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Andrea Mazzoleni*

Brevi note in tema di administratio peculii: un concetto classico o un’introduzione giustinianea?

1. Il concetto di administratio peculii nelle fonti.

1Con l’espressione administratio peculii in dottrina si suole indicare l’insieme degli atti di disposizione giuridica che il soggetto in potestà, concessionario di peculio, poteva validamente compiere nella gestione dei beni peculiari.

2Attraverso l’emanazione degli editti de peculio e de tributoria actione e la relativa elaborazione giurisprudenziale il peculio, come noto, divenne a tutti gli effetti un istituto giuridico1: travalicato il confine della prassi, risultò possibile attivare degli strumenti che, ricorrendo determinati presupposti, assicuravano agli aventi diritto una tutela nei confronti del dominus il cui servo, concessionario di peculio, avesse svolto attività lato sensu negoziale2.

3In altre parole, i terzi contraenti con il servo facevano affidamento sul peculio veluti patrimonium e, laddove insoddisfatti, avrebbero potuto intentare l’azione contro il dominus per far valere i propri crediti nei limiti del peculio medesimo3. L’actio de peculio rappresentava, ad ogni modo, il rimedio offerto dall’ordinamento per il caso in cui il terzo non avesse ottenuto altrimenti soddisfazione. Per il caso, cioè, in cui il servus non avesse spontaneamente (ed efficacemente) adempiuto all’obbligazione sorta ex causa peculiaris.

4Ecco allora che, laddove si voglia tentare di ricostruire il normale atteggiarsi dell’istituto peculiare nella quotidiana pratica degli affari, centrale diviene il tema della legittimazione del sottoposto a porre in essere, disponendo dei beni peculiari, atti traslativi e/o solutori validi ed efficaci secondo l’ordinamento giuridico romano, come tali pienamente opponibili e vincolanti per il dominus e, di conseguenza, del tutto satisfattivi per il terzo contraente.

5Anche in questo caso l’interprete deve, in sede ricostruttiva, rammentare il modus operandi tipico dell’ordinamento giuridico romano di età classica: un sistema in cui, il più delle volte, l’innovazione normativa prendeva forma e si consolidava non attraverso dettagliati provvedimenti legislativi di natura positiva ma, piuttosto, in chiave processuale, mediante l’introduzione, nell’Editto del competente magistrato giusdicente, dell’azione (o, più genericamente, dello strumento rimediale) atta a tutelare le ragioni dei soggetti coinvolti laddove il relativo rapporto (contrattuale o, talvolta, meramente fattuale) non avesse raggiunto il suo epilogo fisiologico.

6In questa prospettiva, riconosciuta dal pretore l’esistenza del peculio e la necessità di tutelare i terzi contraenti attraverso la creazione delle azioni de peculio et de in rem verso e tributoria, il soggetto alieni iuris acquistò (più o meno automaticamente, lo vedremo) anche la possibilità di compiere atti di rilevanza giuridica aventi ad oggetto il patrimonio affidatogli4.

7Ora, in presenza di una situazione patologica, a fronte della quale il terzo insoddisfatto invocava in giudizio la responsabilità adiettizia del dominus, il carattere autonomo del peculio, inteso come complesso di beni appartenente all’avente potestà ma gestito dal servus negotiator, emerge chiaramente dalle fonti e, come ampiamente evidenziato in dottrina, si concretizzava innanzitutto nella separazione patrimoniale fra il peculium medesimo e le restanti res domini, nonché nella destinazione funzionale dei beni nel primo conferiti alla soddisfazione dei crediti peculiari.

8Parallelamente, nella disciplina dell’administratio peculii, mi pare sia possibile rintracciare un’ulteriore prova di tale carattere autonomo così come si manifestava al di fuori della situazione patologica che giustificava l’esercizio dell’azione adiettizia contro il dominus. In tutti quei casi, cioè, in cui i rapporti contrattuali intrattenuti dal servus con i terzi fossero giunti al loro epilogo naturale, estinguendosi con un adempimento spontaneo e pienamente efficace, realizzatosi mediante atti di disposizione di risorse peculiari da parte del concessionario di peculio. Ecco allora la centralità del tema dell’administratio peculii ai fini di ogni indagine concernente i contorni e la supposta consistenza soggettiva dell’istituto peculiare: la sola separazione patrimoniale fra peculio e res domini, sufficiente a raggiungere l’effetto della limitazione della responsabilità del dominus in sede di accertamento giudiziale, di per sé non basta alla configurazione di quell’autonomo centro di imputazione di rapporti giuridici che, in base alle odierne categorie dogmatiche, sembra tratteggiare un - seppur embrionale - soggetto di diritto. Come si cercherà di evidenziare, infatti, l’idea di un peculio inteso come “entità-impresa”, concettualmente distinta dal suo proprietario, postula necessariamente il riconoscimento, in capo al servus suo organo gestionale, di una certa autonomia negoziale e dispositiva delle risorse aziendali.

9Non solo. Il fatto che il soggetto in potestà potesse efficacemente disporre dei beni affidatigli e porre in essere, con riferimento ai negozi conclusi ex causa peculiaris, atti solutori pienamente validi ed opponibili anche al dominus, mi pare costituisca un pilastro fondamentale di quella certezza dei traffici che, in prospettiva economica ancor prima che giuridica, risulta essenziale per qualsiasi efficace sistema di circolazione dei beni: nessuno avrebbe infatti contrattato con un soggetto in potestà sapendo che a quest’ultimo sarebbe stato di fatto precluso dare spontanea ed efficace esecuzione agli impegni assunti e che l’unico modo per ottenere soddisfazione sarebbe stato, in caso di un mancato adempimento diretto da parte del dominus, instaurare un processo de peculio avanti al pretore.

10Di tale esigenza (pratica più che teorica) i giuristi romani, in effetti, appaiono ben consapevoli, e dalle fonti emerge con chiarezza che al concessionario poteva essere attribuito il potere di disporre efficacemente, ed autonomamente, delle res peculii. Più in particolare, dai testi a nostra disposizione sembra potersi evincere che l’administratio peculii dovesse essere attribuita esplicitamente al servo: alla semplice concessio peculii, mediante la quale il dominus creava il peculium in capo al sottoposto, si sarebbe così affiancato un atto ulteriore, la cosiddetta concessio liberae administrationis, senza la quale il servo non avrebbe potuto compiere atti di disposizione dei beni peculiari giuridicamente efficaci.

11Questo, almeno, è ciò che si potrebbe desumere, più o meno esplicitamente, da alcuni frammenti sparsi nel Digesto. In ogni caso, è opportuno sottolinearlo sin d’ora, una certa prudenza al riguardo è d’obbligo: come vedremo, infatti, la dottrina è tutt’altro che concorde nell’interpretare le fonti a nostra disposizione e nel valutarne la classicità. E tali dubbi, per ragioni logiche oltre che esegetiche, appaiono più che fondati. Ma procediamo con ordine e vediamo i testi.

12Limitando per ora la nostra analisi ai passi contenuti nel XV libro del Digesto, la testimonianza più esplicita della necessità di uno specifico atto di autorizzazione del dominus è senza dubbio rappresentata da un frammento tratto dal ventinovesimo libro del Commentario ulpianeo ad edictum:

13D.15.1.7.1 (Ulp. 29 ad ed.): Et adicit pupillum vel furiosum constituere quidem peculium servo non posse: verum ante constitutum, id est ante furorem vel a patre pupilli, non adimetur ex his causis. quae sententia vera est et congruit cum eo, quod Marcellus apud iulianum notans adicit " posse fieri, ut apud alterum ex dominis servus peculium habeat, apud alterum non, ut puta si alter ex dominis furiosus sit vel pupillus, si (ut quidam, inquit, putant) peculium servus habere non potest nisi concedente domino. ego autem puto non esse opus concedi peculium a domino servum habere, sed non adimi, ut habeat". alia causa est peculii liberae administrationis: nam haec specialiter concedenda est.

14Il frammento, in generale, concerne la costituzione del peculio in capo al servus. Ulpiano, in primo luogo, osserva come il pazzo o il pupillo non possano validamente costituire un peculio in capo al servo, precisando tuttavia che la sopravvenuta pazzia del dominus, così come la sua morte con conseguente delazione del servo e del peculio ad un padrone pupillo, non determinino di per sé la cessazione del peculio medesimo. Ulpiano, a sostegno di quanto affermato, cita altresì l’opinio espressa da Marcello in una nota Giuliano5, secondo cui poteva in effetti capitare che un servo, comune a due padroni, avesse un peculio presso uno solo di essi (ad esempio, quando l’altro fosse, per l’appunto, pazzo o pupillo). E questo perché di peculio non può parlarsi nisi concedente domino.

15In generale, possiamo ricordare come la concessio peculii si perfezionasse in presenza di due fattori diversi: uno oggettivo, che potremmo definire naturalis datio, consistente nell’effettiva consegna del peculio al servo6; ed uno soggettivo, l’animus domini, consistente nella volontà dell’avente potestà di concedere il peculio al sottoposto7. Ulpiano, nel frammento considerato, si occupa proprio dell’elemento psicologico dell’animus domini e, facendo sua l’opinio espressa da Marcello, ricorda come, accertata la naturalis datio, la volontà del padrone fosse da ritenersi presunta salvo che questi avesse manifestato, attraverso la revoca del peculio medesimo, un’opposta intenzione (ego autem putonon esse opus concedi peculium a domino servum habere, sed non adimi, ut habeat). Se questo doveva quindi essere l’orientamento di Ulpiano nel valutare la concessio peculii8, laddove si fosse invece trattato di verificare la sussistenza, in capo al servus munito di peculio, di un autonomo potere dispositivo sui beni peculiari, il giurista appare di diverso avviso: il dominus avrebbe dovuto concedere al servo la libera administratio in modo specifico (specialiter concedenda est), e la sua voluntas in tal senso avrebbe dovuto manifestarsi esplicitamente. Insomma, la concessio peculii, di per sé, non implicava anche l’attribuzione al servo della libera administratio delle risorse peculiari, per la quale era invece necessaria una specifica ed ulteriore autorizzazione dell’avente potestà9.

16In effetti, sembra essere Paolo, in un frammento tratto dai libri ad Plautium, a precisare quali fossero gli effetti di tale autorizzazione:

17D.15.1.46 (Paul. 4 ad Plaut.): Qui peculii administrationem concedit, videtur permittere generaliter, quod et specialiter permissurus est.

18Così, ci dice il giurista, concedendo l’amministrazione del peculio, il dominus avrebbe permesso in via generale (generaliter), una volta per tutte, ciò che altrimenti avrebbe dovuto permettere con riferimento ad atti specifici (quod et specialiter permissurus est). La concessio administrationis costituiva, pertanto, una sorta di autorizzazione generale e preventiva che il dominus avrebbe potuto attribuire al servus negotiator al fine di legittimarlo a porre in essere autonomamente (ed efficacemente) i necessari atti di disposizione giuridica sui beni peculiari10. In assenza di tale esplicita autorizzazione ogni atto dispositivo compiuto dal servo, magari in esecuzione di un contratto concluso causa peculiare con un terzo, avrebbe assunto carattere definitivo ed irripetibile per il dominus solo se questi l’avesse specificamente fatto proprio.

19Interessante risulta, infine, il seguente frammento, sempre di Paolo:

20D.15.1.48pr. (Paul. 17 ad Plaut.): Libera peculii administratio non permanet neque in fugitivo neque in subrepto neque in eo, de quo nesciat quis, vivat an mortuus sit. Cui peculii administratio data est, delegare debitorem suum potest.

21Nel passo il giurista si occupa delle ipotesi in cui, a seguito di determinati eventi, il potere di disposizione attribuito al servo fosse venuto meno, anche a prescindere da un’espressa revoca da parte del dominus. Più in particolare, afferma il giurista, il servo fuggitivo, quello sottratto, o quello disperso di cui non si fosse conosciuto il destino, sarebbero senz’altro decaduti dal potere di amministrazione del peculio. In tutti questi casi, d’altronde, l’uscita del servus dalla sfera di influenza (e di controllo) dell’avente potestà avrebbe inesorabilmente reciso il nesso volitivo (almeno ipotetico) che giustificava, agli occhi dei giuristi, il sorgere dell’obbligazione in capo al dominus a seguito delle azioni commesse dal sottoposto. Paolo, infine, osserva come colui al quale spettava il potere di amministrare il peculio, poteva per ciò stesso anche delegare il proprio debitore.

2. Concessio liberae administrationis: un concetto classico?

22Dai passi esaminati sembra pertanto risultare che l’administratio peculii dovesse essere attribuita esplicitamente al servo: alla semplice concessio peculii, mediante la quale il dominus creava il peculium in capo al sottoposto, si sarebbe così affiancato un atto ulteriore e non implicitamente sovrapponibile, la cosiddetta concessio liberae administrationis, senza la quale il servo non avrebbe potuto compiere atti di disposizione dei beni peculiari giuridicamente efficaci11. Ma era davvero così?

23La dottrina romanistica, in realtà, non si presenta concorde nel valutare le fonti in tema di administratio, nelle quali, più che altrove, ha ritenuto di poter ravvisare malcelate tracce di un esteso intervento da parte dei compilatori postclassici.

24Il sospetto, in effetti, s’insinua a partire da una considerazione di sistema.

25Data l’importanza economica e sociale che l’istituto peculiare raggiunse con l’espansione territoriale e commerciale del mondo romano, risulta agevole comprendere come fosse assolutamente necessario, per il funzionamento del sistema, che il servus negotiator potesse validamente disporre dei beni peculiari senza che dovesse profilarsi, per ogni negozio compiuto, un intervento diretto dell’avente potestà, in assenza del quale il terzo non avrebbe potuto confidare nella validità della solutio effettuata dal sottoposto.

26A poco infatti sarebbe valso attribuire al sottoposto un peculio, magari da impiegare nell’esercizio di un’attività imprenditoriale, se poi il patrimonio separato avesse costituito solamente una “massa inerte” nelle mani di un soggetto di per sé inabilitato a disporne efficacemente.Lasciando da parte la dottrina più risalente, ormai superata, la tesi che oggi appare prevalente12 fra gli studiosi è quella formulata dal Longo13. Lo studioso, insoddisfatto dalla ricostruzione tradizionale della disciplina relativa all’administratio peculii che, facendo leva sullo stato delle fonti acriticamente considerate, riteneva necessaria una sua esplicita attribuzione perché il possessore del peculio potesse compiere questa o quella categoria di negozi, formula un’ipotesi nuova: la distinzione dogmatica fra il concetto di concessio peculii e quello di administratio peculii, intesa come attribuzione a parte riposante su di un separato atto di volontà del pater familias, sarebbe frutto di interpolazione giustinianea14. Questa distinzione sarebbe invece stata del tutto estranea ai giuristi classici, secondo i quali, all’opposto, l’avente potestà che avesse costituito, in capo al filius o al servus, un patrimonio peculiare, avrebbe al tempo stesso implicitamente attribuito al concessionario il potere di compiere, sui beni peculiari, validi atti di disposizione giuridica, senza necessità di qualsivoglia esplicita manifestazione di volontà in tal senso.

27Ecco allora che, secondo questo autore, per il diritto classico l’administratio peculii avrebbe rappresentato una facoltà intrinseca all’ontologia giuridica del peculio stesso: habere peculium, in altre parole, significava avere, per lo stesso fatto che lo si possedeva, facoltà di impiegarne i beni nel commercio giuridico15.

28A sostegno della sua tesi, Giannetto Longo innanzitutto osserva come «accanto a frammenti in cui è fatta menzione dell’administratio in maniera che la speciale concessione di essa sembrerebbe un necessario requisito alla validità dei negozi intrapresi, si trovano altri frammenti, non meno numerosi, nei quali non si parla affatto di concessio (liberae) administrationis, senza che per ciò si neghi alla persona soggetta a potestà la facoltà di compiere atti di disposizione sul peculio»16. Per quanto riguarda i passi da cui tale necessità sembra emergere, l’autore non esita a ritenerne la gran parte frutto di interpolazione ad opera dei compilatori, che sarebbero però intervenuti in modo variabile: talora inserendo nel testo vere e proprie aggiunte, talora apponendo al termine administratio, che per i classici sarebbe stato utilizzato come sinonimo di concessio peculii, l’aggettivo libera. Più in particolare, totalmente manipolato sarebbe stato il già citato D.15.1.7.1 (Ulp.29 ad ed.), in effetti l’unica testimonianza esplicita della necessità di una concessio administrationis specifica, ulteriore e distinta rispetto alla sola concessione del peculio. Traccia della mano postclassicasi ravviserebbe nello stacco logico sussistente fra il periodo in questione (alia causa est peculii liberae administrationis: nam haec specialiter concedenda est) ed il resto del frammento, nonché dall’utilizzo dell’avverbio specialiter, il cui impiego nel contesto della costruzione appare al Longo definitivamente non classico17.

29Lo studioso, inoltre, non manca di evidenziare come, secondo la consolidata dottrina romanistica del suo tempo, un’alterazione analoga ad opera dei compilatori giustinianei sarebbe tutt’altro che rara, ma anzi ravvisabile anche in campi paralleli. Un esempio lampante di tale evoluzione sarebbe in particolare rappresentato dalle restrizioni alle facoltà riconosciute al procuratore in epoca classica18: le gravi restrizioni ai poteri degli amministratori che, al confronto del diritto classico, il diritto giustinianeo presentava in tema di tutela, cura e procura, sarebbero verosimilmente state estese anche alla materia dei peculi.

30In sintesi dunque, il Longo riteneva che l’espressione administratio peculii, pur nota al diritto classico, avesse nel corso dei secoli cambiato significato.

31In particolare, per i giuristi classici dire che il servo godeva del potere di amministrazione del peculio sarebbe stato equivalente a dire che il servo era munito di peculio: le due espressioni erano, cioè, l’una parafrasi dell’altra.

32In tutti quei passi in cui una tale lettura risulti insostenibile, per l’autore sarebbe rintracciabile un’interpolazione dei compilatori giustinianei, i soli che, richiedendo che l’administratio venisse concessa specialiter, l’avrebbero concettualmente scissa dalla semplice concessio peculii.

33La tesi di Longo, poi ripresa e sviluppata anche da Emilio Albertario19, viene invece più recentemente criticata da Ignazio Buti20. Per questo autore, in particolare, «agli inizi della vita del peculio come “istituto”, non è verosimile che si consentisse contemporaneamente al servo non solo la possibilità di contrattare, ma anche quella di disporre dei beni peculiari senza alcun controllo del dominus». Pertanto, secondo Buti, se l’esistenza del peculio poteva essere considerata condizione sufficiente per permettere al servo di compiere negozi autonomamente, cioè di divenire creditore e debitore, non altrettanto doveva avvenire per gli atti di esecuzione di detti negozi, atti che comportavano la disposizione dei beni peculiari: tali beni infatti, giuridicamente appartenevano al dominus, ed il servo non aveva perciò titolo giuridico per disporne efficacemente. Seguendo questa linea di pensiero, fin dagli inizi dell’età classica sarebbe esistita una netta separazione tra la legittimazione del servo a compiere negozi giuridici, scaturente dalla semplice concessio peculii, e la possibilità di porre in essere i conseguenti atti dispositivi sui beni peculiari, facoltà che il dominus avrebbe dovuto esplicitamente accordare al servus. Questa separazione avrebbe tra l’altro risposto ad esigenze di opportunità, in quanto avrebbe consentito all’avente potestà di mantenere, se avesse voluto, un controllo sull’attività del sottoposto, onde evitare di esserne pregiudicato.

34Il terzo che avesse contrattato con il servus munito di peculio, ma privo di administratio (dunque incapace di eseguire il contratto), non avrebbe potuto far altro che convenire in giudizio il dominus, il quale sarebbe sì stato chiamato a rispondere, ma solo nei limiti del peculio medesimo, ed operata la deductio: salvaguardando cioè anche i propri “crediti” verso il servo, cosa che avrebbe potuto non verificarsi se l’atto di disposizione del servo fosse stato di per sé efficace21.

35Insomma, per Buti concessio peculii e libera administratio peculii erano concetti distinti già in età classica, e non frutto dell’interpolazione dei compilatori giustinianei. In presenza della prima, ma in assenza della seconda, il servo avrebbe potuto concludere contratti validi, azionabili dai terzi tramite l’actio de peculio contro il dominus, ma non avrebbe potuto eseguirli direttamente, in quanto incapace di disporre in modo efficace dei beni peculiari. I passi da cui emerge questa contrapposizione non sarebbero pertanto da reputare per forza interpolati, mentre quelli, pur presenti, in cui sembra prescindersi, ai fini dell’efficacia dell’atto dispositivo compiuto dal servo, da un’esplicita concessione dell’administratio, l’avrebbero semplicemente sottintesa.

36Probabilmente, come osserva M. Miceli, il complesso dibattito dottrinale in tema di administratio peculii, che qui s’è appena tentato di riassumere sommariamente, «non può essere composto con certezza a favore dell’una o dell’altra tesi, vista l’esiguità delle fonti che possediamo e la stratificazione delle soluzioni giurisprudenziali in esse riscontrabili»22.

37Nondimeno, la tesi a suo tempo formulata dal Longo, e fondata su convincenti riferimenti testuali, risulta a mio giudizio apprezzabile. Che senso avrebbe avuto, infatti, attribuire al servo un peculio, rendendolo così pienamente legittimato a compiere validi negozi con i terzi (tali da vincolare il dominus in sede giudizio de peculio), se poi questo non avesse potuto anche eseguirli, disponendo efficacemente dei beni peculiari? Nessuno, io credo, sarebbe stato disposto a contrarre con il servus sapendo che l’unico modo per ottenere soddisfazione sarebbe stato chiedere l’ulteriore imprimatur del dominus e, in caso di suo diniego, trascinarlo in giudizio de peculio.

38Il Buti osserva come, contro la tesi del Longo, deporrebbero «da un lato, il fatto che la concessio peculii non è sempre, né da tutti i giuristi, vista come un atto esplicito e necessario, e dall’altro, che la possibilità per il servo di compiere negozi non deriva da alcuna autorizzazione in tal senso, come è dimostrato dai casi in cui si riconosce che, anche se il dominus ha proibito al servo di contrarre, il negozio compiuto è egualmente efficace ed il dominus sarà tenuto con l’actio de peculio»23. Nessuna di queste considerazioni, tuttavia, sembra possa essere considerata decisiva. Quanto alla possibilità di una concessione del peculio solamente implicita infatti, se è vero che dalle fonti i giuristi classici non appaiono concordi circa la consistenza esatta della voluntas del dominus, per alcuni necessitandosi un’espressa attribuzione, per altri bastando la semplice tolleranza, la necessità di una effettiva separazione patrimoniale del peculio dalle restanti res domini, assicurata dalla naturalis datio (di cui Paolo nel già citato D.15.1.8)24, ridimensiona notevolmente l’importanza della questione.

39L’esistenza stessa del peculio e la sua segregazione in capo al concessionario verosimilmente assicuravano quella certezza e quella rilevanza esterna che il solo animus domini (qualsiasi cosa si fosse voluto intendere con questa espressione), non avrebbe potuto garantire.

40D’altronde, anche il secondo rilievo formulato da Buti a sostegno della propria impostazione non pare del tutto convincente. L’autore fa riferimento alla regola enunciata da Gaio in un frammento tratto dal commento all’editto provinciale:

41D.15.1.29.1 (Gai 9 ad ed. prov.): Etiamsi prohibuerit contrahi cum servo dominus, erit in eum de peculio actio.

42Lo stesso concetto, per la verità, emerge anche da un passo di Paolo oggi confluito in D.15.1.47pr. (Paul. 4 ad Plaut.), in cui il giurista afferma che, anche laddove il padrone avesse esposto nel locale commerciale un cartello recante il divieto di concludere affari con il suo servo, ciò non l’avrebbe comunque esonerato dal rispondere, nei limiti del peculio, dei contratti conclusi dal sottoposto25. Proprio da questa irrilevanza del divieto espresso del dominus, Buti estrapola, ragionando a contrario, l’assenza di un’autorizzazione a disporre dei beni peculiari insita nella concessio peculii: se tale autorizzazione vi fosse stata, argomenta l’autore, un esplicito divieto di contrarre avrebbe avuto l’effetto di revocarla26.

43Tuttavia, a me pare che i passi in esame indichino il contrario: la concessione di peculio al servo implicava di per sé una legittimazione a contrarre, a prescindere da un’esplicita autorizzazione del dominus in tal senso, tant’è vero che un suo espresso divieto di contrarre, cui non si fosse accompagnata l’effettiva revoca del peculio (ademptio peculii), non lo avrebbe messo al riparo dalla responsabilità adiettizia. In altre parole, l’esistenza del peculium, inteso come “atto di legittimazione esterna”27, prevaleva, a tutela dei creditori peculiari, sulla stessa volontà espressa del dominus, salvo che questa non si fosse concretizzata nell’ademptio: la sola esistenza del peculio era perciò sufficiente a legittimare il servo a disporne in modo vincolante.

44Per tutelarsi contro l’eventuale pregiudizio patrimoniale scaturente dall’efficace disposizione dei beni peculiari ad opera del servus, non è pertanto necessario configurare a tutti i costi una netta separazione tra capacità negoziale (scaturente dalla concessio peculii), e capacità di disposizione dei beni peculiari (attribuita con esplicita concessio liberae administrationis).

45Per assicurare tale esigenza di controllo, in epoca classica, sarebbero state sufficienti tutte quelle facoltà, in primis quella di adimere peculium, insite nella dominica potestas cui il servo era, ovviamente, sempre sottoposto. Solo successivamente, con la crisi del sistema schiavistico, ed il probabile progressivo affievolimento della dominica potestas sui sottoposti, i giuristi sarebbero stati indotti a cercare altrove i mezzi per tutelare l’integrità patrimoniale dei padroni, trovandoli nella necessità di un’espressa attribuzione dell’administratio peculii distinta ed ulteriore rispetto alla costituzione del peculio medesimo. In questa prospettiva, la supposta evoluzione potrebbe deporre a favore della dottrina dominante rappresentata dal Longo, secondo cui, come abbiamo ricordato, la distinzione concettuale tra concessio peculii e concessio administrationis, emergente in alcuni passi, sarebbe riconducibile ai compilatori giustinianei.

46Ancora, bisogna ricordare che, in ogni caso, solo i contratti che fossero stati conclusi dal servus negotiator causa peculiari sarebbero stati pienamente validi ed efficaci per l’ordinamento giuridico romano.

47Interessante, a tal proposito, risulta il seguente frammento di Giuliano:

48D. 46.1.19 (Iul. 4 ex Min.): Servus inscio domino pro quodam fideiusserat et eo nomine pecuniam solverat: quaerebatur, dominus possetne ab eo, cui soluta esset, repetere. respondit: interest, quo nomine fideiusserit: nam si ex causa peculiari fideiussit, tunc id, quod ex peculio solverit, repetere dominus non poterit, quod ex dominica causa solverit, vindicabitur: si vero extra causam peculii fideiusserit, quod ex pecunia dominica solverit, aeque vindicabitur, quod ex peculio, condici poterit.

49Il caso analizzato è il seguente: un servo affidatario di peculio, all’insaputa del dominus, ha prestato fideiussione ed ha adempiuto. Il giurista si chiede se il dominus possa ripetere la somma oppure no, e, per rispondere, distingue tra ipotesi diverse.

50Nel caso in cui il servus avesse prestato la garanzia causa peculiari, e pagato con denaro peculiare, il pagamento sarebbe stato pienamente valido ed efficace, ed il dominus non avrebbe potuto repetere la somma.

51Se invece il servo avesse pagato ex causa dominica, il pagamento non sarebbe stato valido ed il padrone avrebbe potuto chiedere la restituzione della somma presso chiunque si fosse trovata (vindicabitur).

52In particolare, nel caso in cui il soggetto in potestà avesse prestato la garanzia extra causam peculii, il dominus avrebbe potuto chiedere la ripetizione delle somme con l’azione di rivendica se il pagamento fosse avvenuto con pecunia dominica; con la condictio indebiti laddove il servus avesse adempiuto con denaro peculiare. Il negozio concluso extra causam peculii infatti, avrebbe travalicato i confini della legittimazione del servus: in tal caso, non solo il terzo non avrebbe potuto convenire in giudizio il padrone con l’actio de peculio, ma quest’ultimo avrebbe potuto travolgere l’eventuale adempimento del servus.

53Se tale adempimento fosse avvenuto attraverso risorse peculiari però, Giuliano ci dice che il dominus non avrebbe potuto esperire l’azione di rivendica, ma solo la condictio indebiti: ciò significa che la proprietà delle somme era in tal caso passata al terzo, anche se questo non aveva diritto di trattenerle, perché indebitamente corrisposte28.

54Da tutto ciò mi pare si possa dedurre che il servus era in effetti titolare di un potere di disposizione autonomo delle risorse peculiari. Laddove si fosse trattato di eseguire negozi conclusi causa peculiari, gli unici che legittimavano il terzo contraente ad agire de peculio contro il padrone29, tale potere sarebbe stato esercitato legittimamente, e l’atto compiuto dal servo avrebbe assunto carattere definitivo e vincolante anche per il dominus. Laddove invece il servo avesse disposto dei beni peculiari in esecuzione di un contratto extra causam peculii, l’atto compiuto, pur efficace (la proprietà si trasferiva e la rei vindicatio non sarebbe stata esperibile), era illegittimo: i suoi effetti sarebbero stati travolti dal dominus tramite la condictio indebiti.

3. Administratio peculii: verso la separazione tra proprietà e gestione dell’impresa peculiare.

55Ora, ciò detto in ordine al dibattito dottrinale in tema di administratio peculii, un dato sembra emergere, nonostante le differenze, da tutte le teorie considerate: sia che ciò fosse implicito nella concessione del peculio (tesi che personalmente trovo preferibile), sia che scaturisse da un’espressa autorizzazione in tal senso, il servus munito di peculio, già in età classica, avrebbe potuto disporre dei beni peculiari autonomamente ed efficacemente, a prescindere cioè da uno specifico intervento del dominus caso per caso.

56Questa circostanza è, a me pare, estremamente interessante: testimonia, infatti, la configurazione di una certa qual distinzione tra la proprietà dell’impresa peculiare, riconducibile al dominus, e la gestione della medesima, affidata allo schiavo. Già in età classica il servus munito di peculio (in quanto tale o a seguito di un’espressa autorizzazione generale, poco importa) poteva non solo porre in essere contratti giuridicamente validi e vincolanti, ma anche compiere i relativi atti di disposizione dei beni peculiari.

57Se il dominus era dunque la “proprietà”, il servus, in questa prospettiva, rappresentava la “mente”, ossia l’organo amministrativo e gestionale dell’impresa peculiare. Il terzo contraente (causa peculiari) poteva ritenersi pienamente soddisfatto dall’adempimento spontaneo del servo, eseguito tramite la disposizione delle risorse peculiari, e solo in assenza di questo sarebbe stato costretto ad agire de peculio contro il dominus, per ottenere quanto dovuto.

58Nella situazione patologica scatenata dall’inadempimento e dall’instaurazione di un processo con l’actio de peculio intentata dal terzo, il carattere autonomo, la natura “quasi soggettiva” dell’entità impresa peculiare emergono, d’altro canto, dalla separazione patrimoniale tra il peculio e le restanti res domini, e dalla conseguente separazione fra i creditori peculiari, alla cui soddisfazione l’attivo peculiare era inderogabilmente destinato, e tutti gli altri creditori del dominus. Alla luce di quanto s’è cercato di evidenziare, d’altronde, proprio nell’administratio peculii tale carattere autonomo sembra manifestarsi nella normale fisiologia dell’impresa peculiare, al di fuori, cioè, dell’ipotesi patologica determinatasi con l’inadempimento. La possibilità per il servus di eseguire autonomamente, addirittura all’insaputa del dominus, ed efficacemente, i contratti conclusi nel corso dell’attività di gestione aziendale, delinea infatti quella separazione tra proprietà e gestione che è un indicatore inequivocabile di una, almeno primordiale, autonomia ontologica del peculium rispetto al resto del patrimonio dominico ed al suo ultimo titolare.

59Ecco allora che, in tale prospettiva, se vogliamo fare ricorso alle moderne categorie giuridiche, si può forse prospettare una concezione di impresa peculiare come embrionale soggetto di diritto, il cui corpus era rappresentato dal patrimonio separato costituito dai beni peculiari e dal relativo attivo, e la cui mens era rappresentata dallo schiavo concessionario, suo organo amministrativo. Un soggetto di diritto che, se già delineato nei suoi elementi essenziali, non raggiunse però mai, nel corso dell’intera esperienza giuridica romana, il suo pieno compimento, rappresentato dal riconoscimento della personalità giuridica così come la moderna dogmatica giuridica intende.

60Non bisogna dimenticare, infatti, che ad essere convenuto in giudizio per l’adempimento del contratto concluso causa peculiari, era (e fu sempre) il dominus, il quale in effetti costituiva il vertice ultimo, proprietario e governativo, dell’impresa. Considerato che il modello organizzativo in esame nacque e si sviluppò sul perno rappresentato dal rapporto potestativo intercorrente tra dominus e servus, forse non sarebbe potuto andare altrimenti.

Articles Jan. 11, 2021
© 2021 fhi
ISSN: 1860-5605
First publication
Jan. 11, 2021

DOI: https://doi.org/10.26032/fhi-2021-001

  • citation suggestion Andrea Mazzoleni, Brevi note in tema di administratio peculii: un concetto classico o un’introduzione giustinianea? (Jan. 11, 2021), in forum historiae iuris, https://forhistiur.net2021-01-mazzoleni