Zeitschrift Aufsätze

Dolores Freda*

“Clandestini”: il commercio dell’emigrazione in età liberale

1La Legge n. 23 del 1901, prima legge “sociale” in materia di emigrazione, caratterizzata, rispetto alla legge Crispi “di polizia” del 1888, dall’introduzione di una serie di misure atte ad assicurare una maggiore tutela agli emigranti sia in patria, che durante il viaggio e all’arrivo nei Paesi di destinazione, sanzionava espressamente la c.d. emigrazione clandestina. Si trattava del reclutamento degli emigranti da parte di vettori clandestini, privi cioè della necessaria patente ministeriale o i cui rappresentanti fossero al servizio di vettori clandestini: ciò che veniva sanzionato non erano dunque le modalità di espatrio degli emigranti, bensì quelle del loro reclutamento. Nei casi di emigrazione clandestina (proliferata, in assenza di efficaci controlli da parte delle autorità governative, fino a circa ventimila partenze l’anno fino al 1901) la legge, attraverso l’operato del neo istituito Commissariato Generale, andava quindi a reprimere e punire soltanto l’attività dei reclutatori che avessero favorito l’espatrio privi della necessaria autorizzazione governativa, mentre l’emigrante, libero di imbarcarsi in un porto straniero1 o di scegliere un vettore non autorizzato per partire, avrebbe perso l’assistenza cui la nuova legge gli dava diritto dal momento dell’acquisto del biglietto a quello dello sbarco nel Paese di destinazione2.

2Le norme in materia di emigrazione clandestina, oltre a costituire l’esito di un lungo e travagliato dibattito politico in materia di emigrazione − dibattito originatosi a partire dagli anni ‘60 dell’Ottocento, sviluppatosi con i primi episodi di espatri di massa e protrattosi sterilmente fino agli inizi del XX secolo −, appaiono essere chiara espressione delle contraddizioni che attraversavano la società e la politica italiana di fine secolo. Tali norme, quasi ponendosi come una lente d’ingrandimento che ci consente di osservare da vicino, sia pure attraverso una semplificazione di dinamiche complesse, le istanze e gli umori che agitavano l’età liberale, rivelano la quasi totale inutilità degli interventi dello Stato in materia migratoria. Il tentativo di controllare e frenare l’emigrazione prima, di regolamentarla poi, avrebbe avuto l’effetto di determinare una via via maggiore “burocratizzazione” degli espatri nel tempo. Ciò avrebbe ingenerato nelle masse indigenti (e generalmente ignoranti) degli emigranti una maggiore domanda di assistenza che, in assenza di risposte efficaci da parte dello Stato, avrebbe avuto l’esito, tanto paradossale quanto scontato, di incrementare il numero e le attività (più o meno lecite) degli intermediari e, nel contempo e quale ulteriore conseguenza della loro infaticabile e non sempre irreprensibile azione, di contribuire all’ingrossarsi – piuttosto che alla riduzione auspicata dal legislatore – dei flussi migratori.

1. Il dibattito sull’emigrazione: il ruolo degli agenti

3Il dibattito sull’emigrazione in Italia fu fin dall’inizio caratterizzato da estrema superficialità: coerentemente con le ideologie e le istanze economico-sociali presenti nel Paese a partire dall’Unità, il fenomeno migratorio venne costantemente letto nell’ottica riduttiva delle sue conseguenze sociali ed economiche, senza approfondirne in alcun modo le cause. E tale impostazione determinò un prevalente atteggiamento di sfavore, se non di aperta diffidenza e sospetto, da parte delle autorità nei confronti degli emigranti.

4Risaliva agli ultimi decenni del secolo la distinzione, adottata dalla statistica ufficiale e utilizzata come strumento di controllo degli espatri, tra “emigrazione temporanea” ed “emigrazione propria”, contrapposte in base alla presenza o meno della volontà, da parte dell’emigrante, di fare ritorno in patria, in base al paese di destinazione (l’emigrazione transoceanica si presumeva definitiva), in base alla partenza o meno con la famiglia e alla professione dell’emigrante. Tale dicotomia, tanto celebre quanto approssimativa, ebbe l’effetto di rafforzare l’atteggiamento di sfavore e diffidenza nei confronti del fenomeno migratorio, gettando sull’emigrazione c.d. “propria” (cioè definitiva) l’ombra del carattere eversivo e rivoluzionario3.

5La stessa “teoria psicologica dell’emigrazione” di Francesco Coletti, statistico ed economista di scuola liberale, il quale − nell’ambito di una più ampia teorizzazione secondo la quale partivano maggiormente gli abitanti delle zone marine piuttosto che montane – affermava che sarebbero stati più inclini ad emigrare coloro che sentivano un minore attaccamento al luogo d’origine e un minore timore per i rischi e la fatica del viaggio, assegnava all’emigrazione una connotazione negativa, attribuendo la capacità/volontà di emigrare a quei soggetti che, “diversi” dagli altri uomini (e, pertanto, “anormali”), erano privi di quei sentimenti, connaturati a ogni individuo, di attaccamento al suolo natìo e di paura dell’ignoto4. Emigrare non era, dunque, considerato “naturale”: se si decideva di partire, abbandonando ciò che si aveva di più caro ed affidandosi a un destino incerto e spaventoso, non si poteva che essere cattivi cittadini o, peggio, individui oziosi e malfamati. Nella migliore delle ipotesi, illusi o raggirati.

6Il dibattito politico in materia di emigrazione fu sin dall’inizio assai acceso e vide le Camere dividersi tra i fautori della necessità del controllo dei flussi migratori da parte dello Stato al fine di evitare la perdita di forza lavoro valida − conservatori e moderati i quali si opponevano all’emigrazione ritenendola una minaccia alla stabilità e alla conservazione della famiglia e della società −, e i sostenitori degli espatri, − socialisti e organizzazioni sindacali, più attenti alle dinamiche economico-sociali che avevano messo in ginocchio le masse agricole −, i quali, valutando positivamente il fenomeno migratorio (temporaneo, più che permanente) per la sua influenza sullo sviluppo dell’organizzazione economica e politica dei lavoratori, ritenevano ogni intervento atto a regolamentare l’emigrazione una inaccettabile forma di compressione dei diritti e delle libertà individuali5.

7Ma il dibattito non riuscì mai a concretizzarsi in una vera e propria politica migratoria. Esso, per quanto appassionato, rimase fermo a un piano teorico, avulso dalla realtà concreta, contrapponendo l’“emigrazione naturale” o “fisiologica”, spontanea, da tollerare o favorire, all’“emigrazione artificiale” o “patologica”, indotta dagli agenti e, pertanto, da scoraggiare6. Fin dall’inizio, dunque, il più generale dibattito sulla bontà o meno del fenomeno migratorio e sulla conseguente necessità di favorirlo oppure ostacolarlo venne sostanzialmente a coincidere con il dibattito sugli agenti di emigrazione e sulla liceità e i limiti dei loro traffici.

8Gli agenti erano stati, infatti, fin dall’inizio dei flussi migratori nell’Italia post-unitaria, figure tanto centrali quanto controverse nel reclutamento degli emigranti e nell’organizzazione dei viaggi di espatrio. Essi, sia privatamente che al soldo di imprenditori o governi stranieri, compivano operazioni di mediazione tra gli emigranti e le compagnie di navigazione gestendo, al tempo stesso, la contrattazione relativa all’acquisto dei biglietti (inclusi i c.d. “prepagati”7) e le operazioni di imbarco8. Le agenzie di emigrazione, generalmente presenti nelle città sede dei più importanti porti d’imbarco per le Americhe9, prima attraverso propri rappresentanti che visitavano periodicamente le zone interne diffondendo, fin nei paesini più sperduti della Penisola, notizie, manifesti e opuscoli che pubblicizzavano i luoghi di destinazione e le comodità dei viaggi, poi più stabilmente attraverso propri rappresentanti e subagenti in loco (specie nelle regioni più povere e, dunque, maggiormente interessate dal fenomeno migratorio: Veneto, Piemonte e regioni meridionali), si occupavano di arruolare emigranti da indirizzare alle compagnie di navigazione che offrivano provvigioni maggiori sul prezzo dei noli.

9Gli agenti furono inoltre, fin dall’inizio, i protagonisti della c.d. emigrazione sovvenzionata: essi operarono infatti, già a partire dalla fine degli anni ‘60 dell’Ottocento e sia pure con alcune periodiche sospensioni, anche come rappresentanti dei governi, delle associazioni di latifondisti e delle società di colonizzazione di alcuni Stati latino-americani (tra cui, principalmente, il Brasile, l’Argentina e il Venezuela10) i quali inviavano in Italia propri emissari, in genere operativamente collegati alle principali compagnie di navigazione, al fine di reclutare il maggior numero possibile di emigranti da inviare per il popolamento e lo sfruttamento agricolo dei vasti territori incolti dei fazenderios locali. Proprio l’emigrazione gratuita promossa dai Paesi sudamericani e da questi ultimi finanziata, vietata dagli Stati europei più sviluppati e in Italia addirittura incoraggiata e agevolata in assenza di una politica migratoria governativa atta a tutelare gli emigranti, avrebbe fortemente contribuito ad ampliare il bacino di potenziali “clienti” degli agenti di emigrazione, rendendo possibile l’espatrio anche alle masse di diseredati privi di alternative.

10Gli agenti, infine, almeno fino agli anni ‘90 del secolo, svolsero la propria attività di reclutamento anche per conto di grandi imprenditori o proprietari terrieri europei o americani: in tal caso si trattava generalmente di soggetti emigrati in precedenza e rispediti dai “padroni” in Italia allo scopo di procacciare ulteriori lavoratori alle ditte di appartenenza. In ogni caso, il raggio di azione degli intermediari era destinato ad ampliarsi in corrispondenza della riduzione dei costi e dell’incremento della rapidità dei trasporti, entrambi frutto dello straordinario sviluppo della navigazione transoceanica (e della definitiva affermazione della navigazione a vapore) iniziato nella seconda metà dell’Ottocento e destinato a protrarsi fino alla prima guerra mondiale11.

11Molte le speculazioni e gli abusi di agenti, subagenti e incaricati senza scrupoli ai danni degli emigranti, i quali, preda di un crescente numero di intermediari12, venivano assai spesso truffati in ordine al prezzo dei noli, ai tempi di attesa per la partenza, a quelli di durata del viaggio, alla data di arrivo, ai luoghi di destinazione e alle condizioni dei piroscafi13. Questi ultimi erano spesso vecchi e cadenti, e a bordo il viaggio era solitamente svolto in condizioni igienico-sanitarie assai precarie e di sovraffollamento (causa, non di rado, dell’insorgenza di fenomeni epidemici), mentre insufficienti erano il cibo e l’acqua a disposizione14. Le truffe e i raggiri rappresentavano una costante dell’emigrazione sovvenzionata, maggiormente degradata: i soggetti reclutati, a causa delle loro condizioni sociali e culturali, erano infatti maggiormente esposti agli inganni e alle malversazioni degli intermediari.

12Il fatto stesso che l’attività di mediazione tra emigranti e vettori non fosse soggetta a una dettagliata regolamentazione e a nessun sistematico controllo quanto meno fino alla fine degli anni ‘80 del secolo, unitamente all’assenza di ogni efficace assistenza e tutela statale nei confronti dei soggetti intenzionati a espatriare, contribuì alla proliferazione indiscriminata di una fitta rete di agenti e intermediari di ogni genere e, nel contempo, – nel vuoto legislativo determinato dai complessi e contraddittori rapporti tra Stato, borghesia agraria e borghesia navale, portatori di interessi contrapposti destinati ad essere composti soltanto con l’emanazione della legge del 1901 – alla diffusione di gravi abusi e malversazioni ai danni degli emigranti.

2. Il commercio dell’emigrazione: “l’intervento” dello Stato

13L’atteggiamento di sfavore dello Stato nei confronti del fenomeno migratorio, unito all’incapacità (o, piuttosto, alla scarsa volontà) della politica di risalire alle cause dello stesso, avrebbe portato a una serie di interventi normativi in materia di emigrazione scollegati tra loro e del tutto inidonei ad affrontare adeguatamente il fenomeno, quanto meno fino all’emanazione della prima legge “di polizia” del 1888. Già a cavallo degli anni ‘70 dell’Ottocento furono infatti emanati diversi atti amministrativi, tutti finalizzati al controllo e alla repressione dei flussi migratori, provvedimenti i quali non facevano altro che richiamare preesistenti leggi di polizia oppure disposizioni contenute nel codice della marina mercantile, finalizzati alla regolamentazione e all’indirizzo (quando non al divieto) degli espatri.

14Il primo provvedimento in materia – contenente, non a caso, un primo riferimento agli agenti di emigrazione − fu la Circolare Menabrea, emanata il 18 gennaio del 1868 a seguito della presentazione in Parlamento dei primi allarmanti dati sugli espatri. Fu il deputato Lualdi a sollevare per primo la questione dell’emigrazione presentando un’interrogazione parlamentare in cui da un lato si denunciavano le preoccupanti proporzioni che il fenomeno migratorio andava assumendo, dall’altro si chiedeva che se ne indagassero le cause e vi si ponesse rimedio. A tali lagnanze il Presidente del Consiglio Menabrea rispose con l’emanazione della circolare, la quale non soltanto imponeva a sindaci e prefetti di vigilare sul fenomeno migratorio impedendo l’espatrio a tutti coloro i quali non disponessero di sufficienti mezzi di sussistenza, ma chiamava in causa gli “arruolatori” di cui gli emigranti erano vittima rinviando, nella sostanza, alla disciplina delle agenzie pubbliche e degli uffici pubblici d’affari – tra cui le agenzie di emigrazione – contenuta nella legge di pubblica sicurezza del 20 marzo 186515.

15Successiva a quella che costituiva la prima presa d’atto e denuncia del fenomeno migratorio fu la Circolare Lanza, emanata nel 1873 dal nuovo Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno. Essa, dopo aver ribadito quanto già disposto dalla Circolare Menabrea, sanciva l’obbligo in capo agli emigranti di impegnarsi per iscritto, e con garanzia da parte di un soggetto solvibile, a sostenere le spese di rientro in Italia in caso di rimpatrio. Il provvedimento raccomandava, inoltre, ai prefetti di vigilare sull’osservanza della legge di pubblica sicurezza, del decreto del 1857 sui passaporti e delle circolari successive da parte di chiunque intendesse istituire agenzie pubbliche (e, dunque, agenzie di emigrazione) e, nel contempo, prescriveva ai sindaci di dissuadere i cittadini dall’espatriare, informandoli sui pericoli provenienti dagli speculatori al fine di porre rimedio alle truffe, alle estorsioni e ai raggiri che gli emigranti subivano da parte di agenti (o sedicenti tali) e compagnie di navigazione.

16Maggiormente aperte e tolleranti le disposizioni della Circolare Nicotera, diramata tre anni più tardi dal nuovo Ministro dell’Interno. Ma il provvedimento, pur abrogando le disposizioni della Circolare Lanza e ridimensionando le limitazioni e le formalità precedentemente imposte (specie in materia di passaporti), che avevano avuto l’effetto di incrementare le partenze dai porti stranieri a danno della marina mercantile italiana, dopo la partenza abbandonava l’emigrante in balìa di se stesso e dei rischi del viaggio. La Circolare insisteva, però, sulla necessità di un’accurata vigilanza sull’attività degli agenti, accusati di indurre “artificialmente”, con le loro lusinghe, l’emigrazione.

17La crescente insistenza sull’opportunità di una disciplina e di un controllo più stringenti sull’operato degli “intermediari” caratterizzò anche il progetto di legge in materia migratoria presentato dal Ministro dell’Agricoltura Gaspare Finali. Esso, pur essendo destinato a non essere mai convertito in legge a seguito della caduta del governo della destra, denunciava, tra i mali che maggiormente affliggevano l’emigrazione, l’attività truffaldina degli agenti ai danni degli emigranti e le condizioni vessatorie dei contratti imposti a questi ultimi da intermediari e compagnie di navigazione (quale, ad esempio, l’imposizione di scambiare lavoro nei luoghi di destinazione in cambio del trasporto)16. Scopo principale del progetto appariva, dunque, quello di reprimere gli abusi perpetrati ai danni degli emigranti e le violazioni delle norme esistenti da parte degli intermediari, considerati i massimi responsabili dei mali denunciati: si proponeva, pertanto, sempre nell’ambito di una più ampia riforma della materia della pubblica sicurezza, l’istituzione in capo ad agenti e armatori di un obbligo di licenza biennale e, al tempo stesso, l’obbligo di prestazione di una cauzione su cui avrebbero potuto rivalersi gli emigranti in caso di necessità; si chiedeva di imporre, inoltre, alle autorità portuali l’accertamento, prima della partenza, del rispetto della legge da parte degli agenti e dell’assenza di inganni a scapito degli emigranti.

18L’intersecarsi, o meglio la coincidenza, del dibattito sull’emigrazione con la polemica pro-contra agenti e, nel contempo, della “libertà di emigrare” dei soggetti intenzionati ad espatriare (da garantire) con la “libertà di far emigrare” degli agenti (da limitare) è testimoniato, oltre che dal Progetto Finali, anche e soprattutto dalla presentazione e discussione alla Camera, nel 1878, di due ulteriori disegni di legge: l’uno dell’onorevole Del Giudice, l’altro degli onorevoli Minghetti e Luzzatti. Il primo progetto, maggiormente restrittivo, in cui centrale era il ruolo delle norme di polizia atte a ostacolare l’emigrazione anche attraverso il controllo dell’attività degli agenti e la repressione dei loro abusi. Il secondo, maggiormente liberale, il quale prevedeva l’istituzione di uno speciale organo di vigilanza, un «ufficio sulla emigrazione» operante presso il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, che avrebbe dovuto occuparsi specificamente della materia migratoria, e nel contempo disciplinava le agenzie (imponendo condizioni di pubblicità, doveri, cautele e sanzioni) senza però voler porre alcuna limitazione alla libertà di espatrio dei cittadini: «Qui non si tratta di impedire l’emigrazione. In un Paese retto da istituzioni libere ognuno deve poter andarsene dove desidera, e l’emigrazione in certi casi può essere, ed è, una sorgente di ricchezza e prosperità anche per la madrepatria. Ma non si può lasciare senza regola e senza disciplina le agenzie di emigrazione, le quali talvolta si convertono in agenzie d’inganni e seduzioni»17. Ancora, in un discorso pronunciato alla Camera due anni più tardi, Minghetti avrebbe affermato che «qui non si vuol porre alcun ostacolo alla libertà d’emigrazione (…). A chi si rivolge dunque la legge? Contro chi è fatta? Si rivolge agli agenti di emigrazione; ed è fatta contro quelli infra essi che vogliono abusare di questo ufficio e, approfittando della credulità delle popolazioni e specialmente di quelle delle campagne, ingannarli e tradirli»18.

19I due progetti, successivamente fusi in un unico testo destinato a non essere mai approvato, videro prevalere le norme di polizia e la competenza del Ministero dell’Interno nella materia migratoria sia pure nel tentativo, rimasto infruttuoso, di conciliare le opposte istanze provenienti dagli estensori. In realtà, all’interno del testo definitivo trovavano espressione le contraddizioni derivanti da un lato dalle pressioni della borghesia agraria ostile all’emigrazione, preoccupata che la diminuzione delle braccia causata dagli espatri avrebbe imposto un aumento dei salari da corrispondere ai lavoratori; dall’altro dalle spinte in senso contrario provenienti tanto dagli armatori, i quali temevano una diminuzione dei loro traffici, quanto dagli stessi agenti, desiderosi di sottrarsi a ogni forma di autorizzazione e controllo. Esito di tale contrapposizione l’impasse e l’immobilismo del governo, la difficoltà della politica di trovare strumenti legislativi idonei alla disciplina del fenomeno migratorio e, dunque, la mancata promulgazione, ancora una volta, di una legge specifica in materia, con conseguente diluizione delle norme relative nell’ambito delle più generali disposizioni della riforma della pubblica sicurezza.

20Dieci anni più tardi la Legge n. 5866 del 1888 trattava la materia, sia pure nell’ambito di un provvedimento specificamente rivolto alla disciplina del fenomeno migratorio, ancora una volta prevalentemente sotto il profilo della pubblica sicurezza. La legge formalmente sanciva la libertà di emigrare «salvo gli obblighi imposti ai cittadini dalle leggi»19: eppure, se da un lato essa garantiva la libertà di espatrio a tutti i cittadini (salvi i limiti previsti per i militari, i quali dovevano essere previamente autorizzati dal Ministro della Guerra), sottoponeva al tempo stesso l’attività di agenti e subagenti a una disciplina piuttosto stringente. Si imponeva a questi ultimi, infatti, l’obbligo di una specifica autorizzazione amministrativa per lo svolgimento di ogni operazione d’intermediazione, la quale doveva essere concessa dal Ministero dell’Interno20, unitamente al dovere di prestazione di una cauzione21; si regolamentava minuziosamente il contratto di trasporto22; si sanciva la nullità di ogni patto con cui l’emigrante si impegnava a prestare la propria opera in cambio del trasporto23; si comminavano sanzioni per i casi di sfruttamento degli emigranti e, in generale, pene severe ai trasgressori delle disposizioni contenute nella legge24; si istituivano le commissioni arbitrali, giurisdizioni speciali per la risoluzione delle controversie tra emigranti e vettori; si sanciva, infine, un limite territoriale all’attività di agenti e subagenti, ai quali si vietava di «percorrere il Paese eccitando pubblicamente i cittadini ad emigrare»25. Ciò nella convinzione, espressa dallo stesso Crispi, fautore della legge, che «altra cosa è fornire informazioni agli emigranti, corrispondere per essi con l’armatore, procurar loro imbarco e via dicendo; ed altra è recarsi in mezzo alla popolazione rurale a determinare un movimento di emigrazione ed a mettere assieme emigranti per un dato Paese, per una data spedizione, per una data impresa»26.

21Il testo presentato da Crispi, contenente non poche contraddizioni, era stato al centro di accese discussioni alla Camera: esso, modificato in senso maggiormente liberale nei confronti degli agenti dalla Commissione della Camera presieduta dall’onorevole De Zerbi – si riduceva la discrezionalità del governo nella concessione della patente, si ammetteva la libertà di propaganda e arruolamento in capo agli agenti, si attenuava il rigore delle sanzioni a loro carico –, fu molto criticato, soprattutto da chi riteneva che, limitando la libertà degli agenti di far emigrare non si potesse non comprimere, inevitabilmente, il sacrosanto diritto dei cittadini di espatriare. Ampia la discussione sulla legittimità e sulle modalità dell’intervento statale in un ambito così delicato quale quello delle libertà fondamentali dell’individuo: se da un lato si auspicava un controllo sull’operato degli agenti (tendenzialmente da parte degli esponenti della destra, i quali proclamavano il dovere dello Stato di impedire le speculazioni degli intermediari ai danni della patria e dei proprietari), dall’altro si riteneva illegittima la limitazione della libertà di emigrazione che ne sarebbe necessariamente conseguita.

22In realtà, si dimenticava che la “libertà di emigrare” e la “libertà di far emigrare” costituivano due facce della stessa medaglia. Si trattava dunque di una discussione viziata ab origine, fortemente contraddittoria e di certo condizionata dai contrapposti interessi economici in gioco provenienti dalla borghesia agraria e mercantile: accanto all’affermazione della libertà di emigrare come diritto naturale imprescindibile, si ammetteva l’esistenza e l’operatività di meccanismi di controllo amministrativo e di polizia nei confronti degli emigranti (sia direttamente, attraverso le norme relative ai documenti di viaggio e alle possibili restrizioni alla libertà di partire, sia indirettamente, attraverso la regolamentazione e la sanzione dell’operato degli agenti), meccanismi la cui moltiplicazione inevitabilmente determinava, nella sostanza, una forte compressione del diritto di espatriare. In realtà la libertà individuale di emigrare, sancita dall’art. 1 della legge del 1888, era nata monca, appesantita da forti limiti stabiliti dalla legge stessa: essa nasceva infatti subordinata agli obblighi militari e, dunque, a superiori e prevalenti interessi generali di ordine pubblico (la tutela della sicurezza nazionale a scapito delle garanzie individuali). Non solo: la norma che in linea di principio affermava il diritto di espatriare liberamente vedeva di fatto ridotta la sua operatività anche a causa dei possibili interventi del potere esecutivo (autorità amministrative cui di fatto erano demandati poteri di polizia) finalizzati al controllo del fenomeno migratorio e alla repressione degli eventuali abusi degli agenti. In definitiva, la posizione di una serie di formalità e procedure burocratico-amministrative finalizzate a regolare e sorvegliare (scoraggiare?) le attività connesse alle partenze, unita al tentativo di controllare e reprimere il “commercio dell’emigrazione” ad opera degli agenti, avrebbero di fatto determinato una forte limitazione – quando non una sua indiretta negazione – della stessa libertà di emigrare riconosciuta dalla legge27.

3. La legge “sociale” del 1901 e la (mancata) tutela degli emigranti

23Lo stretto legame con il potere esecutivo e la conseguente «invasione della pubblica amministrazione nella sfera del diritto soggettivo di emigrare», ancor più evidente a un esame, ancorché superficiale, del dettato normativo della successiva Legge n. 23 del 1901, avrebbe avuto l’esito paradossale di incrementare, anziché ridurre, la più rapida, più agevole e meno costosa emigrazione clandestina28. Sidney Sonnino, cui può essere riconosciuta una delle posizioni maggiormente illuminate ed equilibrate nei confronti del fenomeno migratorio, già a proposito della legge del 1888 aveva ritenuto che delle norme restrittive previste dalla legge, norme di fatto limitative della stessa libertà di emigrare, non avrebbero beneficiato gli emigranti, bensì i proprietari terrieri, e che le troppe prescrizioni imposte non avrebbero avuto altro esito che spingere l’emigrante a ricorrere all’espatrio clandestino29. Sonnino sarebbe nuovamente tornato sull’argomento nella discussione del nuovo disegno di legge sull’emigrazione, affermando di temere che «le troppe formalità, le troppe garanzie, i troppi vincoli possano in qualche modo (…) spingere all’emigrazione clandestina; onde, per voler troppo difendere, ci troveremmo in condizione di non difendere né poco né punto tanta povera gente»30.

24La legge n. 23 del 1901, sulla falsariga di quanto già affermato dalla legge del 1888, ribadiva la libertà di emigrazione «nei limiti stabiliti dal diritto vigente» (compresi i limiti già previsti per i militari), ma al tempo stesso accordava al Ministro degli Esteri la facoltà di «sospendere l’emigrazione verso una determinata regione per motivi d’ordine pubblico o quando possano correre grave pericolo la vita, le libertà e gli averi dell’emigrante»31. Anche in tal caso, dunque, l’affermazione della libertà di espatriare veniva immediatamente compressa dagli ampi poteri di sospensione di tale diritto in capo allo Stato in vista di interessi più grandi. Ma se i limiti sanciti dalla precedente legge “di polizia” del 1888 apparivano dettati da ragioni di carattere militare e di ordine pubblico, ad essi si aggiungeva, nel mutato clima politico dell’età giolittiana caratterizzato da una più matura sensibilità nei confronti dell’emigrazione, una più consapevole volontà di tutela degli emigranti.

25La legge “sociale” del 1901 – la quale sarebbe poi stata integrata da successive disposizioni fino a giungere al Testo unico n. 2205 del 1919, finalizzato a riordinare e rivedere tutta la disciplina sull’emigrazione32 – costituì, dunque, non soltanto il primo concreto tentativo di regolamentazione organica e autonoma rispetto alla materia della pubblica sicurezza del fenomeno migratorio, ma anche il primo strumento di tutela nei confronti degli emigranti e di affermazione dei loro diritti33. La legge rappresentò infatti, nonostante molte delle sue disposizioni fossero destinate a rimanere lettera morta, un primo importante passo avanti in materia di tutela economica e sociale dell’emigrazione, ora – quanto meno formalmente − al centro della previsione normativa. Essa, infatti, non soltanto introduceva una serie di nuove disposizioni a tutela dell’emigrante, ma istituiva anche diversi organismi atti a rendere tale tutela effettiva. La stessa facoltà di sospensione dell’emigrazione sopra menzionata, finalizzata a tutelare gli emigranti dai mali e dagli abusi derivanti dall’emigrazione sovvenzionata, rappresentava una innovazione di chiaro valore “protettivo” rispetto alla disciplina precedente. Ne è sintomatico il fatto che la legge, dopo aver imposto all’emigrante l’obbligo del passaporto (il cui rilascio era esente da ogni imposta di bollo34), ne desse per la prima volta una chiara definizione (emigrante era colui il quale «si rechi in Paese posto al di là del canale di Suez (…) o in Paese posto al di là dello stretto di Gibilterra, escluse le coste d’Europa, viaggiando in terza classe»35), definizione che, pur riferendosi ai soli espatri transoceanici, appariva necessaria per poter accordare agli emigranti le garanzie previste dalla legge distinguendoli da ogni altra categoria di viaggiatori.

26La legge passava poi a disciplinare alcuni organi di nuova creazione, primo tra tutti il Commissariato Generale dell’Emigrazione: esso, istituito sulla spinta di altri esempi europei36 presso il Ministero degli Esteri, accentrava su di sé le funzioni precedentemente esercitate da diversi enti pubblici (tra cui i Ministeri del Tesoro, degli Interni e degli Esteri), e si occupava di monitorare, regolare e disciplinare – in maniera autonoma, ma sotto la sorveglianza dello stesso Ministro degli Esteri − il fenomeno migratorio, gestendo e organizzando i servizi previsti a sua tutela37. Più in particolare, le funzioni che il Commissariato aveva il compito di espletare comprendevano la vigilanza e la disciplina del rilascio dei passaporti, il controllo sull’attività delle compagnie di navigazione e sui rappresentanti dei vettori (ai quali, in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, rilasciava la necessaria patente), la determinazione del prezzo dei noli di terza classe per gli emigranti, la tutela dell’emigrante in sede giurisdizionale, l’informazione attraverso la pubblicazione mensile e la distribuzione gratuita del bollettino dell’emigrazione – contenente informazioni circa il costo dei viaggi, le condizioni dei Paesi d’arrivo, i piroscafi, gli istituti di tutela e previdenza, gli aspetti economici −, la diffusione di circolari informative, guide e manuali utili all’orientamento dell’emigrante, l’assistenza e la protezione a bordo delle navi e nei Paesi di espatrio, la stipulazione di accordi internazionali in materia di emigrazione e di lavoro. Attività nello svolgimento delle quali esso era coadiuvato dal Consiglio dell’Emigrazione, avente funzioni consultive nelle questioni più rilevanti in materia di emigrazione38, e dal Fondo per l’Emigrazione, finalizzato a finanziare i servizi rivolti agli emigranti39.

27Furono poi creati dallo stesso Commissariato degli organismi locali allo scopo di “accompagnare” gli emigranti lungo il viaggio evitando loro le insidie e i raggiri cui erano esposti: i Comitati comunali per l’emigrazione i quali, nonostante lo scarso successo causato dalla diffidenza da parte degli emigranti40 e dalla lentezza con la quale furono mese in atto le prescrizioni legislative, costituivano una sorta di presidio locale assistenziale permanente e gratuito41 volto a informare l’emigrante in ordine a tutte le problematiche relative alla partenza, all’arrivo, al viaggio e alla destinazione42; i patronati di protezione, istituiti a seguito di accordi bilaterali con i Paesi di emigrazione e operanti sia in Italia che all’estero; gli «uffici di protezione, d’informazione e d’avviamento al lavoro» nei Paesi di destinazione43; e gli «ispettori dell’emigrazione» nei principali porti di partenza e di scalo i quali, agendo sotto la direzione del Commissariato e in cooperazione con i prefetti e gli agenti di pubblica sicurezza, avevano il compito di vigilare sulla tutela degli emigranti, con particolare riguardo alle operazioni di imbarco e a quelle ad esso preliminari e successive (incluso il ricovero degli emigranti in attesa della partenza in locande conformi alle disposizioni emanate dal Commissariato)44. Agli ispettori furono attribuite anche funzioni giurisdizionali, essendo questi ultimi tenuti a ricevere i reclami degli emigranti e ad accertare ogni infrazione della legge sull’emigrazione e tutti i reati commessi ai danni degli emigranti o dei loro beni, mentre rimanevano confermate le commissioni arbitrali istituite dalla legge del 1888. Gli «ispettori d’emigrazione viaggianti nei Paesi transoceanici», infine, avevano il compito di visitare «i vapori che trasportano emigranti» e di informare il Commissariato Generale delle effettive condizioni dell’emigrazione45; mentre i medici di bordo, scelti tra quelli della marina militare, dovevano vigilare sull’osservanza delle leggi e dei regolamenti in materia sanitaria e sull’andamento del servizio sanitario di bordo46.

28Per far fronte a quella che è stata definita «una fiorente industria del sottosviluppo»47 , la legge, nell’ambito della regolamentazione delle condizioni di espatrio, fissò i noli di Stato, i cui prezzi venivano ora sottoposti al controllo e all’approvazione del Commissariato Generale48, e stabilì che le compagnie di navigazione fossero sottoposte a più stringenti controlli e limitazioni. Severe le sanzioni penali a carico dei trasgressori delle disposizioni contenute nella legge, le quali non soltanto prevedevano pene pecuniarie e detentive a carico di «coloro che provochino o favoriscano l’emigrazione di una o più persone contro le prescrizioni della legge e dei regolamenti»49 (percependo, ad esempio, compensi ulteriori da parte degli emigranti rispetto al nolo fissato dallo Stato), ma vietavano espressamente «di eccitare pubblicamente ad emigrare» e di diffondere «con manifesti, circolari o guide concernenti l’emigrazione, scientemente notizie o indicazioni false» ai danni degli emigranti50.

29A completamento di tali norme la legge del 1901 abolì gli agenti di emigrazione, attribuendo le funzioni da essi esercitate direttamente alle compagnie di navigazione e ai loro rappresentanti, i quali dovevano ottenere, come accennato, una patente annuale dallo Stato per poter svolgere la propria attività51. In realtà la legge, attraverso la creazione di nuovi organismi (sia centrali che locali) cui venivano ufficialmente demandati compiti fino ad allora svolti da agenti e subagenti ora assorbiti tanto dall’attività del Commissariato Generale che da quella dei comitati locali, dei patronati e degli ispettori di emigrazione, ne aveva in parte esautorato le funzioni svuotandone segnatamente il ruolo. L’abolizione “formale” degli agenti rappresentava però un taglio netto rispetto al passato, una cesura cui il legislatore era pervenuto dopo un acceso dibattito parlamentare. La materia delle agenzie di emigrazione era stata infatti affrontata, nei due progetti di legge presentati sul finire del secolo (il primo, di iniziativa parlamentare, proposto alla Camera dall’onorevole Pantano nel 1896; il secondo, di iniziativa governativa, nascente dall’iniziativa del Ministro degli Esteri Visconti-Venosta nel 1900), in maniera opposta. Il progetto di iniziativa parlamentare riconosceva l’esistenza giuridica di agenti e agenzie, per impedire gli abusi dei quali prevedeva l’imposizione di norme più severe, nella convinzione che soltanto l’esistenza degli agenti e la conseguente concorrenza tra le diverse compagnie di navigazione generata dal loro operato avrebbero potuto impedire che queste ultime dessero vita a cartelli finalizzati a innalzare artificialmente il prezzo dei noli. Al contrario, il disegno governativo consentiva che trattassero con gli emigranti esclusivamente le compagnie di navigazione e i loro rappresentanti prevedendo, di fatto, l’abolizione degli agenti.

30È evidente come, ancora una volta, i diversi e contrastanti interessi economici in gioco alimentassero gli opposti punti di vista contenuti nei due disegni legislativi. Da un lato vi erano gli agenti, i quali rivendicavano la loro azione benefica sul mercato, affermando di impedire, con il loro operato, la costituzione di monopoli da parte dei vettori ai danni degli emigranti; dall’altro le compagnie di navigazione, le quali accusavano gli intermediari di indirizzare i soggetti intenzionati a espatriare alle società (solitamente quelle concorrenti della marineria straniera) che, versando loro provvigioni più elevate, si rifacevano sui servizi agli emigranti riducendone la qualità52.

31Il contrasto tra agenti e compagnie avrebbe dato luogo a un acceso dibattito parlamentare tra liberisti, assertori del regime di concorrenza – i quali ritenevano che non si dovesse porre alcun vincolo all’attività degli agenti, unico strumento in grado di limitare le associazioni dei vettori –, e fautori dell’intervento dello Stato. Dopo tanto dibattere, il disegno governativo avrebbe infine prevalso: al di là della scoperta di un accordo sotto banco tra compagnie di navigazione e agenti (gli stessi i quali ora denunciavano i trusts dei vettori a scapito degli emigranti53!), fitta appariva la rete di inganni cui gli emigranti erano esposti, per cui si ritenne di intervenire da un lato abolendo gli agenti e sostituendoli con i rappresentanti delle compagnie di navigazione, dall’altro vigilando sui prezzi dei noli e sulle condizioni di trasporto imposti dai vettori agli emigranti. Si scelse, dunque, di fronte a quello che era ormai divenuto un vero e proprio esodo e in un clima mutato rispetto a quello dell’emanazione della precedente legge, in cui non era più in discussione la bontà o meno dell’emigrazione (e, di conseguenza, la sua libertà o repressione), di intervenire con una “legge sociale” che, colpendo gli interessi tanto degli agenti che delle compagnie di navigazione, era rivolta – quanto meno sulla carta – alla protezione degli emigranti.

32La sostituzione degli agenti da parte di una rete territoriale di intermediari al servizio dei vettori, rete di fatto spesso costituita proprio dai vecchi agenti e subagenti, ora operanti come rappresentanti alle dipendenze delle compagnie di navigazione autorizzate dallo Stato al trasporto degli emigranti, non avrebbe però risolto i problemi che affliggevano l’emigrazione e ai quali si era pensato di trovare soluzione lanciando un’offensiva contro le agenzie. La sostituzione dei rappresentanti delle compagnie agli agenti ne determinò infatti il mutamento del solo status giuridico − gli intermediari non operavano più autonomamente come in passato, ma erano ora integrati nell’organico delle compagnie di navigazione − ma non delle funzioni. Essi si circondarono, inoltre, di un gran numero di incaricati e procacciatori d’affari, i quali continuavano a lucrare ampiamente e disonestamente sui servizi agli emigranti. Assai frequenti, poi, furono le connivenze tra le autorità locali preposte al controllo dell’osservanza della legge e i grandi armatori, i cui espedienti per aggirare non soltanto la normativa italiana, ma anche quella dei luoghi di destinazione54, contribuirono a rendere incompleta l’attuazione delle misure disposte dalla legge.

33A ciò si aggiunga l’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione dello Stato e quella numerica del personale demandato a svolgere le funzioni previste dalla legge, unite da un lato alla difficoltà da parte del Commissariato Generale di coordinamento delle attività da essa previste e di regolamentazione di una materia inevitabilmente frammentata tra numerosi organi dell’amministrazione statale (specie tra Ministero degli Esteri, il quale spesso interveniva a limitare i poteri del Commissariato stesso, e Ministero degli Interni), dall’altro alla diffidenza degli emigranti nei confronti dei nuovi istituti introdotti dalla legge. Tali elementi, nonostante l’esistenza di una situazione emergenziale divenuta ormai insostenibile, avrebbero reso le disposizioni della legge difficili da applicare, limitandone notevolmente gli auspicati effetti positivi a tutela dell’emigrazioe, mentre molte norme sarebbero rimaste, quanto meno nei primi anni di vita del provvedimento, totalmente inattuate.

4. L’impossibile controllo degli espatri: l’emigrazione clandestina

34Fin dall’inizio dei flussi migratori la politica aveva mostrato la propria incapacità di affrontare il problema degli espatri, limitandosi a chiedersi sterilmente se l’emigrazione potesse essere considerata un bene o un male per l’Italia, una causa di impoverimento della patria oltre che «un morbo morale»55 in grado di generare l’insubordinazione delle masse contadine56 o, al contrario, una «valvola di sicurezza per la pace sociale»57 e una fonte di ricchezza per il Paese, a cui procurava nuovi sbocchi commerciali/coloniali e nuovi capitali attraverso le rimesse degli emigranti. La distinzione tra «emigrazione fisiologica» ed «emigrazione patologica» aveva a sua volta generato un tanto acceso quanto sterile dibattito sul se si dovessero consentire o ostacolare gli espatri e, in tale ultimo caso, entro quali limiti si potesse comprimere, da parte dello Stato, la libertà individuale di lasciare il Paese, dibattito che spesso mascherava interessi diversi e la volontà di sbarazzarsi di masse problematiche rapidamente e a costo zero.

35Ma non si erano cercate soluzioni concrete, e la discussione era rimasta su un piano totalmente astratto. Le opposte fazioni dei favorevoli all’emigrazione e dei suoi oppositori ne avevano perso di vista le cause, il che aveva impedito loro di rinvenire le soluzioni più appropriate al problema, anche per il condizionamento e le pressioni derivanti dallo scontro e dalla difficile mediazione tra gruppi sociali portatori di corposi interessi economici tra loro conflittuali. Le pressioni dei proprietari terrieri, gli interessi della piccola borghesia locale che ruotava intorno al mercato degli espatri58, quelli degli armatori al redditizio traffico di emigrazione, accompagnati da velleità coloniali nei confronti del Nord Africa e dell’America latina all’inseguimento del sogno della costruzione di una «nuova grande Italia», avevano di fatto impedito la messa a fuoco e la soluzione dei problemi alla base del fenomeno migratorio.

36La mancanza di una consapevole ed efficiente politica migratoria, assente almeno fino ai primi anni del Novecento; la commistione di umori reazionari e patriottici da un lato, di istanze liberali e riformiste dall’altro; il conseguente immobilismo e l’incapacità di reperire le misure atte ad affrontare il problema migratorio avevano dato vita a lungaggini e contraddizioni destinate a protrarsi fino agli inizi del nuovo secolo. Ciò non soltanto aveva condotto a un ordinamento legislativo lacunoso e precario in cui venivano privilegiati la via amministrativa e il comodo inserimento dei provvedimenti in materia di emigrazione nell’ambito delle norme di pubblica sicurezza, ma aveva anche contribuito a fare degli agenti di emigrazione il capro espiatorio della questione migratoria. Fin dai primi inefficaci provvedimenti amministrativi emanati a partire dagli anni ‘60 dell’Ottocento, poi in occasione dell’emanazione della legge “di polizia” del 1888 e, soprattutto, di quella del 1901 che aveva sancito formalmente l’abolizione delle agenzie di emigrazione, la polemica sugli espatri si era infatti trasformata in uno strumentale dibattito a favore o contro gli agenti, fin dall’inizio poco e mal tollerati dallo Stato.

37Proprio la parabola degli agenti e le norme emanate per disciplinare il “commercio dell’emigrazione” rappresentano un valido esempio dell’incorenza e dell’inefficacia dell’intervento legislativo statale nella materia migratoria. La sostituzione, ad opera della legge del 1901, degli agenti da parte dei rappresentanti dei vettori, che continuavano a lucrare sull’inefficienza dei servizi predisposti dalla legge con conseguente danno degli emigranti, non avrebbe nella sostanza cambiato le cose, mentre si sarebbero egualmente rivelate inefficaci le altre misure introdotte dal legislatore a tutela dei soggetti intenzionati ad espatriare. Il vuoto lasciato dall’inadeguata e lungamente inattuata disciplina legislativa, insieme agli ostacoli burocratici introdotti dal provvedimento (le norme relative alla concessione dei passaporti, al pagamento dei debiti, agli obblighi militari, alla regolamentazione degli imbarchi, e così via), i quali contribuivano a rendere gli espatri più lenti, difficili e costosi, avrebbero garantito ampio spazio di manovra agli (ancora imprescindibili) intermediari, favorendone le attività e conseguentemente contribuendo ad incrementare, di fatto, l’emigrazione clandestina. Il che paradossalmente, come già evidenziato, non avrebbe avuto altro esito che privare della tutela legislativa e, quindi, danneggiare proprio quegli stessi emigranti che la legge intendeva proteggere: se è vero, infatti, che il reato di emigrazione clandestina andava a colpire esclusivamente gli intermediari, esso di fatto determinava la perdita delle garanzie introdotte dalla legge da parte degli stessi emigranti.

38In realtà, l’esame del lento e inefficace intervento dello Stato nel tentativo di far fronte all’emergenza migratoria di fine Ottocento e inizio Novecento appare dimostrare l’inutilità, o meglio l’impossibilità, di controllare e governare l’emigrazione a meno di una sua totale negazione. Il riconoscimento del diritto di emigrare, espressamente sancito dallo Stato liberale – riconoscimento che pure non aveva impedito l’introduzione di una serie di restrizioni agli espatri –, avrebbe inevitabilmente e sin dall’inizio notevolmente ristretto le possibilità d’intervento e le opzioni di regolamentazione della materia da parte dello Stato, complicando non poco il dibattito politico sull’emigrazione e il suo controllo. Infatti, nonostante l’inserimento nel dettato normativo (sia della legge del 1888 che di quella del 1901) di una serie di vincoli e limitazioni alle partenze, la discussione non avrebbe potuto che condurre alla scontata conclusione dell’impossibilità della negazione della libertà individuale di lasciare il Paese garantita ai cittadini dalla legge59.

39Le stesse misure escogitate nel tentativo di regolamentare ed orientare i flussi migratori si sarebbero rivelate del tutto inadeguate e inefficaci: l’inutile ed eccessiva burocratizzazione degli espatri e i controlli della pubblica autorità da un lato, il tentativo (fallito) di imbrigliare prima, proibire poi, l’attività degli agenti dall’altro, non avrebbero infatti risolto il problema migratorio. Per non dire della oggettiva difficoltà, da parte dello Stato – totalmente impotente dinanzi all’esodo degli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento −, di individuare le stesse violazioni della disciplina legislativa atta a prevenire ed evitare gli espatri (non sempre facile era riconoscere chi intendesse lasciare il Paese in via permanente), di far rispettare le prescrizioni normative in materia migratoria e di sanzionare efficacemente l’emigrazione clandestina. A tal proposito, appare sufficiente ricordare la completa inefficacia della stessa tutela giurisdizionale accordata agli emigranti: al di là dello scarso ricorso, quanto meno fino ai primi anni del secolo, alle commissioni arbitrali dell’emigrazione introdotte dalla legge del 1888 e confermate da quella del 190160, pochi furono i casi giurisdizionali trattati dalle corti ordinarie negli anni a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento61. Anche in tal caso, va sottolinata la non facile individuazione da parte delle autorità non soltanto degli autori, ma anche delle vittime dei comportamenti truffaldini sanzionati dalla legge nell’ambito della fattispecie di “emigrazione clandestina”: molto spesso, infatti, sia gli emigranti ingannati che gli intermediari che li avevano truffati risultavano ormai irreperibili proprio per avere da tempo abbandonato il Paese.

40Unica variabile in grado di orientare e, a tratti, arginare i flussi migratori (probabilmente allora come oggi, in cui il problema da affrontare non è più l’emigrazione da ma l’immigrazione verso il continente europeo) le politiche di emigrazione dei Paesi di destinazione. Valga per tutti l’esempio degli Stati Uniti, meta privilegiata dagli emigranti italiani (soprattutto meridionali) a cavallo del XX secolo, poi abbandonata a favore delle più agevolmente raggiungibili destinazioni sudamericane a seguito dell’emanazione dei Quota Act del 1921 e 1924 che avrebbero vincolato gli ingressi nel Paese a quote prefissate, sancendo di fatto la chiusura della frontiera americana. Sterile e controverso, al contrario, il dibattito politico interno sull’emigrazione; inadeguata e inefficace la regolamentazione dell’emigrazione clandestina prevista dal legislatore: entrambi, diretti più a tentare di arginare gli effetti del problema migratorio che a comprenderne e affrontarne adeguatamente le cause (anche in tal caso, non molto diversamente da quanto avviene oggi), erano destinati a fallire.

Aufsatz vom 20. Dezember 2018
© 2018 fhi
ISSN: 1860-5605
Erstveröffentlichung
20. Dezember 2018

  • Zitiervorschlag Dolores Freda, “Clandestini”: il commercio dell’emigrazione in età liberale (20. Dezember 2018), in forum historiae iuris, https://forhistiur.net2018-12-freda