esercizio dello ius puniendi, Beccaria fissa i principî destinati a divenire i capisaldi del diritto penale, e, per primo, il principio di legalità: solo la pena comminata in forza di una legge dello Stato, che deve essere applicata da un magistrato terzo ed imparziale, è lecita27.

16Quindi, nell’affrontare la questione della crudeltà delle pene, nell’affermare con forza che la legge deve stabilire una pena la cui durezza sia la minima necessaria al raggiungimento del suo scopo, l’utile sociale28, e che solo in questo caso si possa considerare legittima ed efficace, si pone, e pone al mondo, la questione aperta, alla quale si era accennato e che ritorna: perché punire?

17Se la finalità della pena risiede nella prevenzione, ne discende la necessità che essa sia proporzionale al delitto, poiché «se una pena uguale è destinata a due delitti che disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno più un forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior vantaggio»29. La funzione deterrente deve poi essere assicurata dall’infallibilità e della certezza del castigo, che, benché moderato, «farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità»30.

18Ecco enucleati, dunque, i principî che avrebbero animato il dibattito sulle sanzioni penali nei secoli successivi: la pena deve essere predeterminata dalla legge e proporzionata al delitto; la sua gravità deve essere la minore possibile nelle date circostanze; la pena di morte e la tortura devono essere abolite31; è la prontezza della risposta sanzionatoria a dover fungere da deterrente. Alla pena di morte viene contrapposto un nuovo sistema di punizione, destinato ad essere di lunga durata: si chiudeva così l’età della pena crudele32.

19Si riaffermava il principio di massimazione: la massima felicità divisa nel maggior numero33. Questa regola presiede all’idea di giustizia, il cui fondamento è riposto nella utilità comune. Il massimo bene della più gran parte della società non può realizzarsi se non con la costituzione del «vincolo necessario per tenere uniti gli interessi particolari, che senz’esso si scioglierebbero nell’antico stato di in socialità», indispensabile «per frenare e reggere l’intestino fermento degli interessi particolari»34.

20L’interesse sociale non scaturisce dalla somma degli interessi individuali, ma è un interesse per sé stante, realizzabile solo contenendo e disciplinando gli interessi dei singoli. La giustizia appare allora come una «relazione fra l’azione e lo stato vario della società», variabile «a misura che diventa necessaria o utile alla società quell’azione»35. Di queste idee Beccaria fa applicazione nel campo del diritto penale, nella nota battaglia contro la pena di morte, la tortura, il sistema carcerario. Una battaglia condotta in nome dei fini di ogni buona legislazione, ovvero dell’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d’infelicità possibile, alla quale ripugna ogni pena, ogni procedura e ogni forma di esecuzione non imposta dalla utilità comune o richiesta dalla necessità.

Le Riflessioni di un giurista palermitano sull’efficacia del sistema penale

21L’utilitarista Beccaria36 manifestava la sua avversione al diritto romano37 in quanto romanistica era quella scienza giuridica, appannaggio di interpreti privati, che si sostituiva alla legge, mentre « dove le leggi siano chiare e precise l’officio di un giudice consiste in altro che di accertare un fatto». Beccaria scriveva pagine polemiche contro un diritto comune monopolio dei giuristi, che era, ancora nel Settecento, interpretazione del diritto romano e del diritto canonico, e propugnava un nuovo diritto basato su un complesso di leggi sovrane; era altresì ostile ad ogni interpretazione che non fosse quella autentica ed anche alla storicità delle legge, in quanto «infliggerebbe una lesione mortale alla strategia racchiusa nel progetto illuminista»38. Aveva altresì manifestamente dichiarato: «Felice quella nazione ove le leggi non fossero una scienza»!39

22Tale opinione non era condivisa dal leibniziano Tommaso Natale40, il cui Maestro aveva qualificato la giurisprudenza una scienza esatta che, in quanto tale, si prestava a essere interpretata e ricostruita come la matematica o la fisica, e aveva proposto la riforma dell’ordinamento giuridico romanistico. Se le leggi restavano oscure e confuse, la giurisprudenza non poteva che essere incerta41.

23L’impegno teoretico del nobile siciliano aveva preso l’avvio proprio dall’incontro con un grande fisico, Niccolò Cento (1719-1780), reputato il più grande matematico palermitano della seconda metà del XVIII secolo, il quale insegnò dapprima nello Spedale Grande e poi nell’Accademia degli Studi, dove, tranne un breve periodo, rimase fino alla morte. Introdusse a Palermo il calcolo differenziale di Wolff, i principi matematici di Newton, le teorie di Mac Laurin, e, nel contempo, fu cultore e diffusore in Sicilia della filosofia di Leibniz42 e Wolff43. Dal suo insegnamento Natale trasse ispirazione per la sua opera giovanile, inneggiante al filosofo di Lipsia44.

24Dopo il lungo silenzio che faceva seguito alla pubblicazione di tale lavoro, nel 1772 avrebbe dato alle stampe le sue Riflessioni politiche, untrattato breve, costruito come lettera al giurista Gaetano Sarri, che prefigurava la necessità di un sistema sanzionatorio con pene più miti, aperto, come si è detto, dalla rivendicazione dell’originalità dell’opera pur nella comunanza di tematiche col Beccaria, compagno e antagonista, col quale intraprendeva un immaginario dialogo.

25Ma chi era Tommaso Natale, marchese di Monterosato? Nasceva in nobile e ricca famiglia a Palermo il 3 giugno 173345. Riformatore moderato, filosofo, giurista, altresì grecista, filologo e poeta, in quanto membro di un establishment, sarebbe stato arruolato tra i più stretti collaboratori dei viceré Caracciolo e Caramanico.

26Occorre ricordare che, nel complesso quadro della lenta evoluzione delle istituzioni siciliane, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX vi erano fasi alterne nell’attuazione delle riforme, specie inerenti alla grande proprietà fondiaria, che toccavano molti esponenti della grande nobiltà feudale del Regno generando non pochi conflitti. A partire dalla seconda metà del Settecento i tentativi di innovazione procedevano su due piani: la ricerca d’una identità siciliana della nobiltà isolana per il rilancio di un suo ruolo politico, da una parte, e, dall’altra, l’opera di ridimensionamento dei privilegi feudali messa in atto dai Borbone e dai loro ministri “illuminati”. In particolare, l’azione politica del Viceré Domenico Caracciolo, e il suo attacco alla giurisdizione feudale e agli abusi che ne conseguivano, veniva realizzata mediante il supporto, per quanto rarefatto, di gruppi di opinione e di quadri dirigenti che collaborarono alla realizzazione di una stagione innovatrice. La loro matrice culturale era contrassegnata dalla passione per lo studio - della storia, da una parte, e delle discipline matematiche e giuridiche dall’altra - il cui fine era individuare prospettive, anche politiche, alternative alle chiusure del passato. Il ceto di raccordo tra questi intellettuali, per lo più nobili, e l’amministrazione borbonica, fu quello degli officiers, funzionari molto cresciuti numericamente nell’ultimo periodo spagnolo e durante il viceregno asburgico, soprattutto nelle città di Palermo, Messina e Catania46, quand’anche non accadesse, come nel caso del Natale, che i due ruoli venissero a coincidere nella medesima persona. In forza della preparazione di base e dell’esperienza acquisita, il ceto amministrativo forense costituiva la nuova classe dirigente alternativa; si enucleavano dei gruppi di funzionari pubblici e di magistrati, laici e giurisdizionalisti, che avevano acquistato un’indipendenza economica ma soprattutto politica rispetto alla feudalità laica ed ecclesiastica. Lo smantellamento del latifondo che la monarchia borbonica provava ad attuare, a partire dall’introduzione del Catasto, nel 1789 si concretizzava in alcuni provvedimenti amministrativi. Veniva conferito a Tommaso Natale, nominato Maestro Razionale del Tribunale del Real Patrimonio47, l’incarico di compilare le Istruzioni per la censuazione dei demani comunali, e veniva altresì istituita la Giunta delle censuazioni, presieduta dal Natale medesimo, e fortemente voluta dal Caramanico, col compito di censire gli immensi possedimenti terrieri facenti capo alla manomorta demaniale ed ecclesiastica, affinché fossero poi divise in lotti da concedere in enfiteusi a borghesi e contadini48 per incrementare la media e piccola proprietà. Anche se la Giunta non riusciva a completare il proprio compito, dava tuttavia un contributo al rinnovamento di zone rurali specie nella Sicilia occidentale. Redigeva per il Caramanico una prima relazione sulla censuazione dei beni demaniali siciliani nel maggio 1789, rispetto alla quale, il 5 dicembre del medesimo anno, il Viceré dava le prime istruzioni esecutive, e, nell’ambito dell’incarico che ricoprì come membro della Giunta nel 1790 scrisse una Rappresentanza a S.M. in cui si sostiene la validità della censuazione delle terre dette della Gazena di Acireale, pubblicata nel 1793 a Palermo. Il viceré affidava al Di Blasi il riordinamento delle prammatiche del Regno, in vista di una riforma dei Codici, nel quadro del rinnovamento giuridico. Nonostante a causa delle oggettive difficoltà la censuazione non riuscisse, tuttavia in principio prese un forte abbrivio, e il Natale il 3 Novembre 1792 dettava nuove istruzioni perché fosse estesa anche alle terre dei prelati con beneficio di regio patronato49. Impegnato in prima persona nell’azione politica e riformatrice del Governo, il Natale era un assertore della dottrina fisiocratica, collaborava alla riforma del sistema feudale riguardo allo sfruttamento delle terre isolane, intervenendo concretamente a scardinare le modalità di gestione delle rendite dei numerosi monasteri e l’assetto del latifondo, con grandi ricchezze concentrate in capo a poche famiglie, sistema su cui si era retta sino ad allora l’economia, ivi compresa quella delle città demaniali50.

27Intanto, nella seconda metà del Settecento, in Sicilia la filosofia leibniziana lasciava spazio all’empirismo, che rappresentava la vittoria del moderno spirito europeo sul «fango della scolastica». I tradizionali mali della società siciliana cominciavano ad essere analizzati, e il lavoro intellettuale di personaggi come il Natale veniva sostenuto dall’azione governativa dei Viceré “riformatori” i quali provavano a sferrare un duro attacco al sistema feudale che si traduceva in una vera e propria guerra tra l’assolutismo illuminato e i baroni. Il Parlamento siciliano, roccaforte del privilegio aristocratico, si attestava su posizioni “liberali” e anglofile. La Sicilia si ammantava d’una sorta di rifiuto culturale della Rivoluzione Francese, contrapponendole le proprie forme di rappresentanza politica, la propria tradizione giuridica e storica. Pur racchiusa ancora tra chiostri e seminarii51, la cultura siciliana iniziava a scardinarne i recinti52: nell’Isola si avvertiva il bisogno di un nuovo sistema. E, riguardo a un interessante interrogativo, se ci sia mai stato un Illuminismo in Sicilia, e, nella fattispecie, un Illuminismo giuridico, il dibattito sul diritto penale potrebbe offrire una chiave di risposta.

28Tommaso Natale, dopo le disavventure giovanili legate alla pubblicazione dei coraggiosi versi toscani sulla filosofia leibniziana che invocavano il risveglio dal lungo letargo in cui era caduta la Sicilia a causa del predominio culturale dell’Ordine dei Gesuiti, che gli era valsa la condanna del Santo Offizio, si era trasferito a Napoli, continuato a coltivare le sue attitudini intellettuali. Si era quindi dedicato alla stesura delle Riflessioni politiche intorno all’efficacia e necessità delle pene53, completate nel 1759, ma lasciate, con cautela, inedite sino al 177254. Quando il trattato fu pubblicato in Sicilia, l’editore palermitano Gaetano Bentivenga, nella nota che precedeva l’indice della raccolta degli Opuscoli Siciliani, dedicati a Monsignor Gioachimo Castello, Principe di Torremuzza e Vescovo di Cefalù, precisava che il Marchese di Monte Rosato offriva al pubblico un lavoro che riguardava una materia «oggi molto dibattuta tra i Politici, e i Scrittori del Giusnaturale […] nato assai prima di altri opuscoli pubblicati intorno a questo soggetto». Probabilmente, oltre all’intento di rivendicare un primato dell’opera (come avrebbe fatto nella prefazione all’edizione successiva), l’editore dava per certo che i lettori conoscessero il lavoro di Beccaria, e aggiungeva: «Giacché poi il presente Tomo è stato per ragionevole motivo, sebbene da molto tempo stampato, ritardato sinora a pubblicarsi, e abbiam veduto che nell’ottavo, ed ultimo tomo dei Miscellanea di varia Letteratura, che stampa in Lucca Giuseppe Rocchi, siasi anche stampata questa erudita lettera sulle Pene, è ben giusto di avvenire il Pubblico, che in questa nostra stampa è stata dall’Autore accresciuta non solo di moltissime note, ma anche delle sue sagge nuove riflessioni sopra l’Educazione Politica che pensa giustamente Egli dover essere un mezzo e più virtuoso, e non meno efficace delle Pene, per evitarsi i delitti. Quindi è, che 1’Opuscolo da Noi riportato è assai più del doppio di quello stampato in Lucca, come dal confronto potrà chicchessia assicurarsene». Anche Domenico Scinà riferiva di questa prima edizione toscana, che, evidentemente, non era circolata in Sicilia sebbene se ne avesse notizia: «Le riflessioni politiche del nostro autore furono da prima stampate nell’ottavo ed ultimo tomo de’ Miscellanei di varia letteratura, che pubblicava in Lucca Giuseppe Rocchi»55.

29Il Bentivenga, nel medesimo anno, ristampò l’opera, con il titolo Riflessioni politiche intorno all’efficacia, e necessità delle pene dirette da Tommaso Natale Marchese di Monte Rosato al giureconsulto D. Gaetano Sarri (pp. I-CL)56, con una sua breve prefazione, nella quale teneva, stavolta in modo esplicito, a ribadire il primato dell’opera rispetto a quella di Beccaria: «L’Autore si è bastantemente discolpato nella sua prima nota pagina V di essersi imbattuto nella stessa materia, ed in certi Sentimenti, del Signor Beccheria; mentre prima di lui egli pensò di scrivere intorno a ciò le sue Riflessioni» (p. III). L’edizione comprendeva anche la Lettera allo stesso amico in cui si ragiona del sistema del Signor Beccaria intorno alla pena capitale, e degli opposti sentimenti del Signor di Linguet, Giureconsulto Francese (a seguire, pp. I-IX). Abbiamo dunque tre edizioni nel medesimo anno.

30La domanda da porsi è: in che anno Natale leggeva per la prima volta il libro di Beccaria, pubblicato nel 1764? In una nota iniziale al suo lavoro, egli scriveva “rileggendo” come se precedentemente non avesse riflettuto sufficientemente su di essa. A tal proposito abbiamo solo un cenno del Siragusa, che mette a confronto i due autori, specificando che: «è certo che Tommaso Natale conobbe tardi l’opera del Beccaria e quando l’ebbe conosciuta la discusse»57. Al contrario, possiamo ragionevolmente affermare -e quanto riscontrato costituisce una notizia di estremo interesse, fino a oggi non segnalata- che Beccaria conobbe il lavoro del Natale subito dopo la sua pubblicazione, come prova una corrispondenza fra il medesimo e il poligrafo Cremonese (1731-1808) don Isidoro Bianchi, riportata dal Landry nella sua raccolta di inediti beccariani:

31«VIII. Dal P. Bianchi al Beccaria.

32Mio caro e rispettabilissimo Sig. Marchese.

33Signore. La gentile commemorazione che avete costì fatta di me col sig. Abate de Vecchi mi ha risvegliato nell'animo mille sentimenti di viva gratitudine. Io vi mando ora alcuni opuscoli che ho stampati qui ultimamente. In quello che ha per titolo Delle scienze e Belle arti, etc. troverete annunziato due volte il vostro nome immortale [… ] A pag. 4 dello stesso opuscolo è pure indicata la vostra opera dei Delitti e delle pene. […] Voi seguitate a vivere all’onor dell’Italia, alla gloria della filosofia, ed al bene dell’umanità, e persuadetevi sempre ch’io sono uno dei più grandi ammiratori del vostro merito e della vostra dottrina. Addio.

34Palermo Monreale, 24 Ottobre 1772.

35P. S. Vi mando ancora un’operetta del Marchese di Monte Rosato. Questo è un mio amico. Io lo consigliai a non pubblicarla dopo che il mondo vide la vostra opera. Ma tutti accarezzano le loro produzioni. A me basta di aver compito alle parti di un vero amico.

36Il vostro D. Isidoro Bianchi.

37XXVIII. Risposta Al P. Bianchi.

38Mio caro, rispettabilissimo Padre Don Isidoro,

39Debbo chiedervi mille scuse del ritardo, veramente troppo lungo, nel rispondere alla gentilissima vostra […]. Nel ringraziarvi degli opuscoli vostri, che saranno annunciati in questa Gazzetta letteraria, vi ringrazio anche dell’altro opuscolo del Marchese di Monte Rosato, della quale operetta mi dispenserete di dare il mio giudizio in grazia dell’argomento che vi si tratta. Continuatemi la vostra amicizia, pregiandomi in ogni tempo di essere con piena stima,

40Devotissimo servo ed amico Cesare Beccaria.

41Milano il 3 Gennajo 1773. [in calce] Padre Don Isidoro Bianchi Benedettino Camaldolese, Professore di Logica e Metafisica nel Collegio di Nobili di Monreale».

42Il Landry postillava il testo con una sua annotazione sul Natale: «Sarebbe difficile il rintracciarlo sotto questo nome (Monte Rosato), e noi lungamente vi ci provammo indarno finché non leggemmo attentamente l’opera del Landau Geschichte der italienischen Literatur in dem XVIII Jahrhundert (v. p. 172-175). Tommaso Natale, marchese di Monte-Rosato (1733-1819), che coprì alte cariche, e fu poeta filosofo ed ellenista, venne chiamato un gigante da Giuseppe Cimbali (Siciliano) e messo al pari del Beccaria da Domenico Scinà (pure Siciliano) per l’opera, poco stimata negli altri paesi anche ai tempi suoi, intitolata: Riflessioni politiche intorno alla efficacia e necessità delle pene dalle leggi minacciate, dirette da Tommaso Natale, marchese di Monte Rosato al Giureconsulto D. Gaetano Sarri uscite prima nel Tomo VIII ed ultimo delle Miscellanee. G. Rocchi, Lucca, e nel XIII della Raccolta di opuscoli di autori Siciliani p. 167-263, Palermo 1772, poi ristampate separatamente colla stessa data, e tradotte in francese. Una ristampa, con aggiunte lasciate incomplete per la morte dell’autore, se ne fece nel 1895. (Cfr. Mira, Bibliografia Siciliana, pp. 75-81). Nell’avvertimento il legista Siciliano spiegava come avesse scritta l’opera fin dal 1759 a Napoli e non l’avesse ancora pubblicata per varie circostanze, anche pel timore di essere accusato di plagio, e parlava con poca modestia del proprio parto in confronto col trattato del Beccaria»58.

43Nel 1764, difatti, Cesare Beccaria aveva esordito con la sua opera De’ delitti e delle pene, destinata a catturare l’attenzione di un vasto pubblico. La primogenitura d’una teoria tanto innovativa da essere rivoluzionaria, che a torto o a ragione, Natale provò poi a rivendicare, oggi come allora rimaneva attribuita per sempre all’illuminista milanese anziché al palermitano.

Le Riflessioni politiche nel dibattito storiografico siciliano ottocentesco

44Nel pubblicare, finalmente, le Riflessioni politiche, così le postillava a futura memoria: «Io scrissi le mie Riflessioni mentre mi trovavo l’anno 1759 in Napoli, e molto prima, per conseguenza, che fosse pubblicato il saggio sistema del sig. Beccheria intorno ai delitti e alle pene». Questa precisazione configurava un aneddoto destinato a essere ripetuto nei secoli; e forse piuttosto che curarsi troppo di approfondire quale fosse la primogenita di due teorie elaborate «quasi ad un istesso fine»59, sarebbe stato meglio incentrare proprio su quel su quel «quasi» una riflessione.

45Per i siciliani, invece, l’affermazione del marchese di Monterosato fu ben più che sufficiente ad attribuirgli il merito d’essere stato un precursore delle riforme penali; tuttavia, basta soffermarsi sulle pagine di Domenico Scinà, di Pietro Lanza di Scordia, o di Vincenzo Di Giovanni per cogliere, dietro la necessità di ribadire una primogenitura della proposta di riforma della materia criminale, l’alterno gioco di consonanze affermate e dissonanze intuite tra i due trattati.

46Lo Scinà non si discostava dalla comune accezione del “primato” del marchese Natale: «Parrà ad alcuno, che mi sia lasciato trasportare all’amor nazionale, collocando nello stesso tempo il libro De' delitti e delle pene del Beccaria, e quello delle Riflessioni politiche del Natale, mentre quello fu pochi anni prima di questo pubblicate. Ma egli non è così. Lasciando stare, ch’egli il Natale ci disse, e non era uomo ad accattar gloria col mentire, di averlo già scritto nel 1759, lasciando dico ciò, tutti gli amici di lui attestavano lo stesso, e i nostri giornalisti l’ affermarono nel 1772 con le stampe. Ne deve ciò recar maraviglia, ove il Natale si conosca, e 1’indole e il portamento di lui. […] Considerando sì fatte qualità del Natale, e che le circostanze di sua famiglia tennero allora turbato il suo animo, egli ben si comprende, come avendo già immaginato le Riflessioni politiche, si abbia poi lasciato carpire dal Beccaria quell’onore e quella gloria, che si suole concedere nella repubblica delle lettere a colui che il primo palesa i suoi nuovi pensamenti»60.

47Considerava però, nei fatti, tutto sommato poco rilevante il dato, e , piuttosto, si ascriveva il merito di aver condotto la prima netta comparazione tra le due opere che mettesse in luce le differenze tra i due Autori, mossi «da considerazioni diverse» e «di opinioni discordi», sebbene entrambi condannassero la pratica penale del tempo. Ma, rilevava acutamente l’abate, Beccaria considerava 1’uomo in astratto, più come avrebbe potuto essere che come in effetti fosse. Il Natale lo vedeva com’era, incentrato sull’egoismo, la radice infetta che lo disponeva al vizio, e nel punire era così severo che «sulle prime ti scosta, e poi tuo malgrado ti vince». Per entrambi 1’efficacia delle pene non derivava né dalla loro severità, né dalla loro frequenza. Ma Beccaria arrivava a questa conclusione per amore dell’umanità, e attraverso qualche metafisico ragionamento; i1 Natale per aver sperimentato che la frequenza e l’atrocità delle pene rendessero l’uomo più feroce e pertinace nel delinquere. Beccaria, secondo l’analisi dello Scinà, considerava le pene come vendetta de’ delitti, e quindi le voleva ad essi proporzionate. Per il Natale, che non intendeva diminuire le pene, ma solo renderle più utili, le pene dovevano essere medicina pei delinquenti, un esempio per gli altri. I castighi continui ed atroci spengono le idee dell’onore e della virtù, avviliscono i sudditi, adusandoli ad operar per timore ne corrompono il cuore; pertanto era opportuno che i governi, nel punire i delitti, operassero con saggia e prudente moderazione. Beccaria escludeva la pena di morte; Natale la ammetteva nel solo caso in cui il colpevole fosse particolarmente pericoloso. Peraltro, proponeva di commutare la pena capitale con la condanna a una vita infelice, e, per i delitti più atroci, anche di ricorrere all’amputazione delle membra mentre, per i reati minori, suggeriva pubblici travagli, e la marca di obbrobrio. Quella tortura che si negava come strumento di inquisizione, tuttavia era ammissibile come castigo. Lo Scinà attribuiva ai due Autori il merito di aver fondato i principi della legislazione criminale segnalandone ritardi ed abusi. Rilevava, in buona sostanza, i punti di contatto tra le due teorie, ma non mancava di evidenziare che il pensiero del Siciliano rimaneva profondamente ancorato alla dottrine giusnaturalistiche che incentivavano i progressi che dal 1750 in poi fece la pubblica cultura in Sicilia, anche negli anni della maturità. Su questo terreno, tuttavia, il Natale, lasciato indietro il Beccaria, progettava anche una riforma dell’istruzione pubblica, madre dei comportamenti sociali virtuosi61.

48Scorrendo, poi, le pagine di Pietro Lanza, si legge come i metodi di tortura fossero ancora in uso alla fine del secolo dei lumi, e come ai «supplizi del ferro rovente, dell’acqua e dell’oglio bollenti» aggiungeva il principe con sarcasmo, i moderni savi legislatori avessero «accoppiato le battiture, gli eculei, le torture e mille strazi nella morte», convinti che l’atrocità delle pene scoraggiasse il delinquere. La tortura e l’indiscriminata applicazione della pena di morte erano usi inveterati, ben tollerati dal diritto penale. Le sentenze dei giudici «anziché essere l’organo dell’integrità e della matura e riconosciuta verità, non altro erano che i parti più assurdi di molte contradicenti risoluzioni»62.

49Sulla diversa fortuna dei due brevi trattati veniva sottolineato come fosse legata al diverso contesto d’appartenenza dei rispettivi Autori63, perché, sebbene la Provvidenza avesse inviato ad illuminare le menti «per comune e general vantaggio Cesare Beccaria e Tommaso Natale» tuttavia li aveva fatti nascere «uno in Milano, l’altro in Palermo»64.

50Il Lanza, che vantava la poliedricità e l’eccellenza del suo conterraneo, non dipanava tuttavia la querelle relativa ad una anteriorità (sebbene la dichiarasse discussa e comprovata), dell’opera del Natale rispetto a quella del Beccaria.

51Procedeva però ad un interessante confronto delle concezioni antropologiche dei due Autori, e rilevava anzitutto che il Siciliano riteneva l’uomo per natura portato a delinquere. Concordi sul principio che ogni pena dovesse configurarsi come pubblica, pronta, necessaria, proporzionata ai delitti, e dettata dalle leggi, ambedue convenivano che l’efficacia delle pene non derivasse né dalla loro severità né dalla loro frequenza. Ma Beccaria voleva che la pena fosse la minima possibile, era contrario ad ogni pena inumana, condannava la tortura e la pena capitale; Natale ammetteva invece pene atroci, la morte in casi estremi, e sosteneva la necessità che i governi, facendosi carico di una funzione educativa, si preoccupassero di forgiare la civiltà delle nazioni. L’educazione politica doveva essere finalizzata ad inculcare nel popolo il senso del dovere. Era necessaria una grande opera di incivilimento e leggi sensate: «i reggitori della cosa pubblica che procurar vogliono duratura fortuna ai popoli, e che dicono mirare ad ingentilirli, nulla faranno se prima disgravandoli dalle angherie e dalle gravose prestanze, poi, animati dal buon volere eglino stessi, gli indicati mezzi, siccome salutari farmaci, non apprestino; li quali un popolo rozzo e grossolano, visibilmente civile ed ingentilito faranno»65.

52Di un primato ascrivibile all’intero Meridione scriveva anche Antonio Ranieri nei suoi anni maturi; l’antico fraterno amico del Leopardi, dedicatosi ormai alla carriera politica, citava proprio il Natale per vantare, nel neonato Parlamento dell’Italia unita, il valore dei giuristi e della legislazione del Regno delle due Sicilie, ed un primato meridionale che desse lustro a quello che veniva dileggiato dai deputati del settentrione come uno Stato di barbarie, ricordando come «Le Due Sicilie non erano Costantinopoli o Giava: ma erano la Patria di Vico o di Filangieri; o di Natale che precorse Beccaria. La loro legislazione, salvo in quella poca parte che ritraeva dai Borboni, era delle migliori se non la migliore d’Europa»66.

53Un ulteriore confronto veniva condotto da Vincenzo Di Giovanni, il quale, preliminarmente, chiariva come il Natale fosse giurista prima che filosofo: questo probabilmente perché la fama dell’operetta leibniziana oscurava ancora quella, mai conseguita in modo maturo, delle Riflessioni67. Sottolineava, dunque, come Natale non fosse solamente un metafisico, ma che aveva trattato con competenza di diritto pubblico e penale prima del Beccaria, «più fortunato del de’ Natali, il quale vince forse il Milanese nella prudenza civile, e nella pratica degli uomini, che vuol pigliarli piuttosto quali essi siano, che in astratto, o idoleggiati da passionata fantasia; quantunque in certe pene che egli propone si veda una certa ruggine de’ codici del medio evo, e degli ordinamenti della legislazione antica». Per il giurista Natale, le leggi erano necessarie nella società perché l’individuo fosse indotto a controllare con la ragione le passioni, in balìa delle quali sarebbe stato sempre hobbesianamente in guerra con l’altro uomo. Le leggi, per essere efficaci, dovevano essere sanzionate dalla pena; una buona legislazione penale doveva fare in modo che le pene fossero utili al consorzio umano; il legislatore doveva dispensarle con saggezza: difatti le pene avrebbero perso di efficacia, se troppo frequenti e dure. Auspicava la riforma del processo, delle inquisizioni criminali, della esecuzione troppo ritardata delle sentenze; del difetto di proporzione tra il delitto e la pena; dei privilegi, e dell’immoralità dei giudici. In quanto poi alla pena capitale, non pensava che fosse il deterrente più efficace per distogliere dal delinquere, come dimostrava l’alto tasso di delitti, nella pratica quotidiana, nonostante l’estrema frequenza con cui veniva applicato il massimo supplizio. Per il Natale il difetto massimo della pena capitale risiedeva nella sua stessa natura: nel suo essere estrema conteneva la sua debolezza, perché, escludendo una gradualità del castigo, in quanto ultimo livello di supplizio, finiva per non provocare più l’effetto necessario, e veniva vissuta come meno afflittiva rispetto alle pene prolungate nel tempo. Per conservarne l’efficacia conveniva comminarla di rado. Piuttosto che regalare a un delinquente una morte veloce, meglio lasciarlo vivo, infelice, ed esposto all’altrui ignominia, possibilmente marcato nelle parti più esposte del corpo, oggetto dell’universale dispregio.

54Di Giovanni evidenziava come la riforma proposta dal Natale si occupasse dell’educazione pubblica, una delle più efficaci maniere di rendere virtuosi i cittadini di uno Stato, stigmatizzando i sistemi di educazione al tempo impartita ai giovani, sia in seno alle famiglie, che nei Collegi d’educazione, incapaci di formare un buon cittadino; e auspicava pertanto che i governi si assumessero l’onere della formazione al rispetto delle leggi, massime per le plebi, mediante la religione e il lavoro68. L’insistenza degli estimatori del Natale sull’attenzione a quella che, con una locuzione attuale, definiamo la funzione pubblica dello Stato, non era casuale, e risiedeva principalmente nel riconoscimento del ruolo di officier del Regno svolto, sul piano pratico piuttosto che teorico, dal marchese.

55Anche Cesare Beccaria ricopriva ruoli nell’amministrazione pubblica: dal 9 gennaio 1769 teneva la cattedra di Economia politica, col titolo di Scienze Camerali, istituita per lui nelle Scuole Palatine di Milano con dispaccio del I Novembre 1768; nel 1771, diveniva consigliere nel Supremo Consiglio di Economia; nel 1778, membro del Magistrato Camerale, e, dal 1791, della Giunta per la riforma del sistema civile e criminale. Ma, a differenza di quel che accadeva in Sicilia al Natale, per quel che lo riguardava la “tranquillità burocratica” raggiunta gli guadagnava la disistima dei suoi contemporanei, come se avesse tradito la sua vera vocazione69. Avere incarichi pubblici, difatti, rappresentava per Beccaria il coronamento dell’aspirazione a una vita pacifica, alla soluzione di pressanti problemi economici, piuttosto che l’immissione nell’agone amministrativo e politico70. Pietro Verri era manifestamente avverso al passaggio di personaggi come Beccaria «a una routine burocratica che escludeva le iniziative individuali e il dialogo da pari a pari con i regnanti». Si configurava un ridimensionamento della figura del philosophe, «consigliere e ispiratore del principe, in un rapporto per certi versi paritario, a quella più modesta del burocrate e tecnico, esecutore metodico dei suoi voleri»71. L’ufficio assunto da Beccaria negli ultimi ventitré anni della sua vita «appare come un approdo» dal quale, svolgendo le sue mansioni di amministratore illuminato, «estromette definitivamente la cultura giuridica dall’azione pubblica». Difatti egli cercherà di elaborare «una scienza legislativa non giuridica e una scienza non giuridica delle eccezioni» in quanto si trova infine a lavorare concretamente «a quelle riforme che tendono ad affidare l’evoluzione del diritto alla sola volontà del sovrano legislatore»72.

56Ancora agli inizi del Novecento si suffragava l’ipotesi che le Riflessioni politiche potessero vantare un primato temporale73 rispetto alla propugnazione della abolizione della pena di morte e della tortura. Per esprimere un opposto parere, si levava con asprezza la voce di Cesare Cantù74. Nel descrivere le immediate reazioni alla pubblicazione di Dei delitti e delle pene, in un paragrafo del saggio Beccaria e il diritto penale, dedicato alle Discussioni intorno al suo libro, pone il Natale, senza connotarlo come giurista e stroncandolo in due righe, in cima alla serie dei detrattori di Beccaria: «Di quel tempo usciva pure un libretto del marchese Natali siciliano Sull’efficacia delle pene, che pretende averlo scritto avanti il nostro. […] Vincenzo Malerba avvocato di Catania stampava a Palermo un libro di 119 pagine contro il trattato dei Delitti e delle Pene; nel 1780 l’avvocato Francesco Antonio Pescatore lo confutava nel saggio Intorno diverse opinioni d'alcuni moderni politici sopra i delitti e le pene75:e già il Lami avea criticato aspramente il nostro nelle Novelle Letterarie del 1765. […] La pena di morte e la tortura furono con erudizione legale e pratica sostenute in un opuscolo di Franchino Rusca76. […] Il conte Antonio Montanari avea stampato a Verona nel 1770 una dissertazione Sopra la necessità della pena di morte77; un’altra a Milano il dottor Paolo Vergani78 […]ove si lamenta che l’opinione contro tal pena acquisti ogni dì nuovi assertori. Dopo molte altre discussioni di cui diremo, comparve una Apologia della giurisprudenza romana,opera anonima del professore Antonio Giudici […] magistrato [… ](che) conchiude che è ben diverso il crearsi nell’errante fantasia un sistema di legislazione, e l’applicarlo all’uso pratico»79.

57Il dibattito attorno a questi temi, nonostante si fosse nell’epoca dei lumi, non costituiva una mera leziosità. Se ben prima che il Natale avesse dato alle stampe la sua opera quella di Beccaria era già celebre, era pur vero che, a confutazione di essa, dappertutto fiorivano libelli che giustificavano la pratiche giudiziarie diffuse, proprio come quello del giureconsulto catanese Vincenzo Malerba, al quale Cesare Cantù aveva affiancato il Natale, definendo entrambi oppositori del Beccaria. Malerba, nel suo Ragionamento sopra la tortura, pubblicato nel 177780, propugnava una convinta difesa del “tormento” giudiziario, che gli valeva la cattedra di Istituzioni Politiche nella facoltà di Giurisprudenza del Siculorum Gymnasium di Catania. Sebbene anche in Sicilia la tortura giudiziaria fosse in una fase di avanzato declino, e lo stesso Tribunale dell’Inquisizione sarebbe stato da lì a poco soppresso, l’avvocato etneo intendeva difendere non il sistema, ma il principio politico della sua giustificazione, rispetto alla possibilità che la diffusione di nuove dottrine, anche nel campo del diritto e, in particolare, della procedura penale, scuotessero il potere dalle sua fondamenta. Disquisendo sulla tortura, intendeva esaltare istituzioni dotate, in effetti, di una forte resistenza culturale protrattasi nel tempo81.

58Tommaso Natale, che, peraltro, sul tema della tortura aveva scritto prima e con ben altra equanimità, rimaneva distante dalle posizioni del conterraneo Malerba; la sua riflessione giuridica muoveva piuttosto dall’osservazione che, nonostante la severità della legislazione penale e le frequenti esecuzioni, il numero dei delitti non diminuiva, e pertanto appariva chiaro come l’efficacia delle pene non dipendesse dalla loro crudeltà, né dal loro uso frequente, bensì nel saperle adattare e dispensare, e questo principio ispirava l’intero trattato.

59Nodo cruciale era il fine della pena; come applicarla, e, soprattutto, gli elementi di cui il legislatore dovesse tener conto nel dettare le leggi penali. Altro punto centrale nella trattazione era l’educazione dei sudditi, di cui lo Stato doveva farsi carico alla stessa stregua della repressione penale, poiché mentre quest’ultima mirava a punire il delitto, l’educazione lo poteva prevenire, agendo sulla sua causa determinante. L’Autore ribadiva l’interesse della comunità per gli scopi dell’educazione, auspicando tra l’altro un’istruzione pubblica e laica. Tematica, quest’ultima, che accomunava Natale ai principali illuministi italiani, quali il napoletano Antonio Genovesi, ed europei come Montesquieu.

La soverchia equità di Beccaria e le necessarissime pene del Natale. Una proposta di riforma

60Il confronto tra le due opere aveva una lunga eco, giunta ben oltre l’Unità d’Italia82, in particolare con riferimento alle tematiche comuni83, piuttosto che alle discordanze che, invece, motivavano Tommaso Natale, come egli stesso dichiarava in apertura del suo trattato. Premettendo l’intenzione di riflettere sulle ragioni per le quali, nonostante «la troppa severità delle pene, che le leggi minacciano e la frequente ed esatta esecuzione di essesi commettano pur non di meno con tanta frequenza delitti così enormi e così inumani», in una lunga nota introduttiva, il marchese raccontava di aver scritto l’opera nei suoi anni giovanili, ben prima che fosse pubblicata quella del Signor Beccheria84, e che solo per una forma di ritrosia non si fosse deciso a darla alle stampe: le ragioni, probabilmente, risiedevano nel timore di un ulteriore condanna da parte dell’Inquisizione, che adesso gli avrebbe nuociuto rispetto ai ruoli conquistati in seno alla amministrazione borbonica. Un caro amico, l’editore Bentivenga, lo aveva sollecitato a farla inserire negli Opuscoli Siciliani, ed egli aveva acconsentito proprio perché «rileggendo il Trattato del sopra laudato Autore» aveva rilevato che «io ho proposti con più di metodo, di distinzione e di chiarezza alcuni di quei principi, e di quei pensieri che egli in forma di oracolo, ed in uno stile troppo laconico, e per cosi dire aforismatico ci ha proposti. Egli ha voluto senza dubbio imitare la concisa maniera, e la quasi necessaria confusione del Signor di Montesquieu nel suo spirito delle Leggi. Ma il dotto Presidente non ci lasciò se non che un abbozzo del suo troppo vasto, ed illimitato disegno». Uno stile troppo asciutto, però, non era confacente a una materia quale quella dei delitti, e delle pene. «Egli poi il Signor Beccheria (uomo certamente degno d’ogni lode a cui deve molto l’Italia per la fama, che si è con le sue degne Opere anco tra gli stranieri acquistata) fonda tutta la base del suo sistema su d’un certo principio d’una soverchia equità, che sembra a prima vista bella, e benefica, quando ché si considerano le cose in astratto; ma che non è certamente compatibile colla lunga pratica, e colla diligente esperienza nell’umana Società. E questa stessa esperienza è stata quella, a mio credere, che ha mossi i saggi Legislatori a concedere tanto diritto al Fisco sopra i delitti, e sopra i delinquenti, che quantunque appaia a prima vista ingiusto e soverchio, è pur nondimeno assai necessario, e assai conveniente, perché si tengano in freno gli Uomini corrotti, e si stabilisca il buon ordine e la sicurezza dello stato Civile»85. Gli uomini, difatti, sono per natura portati al mal fare, ed è necessario che la violenza sia respinta eguale violenza. I codici penali sono a torto considerati disumani in quanto contengono leggi «che pajono troppo crudeli, e troppo tirannicamente proposte; ma quando si tratta di leggi, perché se ne faccia un giusto, ed esatto giudizio, bisogna che prima si esamini la vera storia di esse, voglio io dire, le varie circostanze, i tempi diversi, i luoghi, e le distinte occasioni, in cui furono esse promulgate; ed allora si cesserebbe forse di dar la taccia di barbari, ed iniqui a quei saggi Legislatori, che in vece di uno stolto capriccio, di una poco saggia crudeltà, non ebbero certamente in mira, quando le promulgarono, che il ben pubblico dello Stato, la quiete, e tranquillità dei buoni, e pacifici Cittadini»86. I delinquenti infrangono il patto sociale; quindi divengono nemici dello Stato. Contro di loro, pertanto si deve applicare uno ius belli. Chi li uccide, non è un traditore del genere umano, bensì «un ministro del pubblico bene. I Rettori de i Popoli non sogliono per lo più consultare che le circostanze dei loro presenti tempi e secondo i mali che occorrono, vi adattano i confacenti rimedi»87.

61E ancora: «Non è né la troppa severità delle pene né il frequente uso di esse, che le rende efficaci, bensì il saperle adattare, e dispensare quantunque meno severe fossero e meno spesse. Anzi sostengo che il supplizio della morte non è forse il mezzo più adattato per prevenire, ed estirpare i delitti, ed imprimere negli animi dei sudditi quella necessaria idea di timore e di spavento, perché si astenessero di commetterli; come che si giudichi e sia effettivamente il maggior male, che possa minacciargli. Vi parranno forse strane le mie proposizioni; ma nel discorrere le cose politiche è necessario, che ci allontaniamo dall’astratto, e dall’ideale, e ci contentiamo meglio di esaminare le cose per gli effetti, e per le esperienze»88.

62Seguiva la riflessione giusnaturalistica. Gli uomini sono accomunati da principi che li inducono alla socialità, indottivi dalla stessa Natura; ma per vivere in una perfetta società, tutte le loro voglie, i loro fini e le loro azioni dovrebbero tendere al bene pubblico «a preferenza del privato»; invece l’uomo «diviene cattivo […] né cerca, se non che quelle cose che gli pajono più adatte a produrre il suo vantaggio, e il suo utile»89.

63L’uomo, dunque, è un essere imperfetto, un misto di virtù e di vizi.

64Formatesi le società civili, la ragione sperimenta quanto per natura gli manca per vivere in una comunità ordinata. Ecco che al diritto naturale è necessario affiancarecerte artificiali regole che limitino il disordine del comportamento umano per far prevalere il bene pubblico rispetto al privato. Tali regole sono le leggi civili, che mutano così come mutano gli usi e costumi di un popolo e differiscono tra loro come diversi sono i vari Paesi. Tuttavia, ed ecco l’eco leibniziana, la ragione ha solo imitato l’originale piano naturale: «la Natura ha principiate, e la Ragione ha perfezionate le Società civili»90.

65Ma in una società civile, quale efficacia avrebbero le leggi considerate in assoluto, solo in forza del patto sociale? L’uomo, più portato a perseguire il bene individuale che quello collettivo, si farebbe sopraffare dalle passioni; pertanto i legislatori hanno affiancato alle leggi la minaccia della pena nel caso esse siano violate. La paura del castigo è il freno delle scomposte passioni umane. «Il timore infatti che eccita nel cuore degli Uomini la minaccia d’alcun male risvegliando ancora l’idea di miseria, in cui saremo contravvenendo alla Legge, è naturalmente capace a presentarci vivamente d’innanzi l’immagine dell’amor proprio attissima a persuaderci ciò, che sia il nostro maggior bene. E lo stesso timore che suole meravigliosamente opprimere lo spirito nostro è un rimedio molto potente perché le passioni, che ci portano al mal fare, ci stimolino meno, e sieno meno efficaci ed attive»91.

66Le pene sono necessarissime perché gli Uomini possano vivere pacificamente in società; producono lo stesso effetto che hanno le medicine per il corpo, correggendo gli umori peccanti dei soggetti nocivi alla società; non fanno, di certo, divenire veramente, ed internamente virtuosi. Ogni risultato che si voglia ottenere con la forza «ci ributta: né può ella far altro, se non che soverchiarci, e strascinarci al nostro dovere; ma non mai ci induce a far sì che lo pratichiamo volontariamente, e per ragione».

67Manca una riflessione approfondita sul concetto di contratto sociale, e una nuova teorizzazione del medesimo. Per Natale, gli uomini hanno dentro di loro certi principî, che li inducono a cercare la società con altri uomini, ma l’unione di tante parti è difficile. E, qualsiasi cosa possano dire in merito Grozio, Puffendorfio, Cumberland, ed altri come se poco conoscessero la natura nostra, e nulla il disegno del sapiente Creatore, osserva che tali principî non si deducano mediante lunghi e penosi raziocinj, ma, al contrario ricercando per poco dentro se stessi e riflettendo con attenzione sulla storia delle umane azioni. E così riflettendo, si scopre che non è data una perfetta, pacifica, e universale società tra gli uomini. Ecco perché Hobbes parla di una perpetua guerra, non per principio di diritto, ma di fatto: non per acquistare un diritto di nuocerci ma perché diveniamo prudenti nel non fidarci troppo, e guardarci dell’altrui insidie92.

68La ragione non ci invita che a difenderci. Ed è tra Hobbes e, ancor più, Machiavelli, che si dipana la visone antropologica del Natale; non dimentichiamo che il Segretario Fiorentino fu oggetto della sua ammirazione e dei suoi studi93. E che ripercorrendone il pensiero, Natale enucleava la propria concezione della storia, vista nella sua funzione in rapporto alla politica: gli uomini, con le loro passioni e desideri, rimangono eguali a se stessi; mutano gli accadimenti esterni, non la natura umana, sicché dalla storia si può ricavare una a lezione politica fondata sull’esperienza.

69Anche Beccaria parte dal concetto di contratto sociale e da una analisi che rivela, come è stato osservato da Philippe Audegean, una percezione anti-giusnaturalistica del patto consociativo e pessimistica della natura umana. Gli uomini, incapaci di distaccarsi dall’interesse privato, solo per sfuggire alla guerra hanno dato il consenso civile rinunciando alla libertà originaria, e appare evidente come, rispetto a questa visione, quella del Natale sia del tutto consona. Ma la malvagità intrinseca all’uomo non giustifica, per Beccaria, l’idea hobbesiana che l’assolutismo sia l’unico sistema per contrastare la forza disgregante degli interessi particolari. Tutt’altro. Lungi dal legittimare un potere senza limiti, le rinunce fatte dagli uomini nel cedere al sovrano il potere sono state le minime necessarie; e pertanto, acconsentono di essere oggetto di punizione con l’unico fine di evitare la violenza. La pena non rieduca il condannato, né deve essere espiazione, ha solo una funzione deterrente proiettata nel futuro, e in questo, rileva Audejean, consiste la novità del contratto sociale ideato da Beccaria, che «si colloca al di fuori di ogni concezione morale ereditata dalle diverse concezioni giusnaturalistiche: gli uomini non hanno acconsentito a essere puniti in nome di ciò che hanno fatto […] ma in nome di ciò che faranno gli altri, come provvedimento di sicurezza pubblica. La punizione non rende male per male, ma previene i mali futuri. […] L’intera vita civile trova la sua giustificazione nella felicità che promette e procura»94.

70Questo “balzo in avanti” nella concezione del Natale non c’è. Manca l’anelito al futuro e, per di più, a un futuro più luminoso. L’antropologia pessimistica è fine a se stessa. Si arrotola sul problema del male: compiere il male illegalmente/infliggere il male legalmente. Pertanto, negandone la funzione redentiva, la pena non trova altra ragione d’esistere se non punire il delinquente o fungere da esempio «perché temendo la stessa pena non si caschi negli stessi delitti. E c’è finalmente dove la prudenza politica voglia la distruzione del delinquente; perché in certi casi potrebbe succedere, che la stessa memoria venisse di nocumento alla Repubblica». A proposito delle motivazioni dell’annientamento fisico del delinquente, Natale chiama in causa Grozio: «Il Signor Grozio ne ammette un altro, cioè la soddisfazione, e l’utile di colui che è stato leso»; tuttavia ne prende le distanze, commentando che la soddisfazione non debba consistere «nella compiacenza del dolore del delinquente ciò che sarebbe inumano, e da sfuggirsi, ma bensì nella sicurezza, perchè non venga di nuovo offeso, o possa in appressò incorrere in un maggior pericolo; ciò sì deve includere nell’oggetto generale delle pene, che è quello della pubblica pace, e sicurezza»95. E poiché l’obbiettivo generale delle pene è proprio quello della pubblica sicurezza, nello stabilire le leggipenali si deve anzitutto avere riguardo «alla costituzione del governo, all’inclinazione ed indole dei sudditi, al diverso ceto delle personee finalmente nell’esecuzione diesse si deve riguardare la natura dei delitti e seconda ciò proporzionarle»96.

71Un saggio legislatore governa attraverso un giusto sistema di pene e ricompense e introduce corretti principi di morale e di religione97. Educa il popolo in generale, non “rieduca” il delinquente.

72Per Natale, il problema non è tanto utilizzare la pena, quanto utilizzarla nel modo sbagliato e, a differenza di quanto pensa Beccaria, perché mai dovrebbe essere la minima applicabile? Egli non ritiene necessario sforzarsi di far soffrire il meno possibile, o di fare minor violenza sul corpo del condannato98. L’analisi che conduce è così decisamente anti-illuminista, da indurre a ragionare sulla scarsa penetrazione delle dottrine illuministiche in Sicilia, se si considera che il marchese fa parte della élite culturalmente più avanzata e, in più, ha diretto contatto con i riformatori napoletani. La società si compone di nobili, cittadini e plebei. Ad ogni ceto corrisponde un principio fondamentale: dei primi è proprio l’onore, dei secondi l’interesse e dei terzi il timore. Quindi è a questi principi, egli afferma, che le pene devono essere commisurate, ed è ovvio che per le persone infime i castighi debbano essere più rigorosi.

73Peraltro, anche i Romani commisuravano al rango dei cittadini le pene. In contrapposizione al Beccaria, ricordava che «il celebre Autore de’delitti e delle pene nel § 21, ove tratta delle pene dei Nobili, par che si opponga a questo mio sentimento, ed eccovi le sue precise parole: “Io mi restringerò alle sole pene dovute a questo rango, asserendo che esser debbono le medesime per il primo e per l’ultimo Cittadino. […] A chi dicesse, che la medesima pena data al Nobile, ed al Plebeo non è realmente la stessa per la diversità dell’ educazione, per l’infamia che spandesi su di un’illustre Famiglia, risponderei, che la sensibilità del reo non è la misura delle pene ma il pubblico danno tanto maggiore, quanto è fatto da chi è più favorito; che l’uguaglianza delle pene non può essere che estrinseca essendo realmente diversa in ciascun individuo; che l’infamia di una Famiglia può esser tolta dal Sovrano con dimostrazioni pubbliche di benevolenza all’innocente Famiglia del reo”99. Ma egli direbbe bene, quando si dovessero considerare le pene, come una vendetta dei delitti commessi e non già come una medicina di essi […]. I saggi Legislatori dunque devono su ciò comportarsi, come i buoni Medici usano dei loro rimedi per guarire le infermità dei corpo umano. Essi non solo applicano i medesimi secondo la diversità dei diversi mali; ma secondo la diversità dei diversi temperamenti, delle complessioni, degli abiti, dell’età. Sarebbero altrimenti infruttuosi i rimedi; ed inutile diverrebbe l’arte loro […]. Mancando ciò, tutto va in confusione, ed in disordine, e gli stessi rimedi diventano veleni perniciosissimi, che corrompono tutto il sistema, anzi insensibilmente lo cambiano e lo deteriorano. Egli è però verissima cosa, che quando uno dei sudditi addetto ad un ceto superiore pecca contro le massime del suo particolare sistema; la pena deve certamente proporzionarsi al delitto, digradando, per cosi dire, il delinquente; onde possano spaventarsi gli altri suoi pari, e cosi ridursi nella necessità di seguitare quei principi che devono dirigerli e governarli»100.

74A questo punto ecco la visione della pena. Perche si rendano efficaci le pene non è necessario che siano crudeli ma che siano adattate alle varie circostanze. Chi governa non deve lasciare impunito alcun delitto, e la pronta esecuzione del castigo deve incutere nell’animo dei sudditi un timore tale da considerare la pena immediata e necessaria conseguenza del delitto. Dopo l’esposizione della teoria del diritto penale, il marchese critica il sistema processuale, che necessita una riforma, non perché sia reso più umano, bensì più efficace: «Si ritardano troppo i processi, e le inquisizioni criminali, onde l’esecuzione n’è troppo lontana: di modo che cancellandosi negli altrui animi la necessaria idea d’orrore pel commesso delitto, succede quella di compassione pel delinquente, vedendosi patire. In altri Paesi col solo mezzo del subito castigo si sono estirpati i più atroci, frequenti e nocivi delitti». Fermo e duro, dunque; ma non è tutto: «E se alcuno mi opporrà forse che non dandosi il debito corso alle questioni criminali potrebbe succedere il danno di vedersi condannati gl’innocenti, io rispondo, che quando si tratta d’evitare un maggior male, certo non si deve in alcun modo curare l’apprensione di un minor male incerto». Gli amministratori di giustizia, certo, devono operare con cautela per evitare di sbagliare, ma non vi è dubbio che non sia poi un gran male «privare la Repubblica di un membro putrido, e nocivo, dato ancora che fosse per caso innocente del tale imputato delitto»101.

75Siamo in pieno Antico Regime; dopo tutto, se il concetto di mancata proporzione fra delitto e pena risiede essenzialmente nell’indiscriminato uso della forca, per il Natale l’uomo era troppo accostumato alla morte per viverne la minaccia come deterrente efficace; egli ci consegnava la più diretta giustapposizione con l’ umano Beccaria, proprio quando ne prendeva le difese, nella breve lettera in calce al suo libro102, nella quale sosteneva il riformatore milanese avversando le idee del giurista francese Simon-Nicolas Henri Linguet103, il quale propugnava un ampio utilizzo della pena di morte104; nel contempo, tuttavia, ancora una volta ribadiva quanto la pena capitale fosse necessaria, e dichiarava: «Differisco in questo articolo dal signor Beccaria in ciò che egli voglia bandita quasi affatto la pena capitale; quando io credo che non sia solamente giusta, ma necessaria, in tutti i casi straordinari e in tutti quelli dove la malvagità e tristizia dei delinquenti fusse di sommo odio allo Stato […]. Intorno poi al diritto, che si nega alle supreme potestà di minacciare la pena della morte, e di condannare in effetto i delinquenti, io la penso come il Signore di Linguet». 105.

76Aveva peraltro già ben illustrato il suo pensiero nel trattare dell’efficacia delle pene: «Io non voglio, che alcun creda che io voglia affatto bandita dallo Stato la pena capitale. Siccome ho detto, nei casi dove la sola memoria del delinquente potrebbe riuscire di nocumento come per esempio nell’infame delitto della ribellione, è ella utilissima. […] dove i delitti si vedono enormissimi, e devesi riputare come obbietto di sommo odio il delinquente, usata con prontezza, di rado ed in una straordinaria manieraacquisterebbe certamente la sua efficacia. Credo bensì, che negli ordinari casi si potrebbe trovare un metodo più efficace e meno violento di gastigare, che essendo meno atroce, e meno estremo della pena della morte potesse pur nondimeno produrre più di effetto, e più di apprensione nei cuore dei sudditi e fosse più capace di proporzionarsi alla varia natura ed ai diversi gradi d’enormità dei delitti». Un efficace sistema punitivo, per scoraggiare dal delinquere gli uomini più vili e protervi, per i quali sono vani i concetti di onore e di virtù, deve riuscire a inoculare «quel timore di dover durare una vita sempre affannosa e corporalmente e sensibilmente infelice, giacché eglino non sanno allontanarsi un passo oltre il sensuale. La massa dei sudditi comprende solo il dolore fisico. Null’altro. E quale mezzo più efficace per incutere paura che «l’amputazione de’ membri a misura della gravezza del delitto lasciando vivo, infelice ed esposto all’altrui ignominia derisione il delinquente? E ciò nei delitti enormi, ed atroci. In quelli poi minori trovo molto ragionevole la pratica di alcuni Paesidove è prescritto di marcare nelle parti più esposte del corpo con segni durevoli di obbrobrio il delinquente perché ognuno se ne guardi e fosse1’obbjetto dell’universale dispregio sfuggendo ognuno così la cagione di divenirlo. […] Ora di tali infelicità, e di tali corporali incomodi ognuno ha un’idea chiara, ed intuitiva, ognuno potendola riferire senza tanto riflettere a se stesso: perché chiunque conosce ad evidenza, qual pena sia la mancanza di uno, o due braccia, la privazione degli occhi; quale deformità e derisione apporti l’aver monco il naso o le orecchie, e simil cose e quel che è peggio divenire il segno della scellerataggine e delle risa». Occorrerebbe ripristinare 1’antico uso del Taglione, proporzionando, per quanto si può, la pena al delitto. E ancora, fare in modo, che i delinquenti siano di utilità per lo Stato «rendendoli secondo il loro delitto servi della pena, ed impiegandoli nei pubblici lavori, e nei bisogni pubblici dello Stato, come noi vediamo qui praticare con quelli che son condannati a remigare sulle galere; ma un tal uso si potrebbe rendere più utile, e più regolare quando succedesse più frequente una tale condanna». Mancano l’istanza di mitezza, l’anelito alla diminuzione della violenza beccariani106.

77Infine, Natale trattava della tortura, a suo dire molto praticata in Francia come nel Reame borbonico, bandita invece dagli inglesi. «Moltissimi Autori hanno scritto contro una tal pratica ed io non la condannerei assolutamente quando in certi casi particolari fosse usata come gastigo; ma il valersene come un mezzo d’appurare un delitto è quello, che io condanno sulle brevi seguenti riflessioni: I. lo sforzare chiunque a confessarsi reo di sua propria bocca è contro tutte le leggi della umanità e della natura. II. una confessione per un tal mezzo estorta si deve presumer nullaperché forzata dalla violenza dei tormenti. E se alcuno mi opponesse la difficoltà di appurare i delitti intrigati senza un tal mezzo: io risponderei che quantunque in Inghilterra, e in altri Paesi non se ne conosca la pratica, pur nondimeno non manca il metodo di ottenerlo e senza inconvenienti; oltreché egli si vede bene spesso succedere che gran parte di persone di robustissimo temperamento e di spirito non vacillante sogliono soffrire in pace cosiffatto atroce tormento che chi è più debole non può». Sotto tortura può accadere che un reo si dimostri innocente e un innocente si dichiari colpevole; il che prova come la tortura non sia necessaria.

78Con riguardo all’efficacia delle pene prescritte, anzi, per usare il suo lessico, minacciate dalla legge, il marchese ammoniva nuovamente che, affinché producessero gli effetti desiderati, bisognava che fossero ben regolate piuttosto che atroci, e soprattutto esattamente proporzionate non solo dalle leggi dello Stato «ma ancora allo spirito diverso dei vari ceti che lo compongono ed alla natura ed indole dei delitti»107.

Conclusioni

79Se il crimine è opaca follia, in un mondo sognato la pena è un narcotico che culla le aspirazioni all’ordine e legalizza il dialogo col luogo in cui si è nati. Nel Settecento, a Palermo, ogni questione è ancora mediterranea; a Milano è europea108.

80Pur nella comunanza linguistica, l’idioma siciliano si avvale dell’uso continuo del sofisma, delle iperboli, del paradosso, della vivacità delle conversazioni galanti, delle dispute nei circolo dei nobili in cui personaggi da romanzo dibattono sull’uguaglianza, la giustezza delle pene, l’equità fiscale, l’istruzione pubblica, dando luogo a innumerevoli dialoghi che ripropongono, talvolta con le stesse parole di trattati o di divertissements intellettuali, le affermazioni e le idee espresse da un Tommaso Natale, come pure le tesi ridondanti e volutamente provocatorie di un Antonio Pepi sulla ineguaglianza naturale degli uomini o quelle del Malerba sulla bontà della tortura109.

81Beccaria è destinato a volare alto; Tommaso Natale rimane ancorato alla periferia del pensiero europeo da una tradizione iconografica, che, in terra di Sicilia, strato dopo strato, è divenuta un masso inamovibile.

82Ai due Autori, aristocratici, colti, membri di circoli elitari e di logge massoniche, appartiene una visione comune; sono ambedue alieni dall’idea che il diritto possa nascere spontaneamente: «il diritto è sempre pensato e voluto in alto, ovviamente da riversare sulle masse popolari con l’atteggiamento di chi elargisce e benefica»110. Il popolo rimane sullo sfondo, col ruolo di personaggio ideale111, una nozione astratta. Nell’introduzione de Dei delitti e delle pene, nel paragrafo dedicato A chi legge l’Autore dichiara di rivolgersi ai responsabili del bene comune, della pubblica felicità, non certo al «volgo non illuminato e impaziente»112, distante dalle opinioni volgari. Nella visione di Tommaso Natale, il popolo è capriccioso caparbio, risoluto, bizzarro: sembra proprio che giustifichi la troppa severità delle leggi113!

83Nelle due opere è assente la riflessione sui “motivi a delinquere”, e, sebbene la nascente classe borghese abbia appena inaugurato una nuova stagione, rompendo il vecchio equilibrio sociale, siamo ancora lontani dalla ricerca delle cause del reato.

84Eterna, cambia per essere stabile l’idea dello Stato e quindi della costruzione, quasi una costruzione urbanistica, della nuova dimensione del penale. Il progetto settecentesco è ambizioso, ancora barocco sebbene sia un folgorante miracolo innovativo e razionale. Come un antico decoro di statue che dialogano in simmetria, immarcescibile permane il retaggio del passato, coesistente con l’esaltazione pura e gloriosa della ragione da parte delle élites del pensiero, mentre nasce il moderno, primamente matematico in quanto la matematica è il più estremo dei linguaggi. Dalla scienza origina la cultura e la strategia di incivilimento, la scienza offre le spalle sulle quali montare per vedere più lontano, in essa si individuano i geni della contemporaneità, ben prima delle scissione dell’unità dei saperi e dell’attuale disincanto verso di essa114: per diritto di nascita, la scienza preesiste alla storia.

85Nella più fantastica delle isole, tra caratteri arabi e greci e latini si decifra a stento una delle tante possibilità, privi come fummo, in Sicilia, di un lanzichenecco che chiudesse il Rinascimento, quindi di un autoctono Voltaire, impegnati piuttosto a creare ornate architetture che, come i templi e i teatri di un mondo lontanissimo e continuamente evocato, continuassero, o meglio, fossero in grado, di comunicare con l’esterno, con un paesaggio mozzafiato o struggente o aspro fino al lunare. Condizionante. Pesantemente condizionante.

86Nel secolo della ragione, l’Illuminismo in Sicilia non arriva a creare nessuna forza realmente capace di contrapporsi all’antico. Solo uno sparuto drappello di ingegni isolati avrebbe voluto che in quest’Isola non stesse il nostro passato ma il nostro futuro.

87Attori innamorati del ruolo, kagemusha di noi stessi, restiamo nella suprema impostura115 di esternare meraviglia rispetto alla ripetitività del codice del guerriero, o di ogni codice umano, mentre nell’intrico di palazzi -ideali e materiali- innalzati senza programmazione architettonica (ahi, perduto genio d’uno Juvarra!), un paio di colpi di cannone ben centrati fra i due estremi, aristocrazia e clero, avrebbero sviluppato la città e affinato società e cultura, sempre restate sotto il segno del timore. Nell’incertezza del presente e nella nebulosità del futuro, la concentrazione totale nel passato diventa narrazione, ogni singolo elemento dell’esistente si flette nel vento della gloria che fu, si annacqua la percezione del concetto di velocità dell’attuale. Come risultato finale, la meditazione, il pensiero. Niente spazio all’azione. Eccoci dunque al racconto antiquariale, al rassicurante ordine descrittivo dell’erudizione.

88Ordine dove tutto si accumula, talora senza risultato. Servono, poi, i risultati? Forse ai matematici, ma li abbiamo già cassati dalla placida vita degli storici.

89L’ansia di sapere, di interpretare, apre finestre spazio-temporali per un possibile dialogo con la realtà visiva. Articolato, ad esempio, con un icastico dipinto, un San Girolamo di Antonello, in una dimensione dell’immaginario che porta dalla iniziazione numerica, obsoleta ormai, a quella più sofisticata di tutte, ai misteri arcani di spazi ben definiti e corrispondenti a diversi livelli di conoscenza, fonti di luce alterne, porte da oltrepassare per lasciarsi alle spalle il mondo materiale per abbracciare quello spirituale, in un paesaggio stavolta torvo e mentale, più che simbolico, onirico.

90E sulla soglia di un mondo come fatato (un esilio, forse?) “uno pavone, un cotorno e un bacil da barbiero”116 rimandano a immortalità, redenzione, passione.

91Tutto è vero ed è fantasia. Ascesi a un altro piano, ove il bosso è perseveranza e il geranio pathos, mentre il gatto maligno gli volge le spalle, il leone solare va incontro al saggio che, infine, raggiunge equilibrio e pienezza.

Aufsatz vom 15. Dezember 2015
© 2015 fhi
ISSN: 1860-5605
Erstveröffentlichung
15. Dezember 2015