Artikel vom 7. August 2006 © 2006 fhi ISSN 1860-5605 Erstveröffentlichung |
Zitiervorschlag / Citation:
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Lauretta Maganzani: La «diligentia quam suis» del depositario dal diritto romano alle codificazioni nazionaliCasi e questioni di diritto civile nella prospettiva storico-comparatistica * |
Introduzione
1. La diligentia quam suis del depositario nella compilazione giustinianea e nei Basilici
2. La ‘lex quod Nerva’ prima della rinascita bolognese
3. D. 16.3.32 nella Glossa
4. La ‘lex quod Nerva’ e la metodologia del commento
5. La culpa ‘in concreto’ nei giuristi culti
6. La ‘diligentia in concreto’ dal giusnaturalismo alle prime codificazioni
7. La ‘neglegentia rebus suis consueta’ da Hasse al «BGB.»
8. D. 16.3.32 e la romanistica del XX secolo
9. Per una rilettura conclusiva della ‘lex quod Nerva’ alla luce degli altri testi sulla diligentia quam suis
Nel 1895, per i tipi della Casa Editrice Zanichelli di Bologna, l’avvocato Valentino Rivalta pubblicava una raccolta di «Dispute celebri di diritto civile estratte dalle dissensiones dei glossatori ed annotate per uso accademico e forense»: fra queste la disputa sulla negotiorum gestio prohibente domino e la risarcibilità delle spese sostenute dal gestor, quella sulla caccia e il momento perfezionativo dell’acquisto della proprietà sulla preda, quella sugli effetti della mora debendi del depositario e del comodatario in caso di naturalis interitus rei etc. Ogni Disputa era corredata di riferimenti alle fonti (dal diritto romano ai codici) e di succinte indicazioni bibliografiche. | 1 |
Su questa base, alcuni anni or sono, su iniziativa di Giovanni Negri, è partito dall’Università Cattolica di Piacenza un progetto di ricerca finanziato dal «MIUR.» dal titolo «Casi e questioni di diritto civile nella prospettiva storico-comparatistica del diritto europeo dall’età romana alle codificazioni nazionali»: il progetto che, fra le unità operative locali, contava l’Università di Ferrara (Diego Manfredini), la Terza Università di Roma (Vincenzo Mannino) e l’Università di Urbino (Chiara Tenella Sillani), si prefiggeva l’ «allestimento di un’antologia di casi pratici e questioni di diritto civile la cui soluzione, controversa nell’ambito del Corpus Iuris giustinianeo, ripropone, nella storia della tradizione romanistica europea, in sede dottrinale, giurisprudenziale e normativa, analoghi dissensi e/o analoghe uniformità, fino alle esperienze degli ordinamenti attuali» e, attraverso una raccolta di exempla significativi, intendeva ricostruire sul campo una storia antologica del diritto europeo «nella prospettiva di casi concreti affrontati nell’ottica di tutte le componenti formative del diritto (norme autoritative, dottrina, prassi giudiziaria)» individuando il momento di emersione storica di «prospettive, soluzioni, argomentazioni». | 2 |
Nell’alveo di questo progetto, dopo una prima sperimentazione didattica dell’unità di ricerca della sede di Piacenza dell’Università Cattolica sulla negotiorum gestio prohibente domino1, l’attenzione di chi scrive si è concentrata su una nota disputa giurisprudenziale, che costituisce un exemplum particolarmente significativo per la ricchezza del materiale documentario sul tema: è il famoso dissenso fra Nerva e Proculo ricordata da Celso nella cd. ‘lex quod Nerva’ (D. 16.3.32, Cels. 9 dig.), sulla cui base, a partire dai glossatori, è stata costruita la regola della diligentia quam suis del depositario per la quale, nella custodia della cosa depositata, il depositario è tenuto alla stessa diligenza che usa normalmente nel custodire le cose proprie: | 3 |
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Quod Nerva diceret latiorem culpam dolum esse, Proculo displicebat, mihi verissimum videtur. Nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens est, nisi tamen ad suum modum curam in deposito praestat, fraude non caret. Nec enim salva fide minorem is quam suis rebus diligentiam praestabit. |
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Il testo è divenuto fra l’altro, a partire dall’età dei glossatori, un pilastro della dottrina della colpa e, come tale, la diligentia quam suis è rifluita nella regolamentazione del contratto di deposito di alcune codificazioni nazionali, molte delle quali ancora vigenti (Code Civil francese art. 1927, Codice Civile italiano del 1865 art. 1843, «BGB.» § 690, Codice Civile argentino art. 2202, Civil Code della Louisiana art. 2937, etc.)2. | 4 |
Scopo precipuo del romanista è la ricostruzione del significato originario del testo, nonché delle ragioni e della portata della selezione giustinianea, e a questo tende in primis la presente ricerca, anche con l’ausilio delle esegesi non di rado sagaci che i grandi del passato ne hanno fatto nei secoli della tradizione romanistica: non è raro, infatti, che una spiegazione antica contribuisca a chiarire la reale portata del passo nel contesto originario o a smascherare velleitarie letture attuali. Ma la storia esegetica di un testo, con le sue tappe, i suoi momenti salienti e le sue svolte metodologiche, deve anche, a mio parere, assurgere ad oggetto specifico dell’indagine romanistica, in quanto essa contribuisce a svelare i diversi abiti di cui, nei secoli, il testo è stato dagli interpreti rivestito a seconda dello spirito delle varie epoche e del sistema nel quale, di volta in volta, essi lo hanno voluto inserire. Ripercorrere la storia esegetica di un testo è dunque anche comprenderne la portata e l’influenza nella formazione del diritto europeo, ma nel contempo significa contestualizzarlo con più puntuale senso storico. Scopo della presente indagine è peraltro, e soprattutto, quello di ricostruire l’origine e le componenti storiche delle concettualizzazioni moderne, non sempre utilizzate dai romanisti del tutto consapevolmente in funzione euristica. Ripercorrere criticamente la tradizione romanistica confluita in queste concettualizzazioni significa decomporne gli elementi formativi al fine di verificarne l’efficienza costruttiva nell’esegesi dei testi antichi. | 5 |
La scelta della ‘lex quod Nerva’ come oggetto di indagine è, a questo riguardo, particolarmente significativa perché, alla disputa alto-imperiale fra Nerva e Proculo ripresa da Celso, a cui i romanisti si affannano da tempo a dare un significato coerente, si affianca, da una parte, la plurisecolare esperienza esegetica ante-codificazioni che, dai glossatori in poi, ne ha fatto un pilastro della sistematica della colpa3, dall’altra la dottrina e la giurisprudenza civilistiche post-codificazioni, che cercano invano di darsi ragione di un criterio «illogico» come la diligentia quam suis, spesso dimenticandone la matrice meramente storica. | 6 |
La nostra «storia esegetica» non partirà dall’epoca romana classica, che nella presente indagine costituisce semmai il punto di arrivo, ma dall’età giustinianea ove la diligentia quam suis, pur dai contorni ancora incerti, pare già assurgere, almeno a quanto risulta dalle Institutiones di Giustiniano, a punto di riferimento privilegiato per la graduazione della responsabilità dell’obbligato nei singoli rapporti. | 7 |
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Se nei Digesta i richiami alla diligentia quam suis si presentano sparpagliati in una serie non omogenea di frammenti di ambiti e portata differenti, le cui contraddizioni nessuno è finora riuscito a sanare (oltre a D. 16.2.32 sul deposito, D. 17.2.72 sulla società, D. 10.2.25.16 sulla comunione, D. 27.3.1.pr. sulla tutela, D. 23.3.17.pr. e 24.3.24.5 sulla dote), nelle Institutiones essa viene più volte richiamata dai compilatori come termine di riferimento per la graduazione della diligentia di volta in volta richiesta al debitore nell’adempimento dell’obbligazione e, per converso, della misura della sua responsabilità per colpa4: così la diligentia ‘exacta’ od ‘exactissima’ rispettivamente richieste al comodatario nella custodia della cosa e al negotiorum gestor nella gestione degli affari, non vengono definite in sé, ma sottolineando l’insufficienza del grado di diligenza abituale dell’obbligato nel caso che un grado superiore sia almeno astrattamente ipotizzabile: | 8 |
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Iust. inst. 3.14.2: At is, qui utendum eccepit, sane quidam exactam diligentiam custodiendae rei praestare iubetur nec sufficit ei tantam diligentiam adhibuisse, quantam suis rebus adhibere solitus est, si modo alius diligentior poterit eam rem custodire. |
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Iust. inst. 3.27.1: Sicut autem is, qui utiliter gesserit negotia, habet obligatum dominum negotiorum, ita et contra iste quoque tenetur, ut administrationis rationem reddat. Quo casu ad exactissimam quisque diligentiam compellitur reddere rationem: nec sufficit talem diligentiam adhibere, qualem suis rebus adhibere soleret, si modo alius diligentior commodius administraturus esset negotia. |
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Similmente, ma in senso opposto, la diligenza abituale in suis rebus, in contrapposizione all’exactissima diligentia, diviene nella societas il punto di riferimento per la determinazione del grado di responsabilità dei socii nell’amministrazione delle res communes e della nozione di culpa ad essi applicabile: |
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Iust. inst. 3.25.9 (= D. 17.2.72): Socius socio utrum eo nomine tantum teneatur pro socio actione, si quid dolo commiserit, sicut is qui deponi apud se passus est, an etiam culpae, id est desidiae atque neglegentiae nomine, quaesitum est: praevaluit tamen etiam culpae nomine teneri eum. Culpa autem non ad exactissimam diligentiam dirigenda est: sufficit enim talem diligentiam in communibus rebus adhibere socium, qualem suis rebus adhibere solet. Nam qui parum diligentem socium sibi adsumit, de se queri [hoc est sibi imputare] debet. |
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Come si vede, le Institutiones non sono ancora giunte ad identificare nella diligentia quam suis una categoria dogmatica generale – il che invece accadrà nell’alto medioevo – ma, con maggior concretezza, utilizzano il parametro della diligenza abituale dell’obbligato come chiave di lettura della sua responsabilità per colpa nel rapporto esaminato, offrendo così all’interprete uno strumento di identificazione, nel caso concreto, dell’esistenza della colpa. | 9 |
Non a caso tale parametro non è utilizzato nella definizione istituzionale della responsabilità del depositario ove, per tradizione consolidata, la responsabilità è limitata al dolo: |
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Iust. inst. 3.14.3: Sed is ex eo solo tenetur, si quid dolo commiserit, culpae autem nomine, id est desidiae atque neglegentiae, non tenetur: itaque securus est qui parum diligenter custoditam rem furto amisit, quia qui negligenti amico rem custodiendam tradidit suae facilitati id imputare debet5. |
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Già questo ci dice qualcosa sulla portata che la ‘lex quod Nerva’ deve aver assunto agli occhi dei compilatori e sulle ragioni della sua selezione per la raccolta giustinianea: essa non presentava un caso tipico di diligentia quam suis – come, ad esempio, D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9) in tema di societas – nemmeno nella prospettiva ristretta e concreta adottata dai giustinianei: serviva soltanto a meglio definire la responsabilità per dolo del depositario ed in più esprimeva, con le parole dei classici, l’equiparazione cara ai compilatori fra dolo e culpa lata (‘… latiorem culpam dolum esse …’)6. Ciò risulta confermato dai Basilici che, da una parte, riassumono il contenuto del passo dicendo che «agisce con dolo chi non applica alle cose depositate la diligenza che applica alle sue» (Bas. 13.2.32: 'O m¾ tÁj paraq»khj æj tîn „d…wn ™pimeloÚmenoj dÒlon poie‹); dall’altra, in un significativo scolio di Stefano, individuano un caso di culpa lata, assimilata al dolo, nel non custodire la cosa affidata secondo le proprie possibilità e capacità (sch. 3: Stef£nou. Seme…wsai ™ntaàqa, Óti ¹ l£ta koÚlpa tù dÒlJ projšoike, kaˆ Óti l£tan koÚlpan doke‹ tij poie‹n, œnqa m¾ kat¦ t¾n o„ke…an dÚnamin ™pimele‹tai toà parateqšntoj aØtù pr£gmatoj. Seme…wsai aÙtÒ). Evidentemente per dare ragione ad un passo oscuro agli stessi scoliasti7, Stefano procede obliterando in parte il dato letterale: se Celso rilevava l’esistenza di una fraus nell’omissione della diligentia abituale in suis rebus (‘… fraude non caret. Nec enim salva fide minorem is quam suis rebus diligentiam praestabit’), Stefano allude più genericamente alla trascuratezza di chi, nella custodia, non sfrutta appieno le proprie capacità naturali. Lo scarto è lieve ma significativo ed attesta l’imbarazzo dei maestri bizantini di fronte ad un testo da cui soltanto in seguito sarà tratta la regola della diligentia quam suis del depositario come canone ermeneutico generale8. I Basilici del resto ripropongono la diligentia quam suis tutte le volte e per tutti i rapporti in cui essa compare nei Digesta9 ma, come ha rilevato il Nörr10, non paiono inquadrare tali riferimenti in un ripensamento completo e consapevole della problematica giustinianea della responsabilità contrattuale né si sforzano di superare le contraddizioni che, sul tema, la compilazione presenta. | 10 |
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Le Institutiones di Giustiniano avevano ignorato la ‘lex quod Nerva’, eppure, nonostante la scarsa diffusione del Digesto nell’età alto-medievale, tracce della sua influenza sono rinvenibili ben prima della rinascita bolognese: da un lato essa compare «in pillole» in talune legislazioni barbariche, nel quadro della generica figura della commendatio comprendente in sé ipotesi eterogenee di affidamento in custodia gratuito od oneroso (di cose mobili, di animali, di denaro con facoltà di uso etc.). Ciò prova quanto il criterio del confronto fra il contegno dell’affidatario in suis e in alienis per la valutazione della sua responsabilità, fosse già in larga misura penetrato nel diritto consuetudinario cui queste leges si ispirano. Ma mentre il Digesto e gli stessi Basilici ascrivono a colpa grave l’assenza di diligentia quam suis del depositario in quanto infrazione della fides del depositante, le legislazioni barbariche, fondendo la regola derivata dalla ‘lex quod Nerva’ con quella di D. 13.6.5.4 in tema di comodato11, reinterpretano e banalizzano questo principio riducendolo a strumento di presunzione di responsabilità in caso di perimento fortuito della cosa affidata: così il titolo ‘de commendatis vel commodatis’ del Codex Euricianus, promulgato per i Visigoti non prima del 469 d.C. e, sulla sua strada, lo stesso titolo della lex Visigothorum della metà del VII secolo e della lex Baiuwariorum (del ceppo svevo) della metà dell’VIII12, pongono come discrimine della responsabilità dell’affidatario per perimento fortuito della cosa affidata (‘de ruina aut incendio vel hostilitatis naufragio seu quolibet simili casu’) l’eguale o differente sorte dei beni in sua proprietà: ‘nihil cogatur exsolvere’ l’affidatario cui le res commendatae, per un incendio divampato nella sua casa, ‘cum rebus eius fuerint concrematae’ (Cod. Eur. CCLXXX, lex. Vis. V.5.3, lex Baiuw. 15.2-5); ‘sine ulla excusatione exsolvere cogatur’ l’affidatario che, in analoga circostanza, ‘sua omnia liberaverit et aliena perdiderit’ (Cod. Eur. CCLXXXII, lex. Vis. V.5.5). | 11 |
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Codex Euricianus | 12 |
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Assai più consapevole e completa è la reinterpretazione della ‘lex quod Nerva’ di alcuni scritti giuridici estranei alla tradizione scientifica bolognese, risalenti all’XI o XII secolo. Le Exceptiones legum romanarum Petri16, sulla base del principio dell’utilitas contrahentium, elaborano un’originale costruzione dottrinale fondata sulla tripartizione custodia gravis, mediocris e levis, cioè sulla tipologia degli obblighi di custodia gravanti sul comodatario, sul conduttore e sul depositario: la custodia gravis è richiesta al comodatario che ‘tam caute et tam studiose debet adhiberi diligentia … ut numquam ab alio suo pare, qui sapientior esset eo, melius posset custodiri’ (II.24); la custodia mediocris è pretesa in re locata ed è quella che il ‘bonus pater familias in re sua habere solet’ (II.23); la custodia levis è richiesta al depositario gratuito ed è quella che egli suole esibire nelle sue cose: essa definisce anche la misura della sua responsabilità perché ‘ea adhibita, si rem amiserit emendare non cogitur’ (II.21). | 13 |
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II.21: De re alterius suscepta in custodiam. Si quis rem alterius, gratis et sine ulla mercede accepta vel promissa, in custodiam susceperit, talem custodiam adhibeat, qualem rei sue exhibere solet. Ea adhibita, si rem amiserit, emendare non cogitur, nisi specialiter est promissum depositari ut si aliquo modo eam perderet, emendaret. |
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23: De re locata. In re locata non tam levis custodia adhibenda est ut in deposita, neque tam gravis ut in commodata, sed mediocris, id est talis qualem bonus paterfamilias in re sua habere solet. |
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24: De re commodata. In commodata vero, tam caute et tam studiose debet adhiberi diligentia ab eo, cui accomodata est, ut numquam ab alio suo pare, qui sapientior esset eo, melius posset custodiri. Quam si adhibuerit et maiore vi vel casu fortuito, id est qui provideri non potest, rem sibi commodatam amiserit, emendare non cogitur, nisi omnem custodiam repromiserit, id est quocumque modo amitteret, restitueret. |
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Sotto il nome di custodia levis, la diligentia quam suis del depositario viene qui elevata a concetto dogmatico generale in contrapposizione alla custodia mediocris, cioè alla diligentia del bonus pater familias e a quella gravis, l’exactissima diligentia delle Istituzioni giustinianee. Se davvero l’opera è anteriore alla rinascita bolognese, essa attesta che già in quest’epoca la ‘lex quod Nerva’ era stata oggetto di un’ampia riflessione dottrinale che ne aveva esteso e generalizzato la portata ben oltre il dettato giustinianeo. | 14 |
Più rispettoso della tradizione e del modello giustinianeo è senz’altro il Brachilogus iuris civilis, esposizione sistematica del diritto secondo lo schema delle Institutiones17. Ma nel titolo III.6 ‘de deposito’, ove tratta della responsabilità del depositario per dolo e culpa lata, anch’esso rivela l’ampia riflessione dottrinale sviluppatasi, già in età preirneriana, intorno alla ‘lex quod Nerva’ e alla diligentia quam suis del depositario: specifica, infatti, che è lata culpa anche custodire le cose depositate con minor accuratezza delle proprie e, per converso, definisce securus, per qualunque causa la cosa sia perita o deteriorata, il depositario che huiusmodi custodiam in deposito adhibuit: |
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III.6: De deposito. 1 Depositum vero est quod datur custodiendum gratuito. 2. In hoc autem contractu quia nulla utilitas depositarii, sed solummodo onus versatur, non nisi dolum et latam culpam prestare depositori vel eius heredi compellitur: lata culpa etiam esse videtur, si minus rem depositam sua propria custodierit; qui vero huismodi custodiam in deposito adhibuit, quocumque modo res amissa vel deteriorata fuerit, securus erit. |
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Se la diligentia quam suis del depositario ci appare in veste di regola generale già prima del pieno affermarsi della scuola di Bologna, è soltanto con questa che la ‘lex quod Nerva’ diviene il centro di un ampio reticolato di richiami, riferimenti e citazioni di passi paralleli, che le conferiscono un ruolo centrale nel nuovo sistema della responsabilità contrattuale. | 15 |
Al centro della riflessione dei glossatori sta, in primo luogo, la frase d’esordio del testo celsino (‘… latiorem culpam dolum esse …’) che ben si prestava ad essere estrapolata dal contesto ed intesa in via generale come formulazione della dottrina della responsabilità del depositario per dolo e culpa lata. Ma occorreva anche fare i conti con il seguito del passo che, individuando una colpa grave nel ‘minorem quam suis rebus diligentiam praestare’, esigeva un coordinamento con il ‘non intelligere quod omnes intellegunt’ di D. 50.16.213.2 e 223.pr., altra famosa definizione di culpa lata presente nei Digesta. Occorreva inoltre indagare il significato preciso dell’espressione culpa ‘latior’ e domandarsi se in essa non fosse individuabile una qualche peculiarità contenutistica rispetto alla comune culpa lata, tenuto anche conto del fatto che il testo celsino non si limitava ad equipararla al dolo ma ne affermava recisamente l’identità (‘… latiorem culpam dolum esse …’). | 16 |
I glossatori superarono queste difficoltà, da una parte identificando la culpa latior del testo con la comune culpa lata (gl. ‘latiorem: id est latam’), dall’altra riducendo la portata della prima frase (‘… latiorem culpam dolum esse …’) a mera equiparazione, sotto il profilo degli effetti, di due figure separate e distinte (gl. ‘dolum esse’: ‘… dolus fit ex fraude, et lata culpa ex fatuitate’), infine assumendo un concetto bifido di culpa lata consistente sia nel «non capire ciò che tutti capiscono» (secondo i fr. 213.2 e 223.pr. D. 50.16), sia nel «prestare, nella custodia della cosa affidata, minor diligenza che in suis» (secondo la ‘lex quod Nerva’). Così, nella lettura dei glossatori, il depositario rispondeva per dolo, per grave e inescusabile negligenza e per il mancato rispetto della diligentia quam suis18. | 17 |
L’idea che la latior culpa (= lata) della ‘lex quod Nerva’ non fosse identificabile col dolo ma soltanto ad esso equiparata, era supportata da svariati richiami testuali (D. 47.4.1.219, D. 36.1.23(22).320, D. 11.6.1.121, D. 44.7.1.522) e da una citazione (alquanto approssimativa) aristotelica23. Così le glosse alle parole ‘dolum esse’ della Lectura super Digesto Veteri di Odofredo e della Magna Glossa di Accursio citano tutti questi passi e concludono richiamando l’aristotelico ‘nihil est idem cui id ipsum simile est’: | 18 |
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(Odofredo, Lectura super Digesto Veteri) gl. ‘dolum esse’: id est dolo comparari ut supra si mensor falsum modum dixerit l. i § lata (D. 11.6.1.1). Unde ubi quis de dolo tenetur et de lata culpa ut hic: ex quibus apparet latam culpam non esse dolum, quia nemo est id ipsum quod est ei simile24. |
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(Magna Glossa) gl. ‘dolum esse’: id est dolo comparari. Ut est, ubi quis de dolo tenetur, ibidem teneatur et de lata culpa. Non autem est idem, cum dolus fit ex fraude, et lata culpa ex fatuitate. Praeterea dicitur similis esse: ut infra si is, qui testamento liber esse iussus erit l. i § ii (D. 47.4.1.2) et infra ad Trebell. l. mulier § si heres (D. 36.1.23[22].3) et supra si mens. fals. mo. dix. l. i § pen. (D. 11.6.1.1). Ergo non est idem, cum dicat Aristoteles: nihil est idem, cui id ipsum simile est25. |
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Lo stesso si legge nella Summa super Codicem di Azone (tit. ‘depositi’) che, accanto ai predetti passi, cita D. 48.8.7 Paul. l.s. de publ. iud.26, testo particolarmente significativo nella materia trattata: questo, a proposito della lex Cornelia de sicariis et veneficiis, negava la legittimità dell’equiparazione fra dolo e culpa lata in campo criminale ove, invece, era ineludibile la prova diretta della volontarietà del crimen. Non soltanto, dunque, per Azone era da escludere l’identificabilità fra dolo e culpa lata, ma la loro stessa comparazione era ammissibile limitatamente alla pecuniaria causa: | 19 |
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Nec nam vere potest dici quod lata culpa sit dolus cum et in eadem lege dicatur ipsam prope dolum esse et alibi dicatur eam dolo comparari, ut ff. si mensor falsum modum dixerit l. i § lata (D. 11.6.1.1); si nam similis est dolo, ergo impossibile est eam dolum esse. Nam et Aristoteles ait: Nihil est id cui ipsum sit simile. Alibi dicitur quod lata culpa in doli crimen cadit quod cum praedicta determinatione est intellegendum ut ff. de actionibus et obligationibus l. i § is quoque (D. 44.7.1.5); alibi dicitur quod culpa dolo proxima dolum representat, ut ff. si quis testamento liber esse iussus erit l.i § non autem (D. 47.4.1.2). Alias alibi dicitur quod magna neglegentia sit dolus ut ff. de verb. sign. l. magna (D. 50.16.226). Et illud eodem modo expono ut diximus. Nam si vere esset dolus ergo veniret in legem Corneliam, quod lex negat ut ff. ad legem Corneliam de sicariis et veneficiis l. in lege (D. 48.8.7). Comparatur ergo dolo lata culpa quia si in pecuniaria causa aliquis teneatur mihi de dolo tenebitur et de lata culpa …27. |
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Funzionali ad estendere la responsabilità del depositario per culpa lata oltre il dettato della ‘lex quod Nerva’, cioè anche al secondo senso attestato in D. 50.16.213.2 e 223.pr. (‘non intelligere quod omnes intellegunt’), erano poi i richiami, da una parte, a D. 50.16.223.pr. (‘lex latae’) nella glossa latiorem, dall’altra, a D. 24.3.24.5, un contrastato frammento ulpianeo in tema di dote, nella gl. ‘nam et si quis’ di Accursio: | 20 |
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gl. ‘latiorem’: id est latam cuius finis est non intelligere quod omnes intellegunt, ut infra de ver. sig. latae (= D. 50.16.226)28. |
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gl. ‘nam et si quis’: quasi dicat, et si forte aliquis non sit ita diligens sicut homines solent esse, fraude non caret, nisi ad suum modum, quem scilicet tenet in rebus suis, curam praestet in deposito. Sed quid si tantum praestet in deposito, quantum in rebus suis, sed in suis non tantum, quantum natura hominum desiderat; respondere tenetur quia est lata culpa: ut infra sol. matr. l. si constante § si maritus (D. 24.3.24.5). Accurs.29. |
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Il caso di D. 24.3.24.5, Ulp. 33 ad ed., citato da Accursio, è quello di un marito saevus verso gli schiavi dotali, di cui la moglie, al momento dello scioglimento del matrimonio, chiede con l’actio rei uxoriae la condanna per saevitiae. Ulpiano ammette con certezza tale possibilità (‘constat’) nel caso di un marito che non abbia rispettato la diligentia quam suis (‘… diligentiam uxor eam demum ab eo exigat, quam rebus suis exiget, nec plus possit’), cioè sia stato saevus verso i servi dotales ma non verso i propri; ma lo stesso viene ammesso, pur con qualche maggior titubanza, nel caso di un uomo per natura spietato, le cui crudeltà non siano risparmiate a nessun membro della familia servile. Una tale immoderata saevitia non deve infatti restare impunita: | 21 |
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(D. 24.3.24.5) Si maritus saevus in servos dotales fuit, videdum, an de hoc possit conveniri. Et si quidem tantum in servos uxoris saevus fuit, constat eum teneri hoc nomine: si vero et in suos est natura talis, adhuc dicendum est immoderatam eius saevitiam hoc iudicio coercendam: quamvis enim diligentiam uxor eam demum ab eo exigat, quam rebus suis exiget, nec plus possit, attamen saevitia, quae in propriis culpanda est, in alienis coercenda est, hoc est in dotalibus. |
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Applicato al deposito, il testo ulpianeo forniva facile appiglio per l’estensione della ‘lex quod Nerva’ e della responsabilità del depositario alla grave e inescusabile negligenza della ‘lex latae’ (D. 50.16.223.pr.): così, nella gl. ‘nam et si quis’ di Accursio, la citazione di D. 24.3.24.5 (sol. matr. l. si constante § si maritus) serve appunto a provare che il depositario risponde verso il depositante non solo se in deposito è meno diligente che in suis, ma anche se, indipendentemente da tale parametro, commette una colpa talmente grave da non potere restare impunita30. | 22 |
Secondo la lettura dei glossatori il depositario rispondeva, dunque, per dolo e per le due accezioni di culpa lata rinvenibili nelle fonti. Ma l’elaborazione della diligentia quam suis come categoria dogmatica generale esigeva ulteriori precisazioni concettuali, funzionali soprattutto a superare i contrasti esistenti fra i testi: in particolare, se la ‘lex quod Nerva’ aggravava la responsabilità del depositario configurando, nell’omissione della diligentia quam suis, un caso di culpa lata (‘… nisi tamen ad suum modum curam in deposito praestat fraude non caret …’), nella lex socius socio (D. 17.2.72, Gai 2 r. cott.) la prestazione della diligentia quam suis costituiva il limite della responsabilità per colpa del socio (… Culpa autem non ad exactissimam diligentiam dirigenda est: sufficit etenim talem diligentiam communibus rebus adhibere socium, qualem suis rebus adhibere solet …’). | 23 |
Alla contraddizione i glossatori non si arrendono e cercano una soluzione che armonizzi le due discipline alla luce dei diversi contesti, senza peraltro pregiudicare il principio dell’utilitas contrahentium. Così Azone – la cui soluzione viene recepita dalla Magna Glossa (gl. ‘solet’ a Iust. inst. 3.25.9.pr.) – nel titolo ‘pro socio’ della Summa Codicis riferisce al socio e al depositario doveri di diligentia di diverso contenuto: al socio viene richiesto di mantenere il livello di diligentia a lui abituale prima dell’assunzione in società (‘diligentia praeteriti temporis’)31, al depositario di garantire, post depositionem, parità di trattamento fra le cose affidate e le proprie (‘consuetudo praesentis temporis’)32: | 24 |
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Item venit in hanc actionem bona fides ut dolus absit. Item culpa si non prestet eam diligentiam quam in rebus suis adhibere solet. Ultra autem non tenentur sibi imputaturo eo qui parum diligentem socium sibi assumit et sic dicitur de se queri ut ff. eo l. cum duobus § venit autem (D. 17.2.52.1) et l. socius socio (D. 17.2.72) et instituta eo § ult. (Iust. inst. 3.25.9). In depositario autem non spectatur praeteriti temporis consuetudo sed praesentis quod est post depositionem ut ad minus adeo sit diligens in depositis ut in suis ut diximus supra depositi. Et idem forte est in eo qui non est socius sed habet mecum rem communem, ut et ibi praesentis temporis diligentia quam adhibet in propriis praestanda sit in communibus, ut ff. fam. herc. heredes § non tantum (D. 10.2.25.16)33. |
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(Iust. inst. 3.25.9.pr.) gl. ‘solet’: Ante contractam societatem. Et in hoc discrepat a depositario qui ut in presenti tenetur sic ff. depo. l. quod nerva. Sic est in eo cum quo habeo rem communem sine societate, ut ff. fa. her. l. heredes § non tantum (D. 10.2.25.16)34. |
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Questa soluzione non pregiudica, secondo Piacentino, l’applicazione del principio dell’utilitas perché il socius risponde pur sempre di culpa, quindi fortiter, il depositario di dolo e culpa lata, quindi leviter: | 25 |
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Placentini Summa Institutionum, in librum tertium Institutionum, de societate tit. XXIIII: Tenetur socius socio etiam neglegentiae nomine, sed hoc ita: si vel in suis diligens est, vel esse solet, alias minime. Ergo in medio constitutus est inter depositarium et coheredem. Quippe depositarius non tenetur, nisi ad eam diligentiam, quam in suis praestaret, et praestiterit, aut non, ergo ita distinguere possumus: depositarius tenetur leviter, socius fortiter, coheres fortius, commodatarius fortissime35. |
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Come già nel Codex Euricianus e nelle leges Visigothorum e Baiuwariorum (§ 2), il riferimento evidente di Azone è a D. 13.6.5.4 (Ulp. 28 ad ed.) in tema di comodato (ove al comodatario viene imputato il perimento fortuito della cosa affidata se nella stessa circostanza ha salvato la sua), alla luce del quale la ‘lex quod Nerva’ viene letta e interpretata al di là del suo dato letterale36: | 26 |
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D. 13.6.5.4: Quo vero senectute contingit vel morbo, vel vi latronum ereptum est, aut quid simile accidit, dicendum est nihil eorum esse imputandum ei qui commodatum accepit, nisi aliqua culpa interveniat. Proinde et si incendio vel ruina aliquid contigit vel aliquid damnum fatale, non tenebitur, nisi forte, cum possit res commodatas salvas facere, suas praetulit. |
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Ma il collegamento è sviante ed errato perché, mentre in D. 16.3.32 la responsabilità del depositario si arguisce dal confronto fra la sua diligenza abituale e quella attuale, in D. 13.6.5.4 è il confronto fra la sorte dei due diversi gruppi di beni nella stessa circostanza a far presumere l’esistenza della culpa (‘… nisi aliqua culpa interveniat’) e a fondare la responsabilità. Inoltre la soluzione, che è per il comodatario la diretta conseguenza dell’applicazione del principio dell’utilitas, non si adatta punto al depositario gratuito, cui nessuna norma o ragione pratica potrebbe imporre il sacrificio della propria cosa a favore di quella affidata. Ma i glossatori non si avvedono della forzatura e, nella gl. ‘salvas facere’ a D. 13.6.5.4, citando la ‘lex quod Nerva’, giungono ad imputare il damnum fatale al depositario che abbia sacrificato la cosa affidata alla propria, a meno che – aggiunge la glossa – la prima non fosse vilioris pretii di quella in sua proprietà: | 27 |
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gl. ‘salvas facere’ a D. 13.6.5.4: Simili enim modo debet custodire, ut hic, et infra deposi. l. quod nerva, sic et tutor pupilli pecuniam, ut infra de admin. tut. l. tutor (D. 26.7.13), … Sed quid si res commodata erat vilis pretii, sua vero pretiosa res erat? Respondere non tenetur …37 |
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E’ su questa nuova base interpretativa che Azone, nel titolo ‘depositi’ della Summa Codicis, elabora la nuova categoria dogmatica del «dolo presunto», che tanto successo avrà nei secoli successivi: alla culpa lata della ‘lex latae’ (D. 50.16.223.pr.), inescusabile negligenza, lontanissima dal dolo, di chi ex fatuitate non è nemmeno in grado di capire la stupidità e la pericolosità del proprio comportamento, si affianca la culpa lata della ‘lex quod Nerva’ che, pur non identificabile col dolo, si trova ad esso assai più vicina: la semplice disparità di trattamento fra le cose proprie e le altrui nella stessa circostanza fa, infatti, presumere nel depositario un’intenzione di frode perché, come dice Celso, ‘fraude non caret’ chi ‘minorem quam suis rebus diligentiam praestabit’. Così Azone, dopo aver richiamato D. 17.1.29.pr. in tema di mandato, dichiara che ‘dolus praesumitur’ e ‘abesse praesumitur bona fides’ ogniqualvolta ‘res suas habet salvas et res depositae non apparent’: | 28 |
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… Venit autem in actionem istam dolus tantum … et lata culpa; quam latam culpam vel latiorem nerva dixit dolum esse, quod sic intellego i. dolum praesumi, ut ff. man. l. si fideiussor primo responso (D. 17.1.29.pr.). … Praesumitur autem lata culpa dolus circa depositarium qui licet non sit adeo diligens ut natura desiderat vel ut homines consuerunt esse diligentes si tamen curam in deposito non praestet ad modum suum, idest quem observat in rebus suis propriis, fraude non caret nec non salva fide minorem depositis rebus diligentiam praestabit quam suis. Abesse nam praesumitur bona fides cum res suas habet salvas et res depositae non apparent … Exemplum pone. Si res suas reponebat in archa bene firmata. Res autem depositas relinquebat in domo supra bancha38. |
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La nuova categoria del dolo presunto viene recepita dalla «Glossa ordinaria», che spiega così la parola ‘fraude’ del fr. 32: | 29 |
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gl. ‘fraude’: id est lata culpa quae fraudi comparatur. Vel dic fraude, scilicet praesumpta39. |
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La riflessione dei glossatori sulla ‘lex quod Nerva’ aveva, dunque, portato ad identificare l’essenza della responsabilità per diligentia quam suis, non tanto nelle modalità concrete della custodia prestata dal depositario, quanto nel dato meramente formale della disparità di trattamento, nella stessa circostanza, fra le cose proprie e quelle affidate: essa faceva di per sé presumere l’esistenza della frode perché – come dirà Baldo – ‘quantum ad notitiam futuri pericoli, quod ?depositarius? cognoscit in se, cognoscit in alio’40. | 30 |
Di qui a svincolare la teoria della responsabilità dal dato dell’obbiettiva riprovevolezza del comportamento dell’obbligato, cioè dal suo naturale connotato etico, il passo era breve: ed è manifesto nella «Glossa ordinaria» che, a spiegazione delle parole ‘minorem’ di D. 16.3.32 e ‘contractus’ di D. 50.17.23, individua un caso di dolo presunto non solo nel depositario mediamente diligente che in deposito non rispetti tale standard e sia pertanto negligens, ma anche nel depositario diligentissimus che, in deposito, sia soltanto diligens: | 31 |
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gl. ‘minorem’ quam debet: ut si in suis non est diligens ut alii homines: sed quid si in suis est diligentissimus, in depositis est ut alii homines? Videtur esse in fraude ut ibi …41. |
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gl. ‘contractus’ (a D. 50.17.23): Dolum tantum recipiunt depositum et precarium, ut supra depositi l. quod nerva … tamen hoc non excludit latam culpam, ut dictis legibus, quae dolo comparatur, ut supra si mensor fal. mo. di. l. i § ideo autem (D. 11.6.1.1). Sed excludit levem et levissimam. Plane et in his et exactissima diligentia praestatur interdum si depositarius, vel qui accedit precario, in suis est diligentissimus. Item si in suis est negligentissimus, non erit impunita eius negligentia: diligens nam debet esse ad eum modum quem hominum natura desiderat, ut supra depositi l. quod nerva42. |
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La responsabilità del depositario, che nelle stesse dichiarazioni di intento dei glossatori doveva assumere proporzioni ridotte per il principio dell’utilitas contrahentium, ne assumeva invece di elefantiache, addirittura imputando il diligentissimus di culpa levissima (così espressamente la gl. ‘contractus’ a D. 50.17.23) laddove avrebbe dovuto rispondere soltanto di dolo e culpa lata. L’essenza di tale infrazione non sta nelle modalità del suo atteggiamento, ma nella mera disparità di trattamento fra cose proprie ed altrui: quindi il diligentissimus ed il diligens sono tenuti rispettivamente all’exactissima e alla media diligentia e, se non la rispettano, saranno imputati di culpa lata = dolo presunto, pur avendo nella sostanza commesso una mera culpa levissima o levis. | 32 |
Certo, con un’applicazione rigorosa del principio, ciò che costituisce per il diligentissimus svantaggio, dovrebbe per il negligente tradursi in beneficio, visto l’abbassamento del livello di responsabilità derivante, nella specie, dall’applicazione della diligentia quam suis: ma tale conseguenza logica viene attenuata nella Magna Glossa, che non solo nega in via di principio ogni possibilità di scusante alla negligenza grave del depositario (e a questo fine cita, come già visto, D. 24.3.24.5) ma addirittura, nella gl. ‘nam et si quis’ a D. 16.3.32 e nella glossa ‘contractus’ a D. 50.17.23, con evidente forzatura del dato testuale, giunge ad identificare come culpa lata il comportamento di chi non sia ‘diligens quantum natura hominum desiderat’ e questo stesso standard applichi alla custodia della cosa depositata: | 33 |
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gl. ‘nam et si quis’: Sed quid si tantum praestet in deposito, quantum in rebus suis, sed in suis non tantum, quantum natura hominum desiderat? respondere tenetur quia est lata culpa: ut infra sol. matr. l. si constante § si maritus (D. 24.3.24.5). Accurs.43. |
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gl. ‘contractus’: … Item si in suis est negligentissimus, non erit impunita eius negligentia: diligens nam debet esse ad eum modum quem hominum natura desiderat, ut supra depositi l. quod nerva44. |
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Così, nell’opinione prevalente recepita dalla Magna Glossa, l’applicazione della ‘lex quod Nerva’ poteva aggravare la responsabilità del depositario ma, di regola, non attenuarla: non si trattò, tuttavia, di un’opinione incontrastata. Ce lo rivela un Tractatus de diligentia et dolo et culpa et fortuito casu della prima metà del XII secolo pubblicato dal Dolezalek45 nel 1982 che, nel titolo ‘de pro socio’ (sic!), a proposito della diligentia quam suis del socio, cita il parere di un certo Theuzo, maestro altrimenti ignoto, forse di scuola veronese46: nell’amministrazione delle cose comuni, per evitare la responsabilità, al socius non basterebbe, secondo Theuzo, l’applicazione della propria diligenza abituale, ma occorrerebbe comunque l’exacta diligentia. In mancanza si cadrebbe, infatti, nell’assurdo di equiparare socio e depositario sotto il profilo della responsabilità, applicando ad entrambi lo stesso trattamento di favore in evidente contrasto col principio dell’utilitas: | 34 |
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de pro socio. In pro socio actione dolus et culpa prestatur, ut D. de regulis i. Contractus (D. 50.17.23). Set sufficit talem diligentiam prestare qualem socius in suis rebus adhibere solet, ut D. e. Cum duo. § Venit, Socius socio (D. 17.2.52.2) et famil. herc. l. Heredes § Non tantum (D. 10.2.25.16), in instit. De societate § ult. (Iust. inst. 3.25.9). Nec negligentia socii est compensanda cum industria eius, sed ipsi imputanda est, ut D. pro socio Non ob (D. 17.2.25). Sententia vero Theuzonis est ut et si non sit diligens in suis rebus socius, oporteat eum prestare exactam diligentiam in communibus. Alioquin nihil distare hanc actionem a deposito, quod esset absurdum. Refert ut in instit. e. (Iust. inst. 3.25) et D. e. Cum du. § i (D. 17.2.52.2). |
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Laddove Accursio e la dottrina prevalente accentuavano l’effetto aggravante della ‘lex quod Nerva’ sulla disciplina della responsabilità del depositario, Theuzo ne accentua all’opposto l’effetto attenuante: per lui è regola certa che al depositario meno diligente della media basti, per evitare la responsabilità, usare questo stesso grado di diligenza. | 35 |
Ma questi contrasti vengono presto superati e la dottrina minoritaria abbandonata: la ‘lex quod Nerva’ è ormai norma generale47 dai precisi contorni interpretativi da cui, come si vedrà, le successive scuole faticheranno a staccarsi. |
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L’esposizione della teorica della diligentia quam suis elaborata dai glossatori ne ha messo in luce alcuni punti critici, come l’irrisolta oscillazione fra i concetti di culpa lata e dolo nella configurazione dogmatica del «dolo presunto», l’indebito richiamo a D. 13.6.5.4 nell’interpretazione di D. 16.3.32 e l’ingiusta penalizzazione del depositario diligentissimus chiamato addirittura a rispondere per culpa levissima. I commentatori, nell’atto stesso di classificare, distinguere e precisare i concetti ricevuti dalla tradizione sulla scorta delle nuove tendenze sistematico-dialettiche, individuano tali lacune e in vario modo tentano di colmarle. | 36 |
Fra gli antesignani del metodo del commento, uno dei primi a intervenire ampiamente nel dibattito sulla ‘lex quod Nerva’ è Pierre de Belleperche, le cui soluzioni innovative, equilibrate e rigorose verranno, tuttavia, parzialmente obliterate dalla rivisitazione di Bartolo: nella Lectura Institutionum, in un’ampia esposizione della sistematica della colpa incidentalmente introdotta nel titolo ‘de obligationibus quae quasi ex delicto nascuntur’ (IV.1)48, il Bellapertica corregge l’interpretazione della glossa individuandone con mirabile acume tutti i lati oscuri. | 37 |
Come già visto, secondo i doctores, il depositario rispondeva, oltre che per dolo, per due forme diverse di culpa lata, da una parte l’omissione di diligentia quam suis altrimenti qualificata come dolo presunto (D. 16.3.32), dall’altra la grave e inescusabile negligenza di chi ‘non intelligit quod omnes intellegunt’ (D. 50.16.213.2 e 223.pr.). Secondo il Bellapertica la prima categoria (la culpa lata intesa come dolo presunto) confonde i profili del dolo – che è ‘calliditas’ – con quelli della colpa – che è ‘ignorantia’ – e trascura la testuale equiparazione della culpa latior al dolo dell’esordio del fr.32 (‘… latiorem culpam dolum esse’). L’omissione di diligentia quam suis non configura, dunque, una forma di culpa lata ma un caso puro e semplice di dolo, malevola intenzione del depositario desumibile dalla disparità di trattamento fra le cose proprie e quelle affidate. Non è peraltro isolabile, secondo l’autore, un’autonoma categoria di dolo presunto distinta da quella di dolo vero, perché le intenzioni, celate nell’animo, sono di necessità imprescrutabili ed ogni dolo è per sua natura presunto: | 38 |
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Lectura Institutionum IV.1, ‘de obl. quae ex quasi del. nasc.’ 1049: Sed certe omnis dolus est praesumptus. Nam dolus consistit in animo et ea quae sunt in animo est impossibile intelligere nisi per praesumptionem, et probatur hoc in pecudibus, ut supra de rerum divisio § pavonum (Iust. inst. 2.1.15). Ergo non est dare dolum nisi praesumptum, et propter hoc intellige sic quod lata culpa est dolus et dolus lata culpa est, id est, dolo similis est. Et sic intelleguntur glossae et sic intellegitur l. ff. depo. l. quod nerva. Nam ibi diffinitur dolus deinde ponitur exempum doli. Nam dolus est species culpae et quod iurisconsultus ponit exemplum lata culpa est quando aliquis in rebus suis et in alienis est negligens ultra communem hominum modum. Unde si quis melius servet res proprias quam depositum latior culpa est quae dolo non caret: imo dolus dicitur, et sic loquitur l. illa si bene intellegatur. |
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Rimane, dunque, una sola categoria di culpa lata – quella di chi ‘ignorat illud quod omnes sciunt’ –, ma anch’essa, secondo il Bellapertica, deve essere precisata: non è infatti definibile in astratto – come hanno fatto i glossatori – ma si può soltanto desumere in concreto dal contesto, dalla situazione personale dell’agente e dalle sue effettive possibilità di rendersi conto della riprovevolezza del proprio comportamento: | 39 |
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750: Tertio quaero quid sit lata culpa. Doctores dicunt quod lata culpa est negligentia maior quam exigat communis modus hominum, id est qui ignorat illud quod omnes sciunt. … Certe doctores tentant illud diffinire quod est impossibile. Nam sicut est impossibile diffinire moram, ut ff. de usuris l. mora (D. 22.1.32.pr.), ita impossibile est diffinire latam culpam. Sic intelligas verba doctorum. Ille est in lata culpa qui ignorat illud quod omnes sciunt, vel debet intelligere si habet eandem causam sciendi: subaudi cum aliis. quid enim si dum fit bannum regis coram rusticis, ego sum in camera. Nunquid dices me esse in lata culpa si ignorem bannum quod omnes rustici sciunt. Unde intelligo de eo qui habet eandem causam sciendi cum aliis. |
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Su questa base, partendo dalla critica alla diffinitio di ‘dolum’ formulata dagli antiqui doctores, l’autore rivede l’interpretatio della ‘lex quod Nerva’ precisandola con rigore ed equità. | 40 |
Dalla combinazione di D. 16.3.32, D. 13.6.5.4 e D. 26.7.7.pr. si era diffuso fra i doctores, anche contro l’insegnamento di grandi maestri della glossa (come Azone), l’uso di definire in via generale il dolo come infrazione della diligentia quam suis, obliterandone l’aspetto essenziale della calliditas (evidenziato, invece, in D. 4.3.1.2-3). Bellapertica mette in guardia dal rischio di generalizzare la ‘lex quod Nerva’ estrapolandola dal suo contesto. La diffinitio si riferisce al solo depositario e all’adempimento del suo obbligo di custodia e in questi meri termini deve essere intesa: in mancanza si giungerebbe all’assurdo di imputare di dolo lo studente di diritto che, ricevuto in deposito il codex Pandectarum di un compagno, annotasse con glosse il proprio esemplare ma non le riproducesse su quello del depositante: | 41 |
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3-451:…. Unde dicunt quod dolus est ex negligentia procedens ex eo quod minor diligentia adhibetur alienis rebus quam in suis verbi gratia. Tu ponis penes me rem tuam custodiendam ego eam negligenter custodio et meam diligenter: ecce dicunt ipsi quod hic est dolus ad hoc inducunt ff. deposi. l. quod nerva (D. 16.3.32) et ff. commo. l. si ut certo § plane (D. 13.6.5.4) et ff. de administra. tut. l. tutor § primo (D. 26.7.7.pr.). Sed certe ista diffinitio non est generalis. Nam bene potest esse dolus non habito respectu ad res proprias vel ad alienas. Dicas ergo et diffinias dolum ut Azo diffinuit. Nam dolus est calliditas ut ff. de dolo l. prima (D. 4.3.1.2-3). Item dico quod haec diffinitio non est vera. Nam potes esse quod ego non adhibeo tantam diligentiam in re aliena quantum in mea et tamen non sum in dolo, imo, quod plus est, nec in aliqua culpa. Nam pone: tu deposuisti penes me tuum ff., ego similiter habeo ff. certa quae corrigendo omnem diligentiam adhibeo quam possum, et circa ff. tuum solam literam non appono. nunquid sum in dolo? absit. Unde restringe hoc quod dicunt doctores quod minor negligentia inducit dolum ad hoc quod tenetur de natura contractus depositarius. Scilicet ad rem custodiendam et sic debet intellegi ff. depo. l. quod nerva. |
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D. 16.3.32 presenta, dunque, per Bellapertica, un esempio di dolo del depositario desumibile dall’omissione di diligentia quam suis nella custodia del bene depositato. Il depositario risponde, poi, per culpa lata nell’accezione di D. 50.16.223.pr. | 42 |
Ma le novità non finiscono qui: la glossa, interpretando D. 16.3.32 alla luce di D. 13.6.5.4, estendeva la responsabilità del depositario al perimento fortuito della cosa affidata quando, nella stessa circostanza, egli avesse preferito salvare la propria, salvo che quest’ultima fosse ‘pretiosior’ e la preferenza fosse, dunque, giustificata. Il Bellapertica corregge questo assunto, precisando che al depositario non si chiede di usare verso la cosa depositata la stessa diligenza che usa verso la sua, ma la diligentia che ragionevolmente presterebbe se la cosa depositata fosse sua: | 43 |
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452: Sed pone etiam in custodia tu deposuisti penes me ff. tuum quod non valebat decem; ego habeo ff. quod XX valebat. Certe nec in isto casu teneo adhibere tantam diligentiam quantam in meo, quod probo. Nam posito quod ff. tuum esset meum, tamen non tantam diligentiam apponerem in minus valens quantam in pretiosius. Nam ubi est maius periculum, ibi cautius est agendum, ut ff. de carbo. edict. l. prima § sed et si quis (D. 37.10.1.5), quod autem sufficiat in re aliena me adhibere tantam diligentiam in custodiendo quantam adhiberem si esset mea probatur ff. de solutio. l. iij (D. 46.3.3.pr.) et ff. de praescript. verb. l. naturalis (D. 19.5.5). |
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Ma l’equità suggerisce all’autore, in aperto contrasto con la dottrina dominante, che anche nel caso di beni di pari valore, il depositario sia legittimato a scegliere se salvare la propria cosa o quella affidata e il diritto non possa sanzionare ciò che costituisce una sua libera scelta di coscienza. La conferma testuale si trova, secondo l’autore, in un frammento ulpianeo sul sc. Silaniano, ove viene esclusa la punibilità del servus che, in una situazione di pericolo, abbia dovuto scegliere a quale dei suoi padroni recare aiuto: | 44 |
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D. 29.5.3.4, Ulp. 50 ad ed.: Si, cum omnes domini adgressuram paterentur, uni servus opem tulit, an sit excusandus, an vero quia omnibus non tulit plectendus? Et magis est, ut, si quidem omnibus ferre potuit, quamvis quibusdam tulit, supplicio adficiendum: si vero simul omnibus non potuit, excusandum, quia quibusdam opem tulerit. Nam illud durum est dicere, si, cum duobus auxilium ferre non possit, elegit alteri esse auxilio, electione crimen eum contraxisse. |
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Petrus de Bellapertica, Lectura Institutionum IV.1, 4-553: Sed pone quod res aliena sit aeque pretiosa sicut mea, et contingit incendium, ita quod utranque et alienam et meam custodire non possum: sed bene possum unam salvare. Quaeritur quam salvabo. Videtur quod alienam debeam salvare. Arg. ff. commo. l. si ut certo (D. 13.6.5.4) et ff. de admini. tuto. l. tutor qui repertorium (D. 26.7.7). Quid dicemus: ego dico quod erit hic locus cui velim gratificare et sanum consilium est ut mihi gratificem. Nam ordinata charitas incipit a seipso et quod sit hic locus gratificationi ego probo per l.: ecce quidam erat servus communis quorum: modo ita est quod servus quemlibet dominorum salvare tenetur in omni pericolo aequaliter. Ita contingit quod uterque invaditur ita quod quilibet clamat ad auxilium. Quem salvabit servus, cum utrunque salvare non possit? Certe videtur quod quem voluerit et sic relinquitur suae gratificationi. Ita est in casu proposito, arg. ff. ad sille. l. tertia § si cum omnes (D. 29.5.3.4). |
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Questa soluzione innovativa non ha, tuttavia, grande fortuna54: al contrario i commentatori, richiamando la ‘lex quod Nerva’, formalizzeranno il principio dell’estensione della responsabilità del depositario al caso fortuito ‘si culpa praecedit casum’55. | 45 |
Ultimo lato oscuro della ricostruzione della glossa era l’eccessivo aggravamento di responsabilità del depositarius diligentissimus. Per attenuare la rigidità della soluzione tradizionale ma, nel contempo, tutelare le aspettative del depositante, il Bellapertica escogita la media via di richiedere al diligentissimo, se non la diligentia exactissima, almeno una custodia più attenta e scrupolosa della media, purchè naturalmente ciò possa avvenire sine gravi damno suo: | 46 |
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1156: Quaero si quis est diligentissimus in re sua, an eum oporteat esse diligentissimum in re aliena. Glossae dicunt quod sic. Sed certe secundum hoc sequeretur quod depositarius teneretur de levissima culpa, quod esse non debet, ut ff. de regu. iur. l. contractus (D. 50.17.23). Alii dicunt quod propter hoc non oportet eum esse diligentissimum in re aliena, quia si sic, diligentia esset sibi damnosa quod esse non debet, ut ff. de separatio. l. debitor (D. 42.6.3). Et si diligentissimus in re sua deberet esse diligentissimus in re aliena, iam sequeretur quod esse deterioris conditionis quam si esset parum diligens in re sua. Quod esse non debet: quia non debet esse melioris conditionis fatuus quam peritus, ut ff. quod vi aut clam l. servius (D. 43.24.4). Ista videtur verior sed prima aequior et propter hoc ego teneo viam mediam et dico quod non debet esse diligentissimus, verumtamen tenetur ad maiorem diligentiam in re aliena quam tenetur alius non diligentissimus, si tamen diligentiam illam maiorem adhibere potest sine gravi damno suo. |
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Ma anche questa proposta non troverà seguaci e, forse per la prepotente influenza di Bartolo, la dottrina tradizionale avrà maggior successo: risale, infatti, al 1343 l’ampia repetitio della ‘lex quod Nerva’ del commentario al Digestum Vetus di Bartolo57, che rappresenterà per lungo tempo il manifesto della teoria della responsabilità contrattuale nel diritto comune58. | 47 |
Anche l’argomentazione di Bartolo parte dalla critica agli antiqui doctores che, trascurando la lettera del testo, hanno confuso dolo e colpa, frode e inavvertenza, animus e ignorantia59: come per Pierre de Belleperche, la culpa latior della ‘lex quod Nerva’ non è una forma di culpa lata, ma un vero e proprio caso di dolo dedotto per praesumptionem dalla disparità di trattamento fra le cose del depositario e quelle affidate in custodia. | 48 |
Ma se il Bellapertica aveva sfumato il concetto di dolo presunto in quello generico di dolo, Bartolo lo presenta come figura autonoma del genus culpa60 distinta in sei species differenti61: la culpa latissima o dolo manifesto che si fonda su indizi manifesti, la culpa latior o dolo presunto che si fonda su indizi presuntivi, la culpa lata, levis, levior e levissima, ossia le quattro forme di culpa propriamente dette62: | 49 |
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Dico ergo quod hec l. ita debet intellegi. Nam debetis scire quod quidam est dolus verus et iste appellatur culpa latissima, et est dolus presumptus et iste appellatur culpa latior ut hic. Est culpa lata in qua non est dolus verus nec presumptus cuius finis est non intelligere ut infra de verbo. significa. l. late (D. 50.16.223.pr.). Est etiam culpa levis, levior et levissima …63. |
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Omnis ergo dolus est presumptus et nullus dolus est manifestus? Respondeo. Quaedam sunt indicia manifesta et illa probata inducunt dolum manifestum ut dicit l. dolum, quaedam sunt indicia seu presumptiones non ita manifeste nec omnino dolum concludunt et ista de necessitate non inducunt dolum sed presumptive …64. |
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La culpa latior, definita come ‘machinatio ad decipiendum fallendumque alterum adhibita presumptive’65, ha, rispetto alla culpa latissima, minore forza probante e, come tale, in base a D. 48.8.7, è inutilizzabile nei giudizi criminali che esigono la prova diretta del dolo. Per la stessa ragione soltanto la culpa latior, non quella latissima, ammette l’excusatio del convenuto per presunzione contraria. Per Bartolo la praesumptio fraudis fondata sulla disparità di trattamento fra cose proprie ed altrui si vanifica sia quando i beni affidati siano vilioris pretii di quelli del depositario, sia quando siano comuni fra affidante ed affidatario: nel primo caso, la preferenza accordata ai propri beni è legittimata dal loro obbiettivo maggior valore66; nel secondo caso l’omissione di diligentia quam suis non giustifica una presunzione di dolo nell’affidatario-contitolare, perché il suo interesse diretto e personale all’incolumità della res communis porta di regola ad escludere la possibilità di un suo intento malevolo e fraudolento: | 50 |
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Iuxta praedicta quaero quid est differentia in effectu inter verum dolum et presumptum vel culpam latiorem. Respondeo … a vero dolo nulla est excusatio, a presumpto sic, ut si sit alia presumptio quae illam tollit, ut si res erat communis et aliae res depositarii erant pretiosiores, ut dixi supra in duobus ultimis commentariis. Item quia in causis criminalibus requiruntur luce meridiana clariores probationes ut l. sciant. C. de probationibus (C.I. 4.19.25)67; ille talis dolus non sufficit quia non debet quis ex presumptionibus damnari68. |
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All’ulteriore riflessione del Bellapertica, che legittimava la scelta del depositario di salvare dal perimento fortuito la propria cosa a scapito di quella affidata anche nel caso di beni di eguale valore, Bartolo non accenna. Lo farà, invece, Baldo che, nel commento alla ‘lex quod Nerva’ del Commentarium al Digestum Vetus69, ripropone la regola tradizionale per cui il depositario è tenuto in tal caso a preferire la res aliena alla propria, rilevando che il brocardo ‘licitum est unicuique suam utilitatem praeponere’ e il suo corollario ‘licitum est unicuique salutem rerum suarum praeponere’ non valgono per il deposito a causa dei peculiari obblighi di custodia ivi gravanti sull’obbligato (‘ubi venit custodia, debet praeferri res aliena’). In verità la soluzione non convince e, ancora per lungo tempo, susciterà radicali polemiche70. | 51 |
E’ da notare che attraverso la teoria delle «presunzioni contrarie» Bartolo giunge anche a giustificare in modo nuovo la contraddizione esistente fra D. 16.3.32 – ove l’omissione di diligentia quam suis è presentata come culpa latior – e D. 17.2.72/D. 10.2.25.16, ove è presentata come culpa levis attenuata: con mirabile acume l’autore intuisce che la disparità di trattamento fra le cose proprie e quelle affidate può far presumere nel depositario un’intenzione malevola – cioè può configurare un’ipotesi di dolo presunto –, soltanto laddove riguardi una res aliena a cui l’affidatario non è direttamente e personalmente interessato. Viceversa la trascuratezza di una res communis, sia nel caso di comunione volontaria (la società di D. 17.2.72) che incidentale (la coeredità di D. 10.2.25.16), non fa presumere il dolo, ma suggerisce l’esistenza di una mera culpa levis, perché ‘non ita de facili praesumitur dolus in rebus communibus ex negligentia cum ad eum pertineat commodum et incommodum, sicut in rebus alienis’71. Si può dunque concludere con Bartolo che ‘aut loquimur in rebus communibus et tunc non adhibere eam diligentiam quam in suis non est latior culpa, sed levis, aut loquimur in rebus alienis, et tunc est culpa latior ut hic, nisi sit aliqua presumptio ut hic’72. | 52 |
Tutto questo spiegherebbe, secondo Bartolo, anche l’apparente aberrazione del depositario ‘diligentissimus’, costretto suo malgrado a rispondere di culpa levissima laddove la responsabilità è in linea di principio limitata al dolo: la trascuratezza di chi non è ‘ita fidelis alteri sicut sibi’ fa, infatti, presumere di per sé un’intenzione malevola, quale che sia il grado iniziale e normale di diligenza dell’obbligato. Né si può dire – con il glossatore Giovanni de Blenosco (o Blanasco) e, parzialmente, con Petrus de Bellapertica – che al diligentissimo nuoccia in tal caso la propria diligenza, perchè ciò che gli nuoce è, secondo Bartolo, il suo dolo presunto, desumibile direttamente dalla disparità di trattamento fra le cose proprie e le altrui: | 53 |
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Item opponitur, prout hic intellegitur de eo qui est plus diligens quam sint communiter homines diligentes in suis rebus, ergo videtur quod diligentia sua sit sibi damnosa quia si est minus diligens in alienis teneret et sic deterioris condicionis est iste quam minus diligens, supra l. non solum ff. de noxalibus (D. 9.4.13). Huius timore Joan. De Blenosco qui primus tractavit hanc materiam multum seriose, in materia quam fecit super titulum de actionibus non tenebat istam opinionem de eo qui erat plus diligens. Alii moderni tenent et est verum, nam eo ipso quod non est ita diligens in alienis sicut in suis fraude non caret. Nec dicitur quod sibi noceat diligentia sua, quia est falsum, immo nocet dolus suus presumptus, quia non est ita fidelis alteri sicut sibi73. |
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Ma è evidente quanto la soluzione sia insoddisfacente sul piano dell’equità, il che, per lungo tempo, alimenterà le critiche: ancora in pieno cinquecento, nel Tractatus de contractibus et negotiationibus di Ludovico Lopez74, all’obbiezione dell’inconvenientia di privilegiare il ‘depositarius rudis et imperitus’ a quello ‘expertus et solers’, il canonista non troverà di meglio che distinguere fra il foro esterno – ove vige la regola del dolo presunto – e quello della coscienza, ove ‘praesumptio cessat et veritas constat’: | 54 |
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… dolus imputabitur depositario ad damnum, neque sua diligentia tunc est damnosa, sed dolus praesumptus est, qui tantum in foro exteriori nocebit ei. Non autem in coscientia, ubi praesumptio cessat, et veritas constat, debet id facti nocere illi. |
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Ma ciò non impedisce al dolo presunto, nell’elaborazione della glossa e di Bartolo, di penetrare profondamente nel circuito della prassi: ancora nel 1594, una decisione del Senato di Savoja riportata nel Codex Fabrianus75 su un caso di furto di pecuniae depositate in un cubiculum chiuso a chiave, condanna il depositario detentore delle chiavi se, cubiculo illaeso, risultino sottratte le sole pecuniae del depositante: | 55 |
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Depositarius quidem, qui neque culpam promisit, neque deposito se ultro obtulit, de culpa non tenetur, multoque minus de casu fortuito, sed tantum de dolo. Sed tamen dolum praesumptum esse sufficiet, ut conveniri possit. Finge depositas pecunias in eo loco, cuius claves semper penes depositarium fuerint, et illaeso cubiculo amissas subtractasque res depositas, ac praeterea nihil ex iis rebus, quae ad depositarium ipsum pertinebant. Negari non potest, quin doli praesumptio urgeat contra depositarium, ideoque teneri eum depositi aequum erit. … Nec depositario proderit, quod probet ex rebus subtractis quasdam in alterius manu et potestate visas esse, nisi probet etiam qua ratione fieri potuerit, ut ad possessorem res illae pervenerint. Cum alioqui necessario praesumendum fit, pervenisse facto et dolo eius qui claves habuit, sine quibus fieri non poterat, ut illaesis ianuis aut fenestris cubiculi, in quo res erant reconditae, quicquam ex iis subtraheretur. |
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All’eco suscitato fra i commentatori dalla lectura Bartoli della ‘lex quod Nerva’, corrisponde fra gli umanisti l’eco eguale e contrario della critica, che si appunta soprattutto sulla divisione della culpa in sei gradi e sulla configurazione della culpa latior come categoria autonoma76: il primo fra i culti a riprendere ampiamente il tema, il tedesco Ulrico Zasio77, con opinione che diviene ben presto generale, critica Bartolo, ‘purioris linguae insuetus’, per aver frainteso l’espressione ‘culpa latior’ disconoscendovi un costrutto grammaticale tipico del latino classico che, qui come in altri luoghi giuridici o letterari78, usa il comparativus pro positivo (cd. comparativo assoluto) per meglio evidenziare il concetto-base, senza peraltro volerne creare una nuova species. Come già per la glossa, la culpa latior della ‘lex quod Nerva’ non è categoria autonoma, ma una mera forma di culpa lata che, per le sue modalità, fa presumere nel depositario un’intenzione dolosa: | 56 |
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1. Magis et minus diversas species non constituere … 3. Quibus consequens est culpam, sive eam latiorem sive latissimam, et item leviorem aut levissimam nomines, ea tamen graduum intentione species non diversificari … 7. Recte igitur Accursius in d.l. quod Nerva sub culpa latiore, latam intellexit, licet Bartolus putet ea expositione textum violari, quo tamen nihil est falsius. 8. Siquidem I.C. ibidem ornato schemate comparativum in positivo abutitur … Sed ad hanc loquendi ductum Bartolus purioris linguae insuetus, cum non adverteret, labi facile poterat. Quae cum ita sint, et graduum augmenta specificam differentiam non constituant, rectius mihi culpa in duas dumtaxat species dividi oportere videtur, ut fit lata et levis79. |
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Ma il ritorno ad Accursio propugnato dagli umanisti non poteva che riproporre le difficoltà interpretative irrisolte dalla glossa, che Bartolo aveva tentato di superare isolando la culpa latior dalla culpa lata e inglobandola nel dolo: definire l’omissione di diligentia quam suis come una forma di culpa lata contrasta, infatti, con la lettera della ‘lex quod Nerva’ che, sia nell’esordio (‘latiorem culpam dolum esse’) che nella conclusione (fraude non caret …), parla espressamente di dolo. Il problema di fondo, che coinvolge l’intera sistematica della responsabilità contrattuale, è quello della corretta configurazione dogmatica della figura nel quadro dei criteri di imputabilità: stando alla lettera del testo, essa costituisce una forma di culpa lata che viene colpita come dolo, ma ciò evidentemente crea una singolare e incerta commistione fra due concetti che sono per loro natura separati e distinti. | 57 |
A questo problema i glossatori avevano risposto elaborando un concetto bifido di culpa lata di cui il depositario sarebbe stato contemporaneamente imputabile: da una parte il ‘minorem quam suis rebus diligentiam prestare’ della ‘lex quod Nerva’, dall’altra il ‘non intelligere quod omnes intellegunt’ della ‘lex latae’ (D. 50.16.223.pr.) esteso al deposito per applicazione di D. 24.3.24.5 in tema di dote (cfr. § 3). Di tale duplice responsabilità per culpa lata Accursio, forzando la lettera del testo, aveva anche trovato un riferimento letterale nel fr. 32 (nell’inciso ‘nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens est’) ma, così facendo, aveva finito per aggravare indebitamente la responsabilità del depositario richiedendogli addirittura, contro il principio dell’utilitas contrahentium, il rispetto dello standard medio di diligenza richiesto dalla natura hominum (gl. ‘nam et si quis’ a D. 16.3.32 e gl. ‘contractus’ a D. 50.17.23: cfr. § 3). | 58 |
Di questo errore interpretativo tutti gli umanisti si avvedono ed evitano di riproporlo, talvolta anche apertamente criticando, sul punto, la dottrina di Accursio (così ad esempio Antonio Fabro80, Pietro Fabro81 e Jacopo Gotofredo82). Quanto, invece, alla precisazione dei contorni dogmatici della figura e dei suoi rapporti con la culpa lata e col dolo, manca fra i culti una dottrina unitaria, essendo invece individuabili, pur nelle peculiarità dei singoli autori, tre diverse correnti interpretative: la dottrina maggioritaria, inaugurata da Zasio e riproposta nelle linee essenziali da moltissimi autori (Antonio83 e Pietro Fabro84, Jacopo Gotofredo85, Nicola Burgundio86, Jacobus Raevardus87, Giovanni D’Avezan88, Carolus Molinaeus89, Bartolomeo Cesio90, Wesembecius91, Vinnio92, Zoesius93 etc.) individua due tipi di culpa lata – quello della ‘lex quod Nerva’ e quello della ‘lex latae’ – ma equipara al dolo soltanto il primo (cd. dolo presunto), escludendo che la grave e inescusabile negligenza della ‘lex latae’ possa mai avere alcunchè di comune con la malevola intenzione insita nel dolo. Ciò troverebbe conferma in D. 50.16.226 – testo finora poco richiamato nelle discussioni dottrinali in tema di culpa – ove il giurista Paolo, nel I libro dei manualia, distingueva fra due casi diversi di colpa grave, uno denominato magna neglegentia e identificato con la culpa, l’altro denominato magna culpa e identificato col dolo (‘Magna negligentia culpa est: magna culpa dolus est’): l’alternativa troverebbe, infatti, riscontro nella culpa lata della ‘lex latae’ e in quella della ‘lex quod Nerva’94. | 59 |
Fra i maggiori e più originali rappresentanti di questa corrente interpretativa si conta in primo luogo Ulrico Zasio che, per distinguere la culpa lata della ‘lex quod Nerva’ da quella della ‘lex latae’, parla rispettivamente di ‘culpa versutiae’ ed ‘ignaviae’, ma questa qualificazione, non attestata dalle fonti, non trova in genere il consenso dei successori95: | 60 |
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10. Igitur latam culpam in duo genera distinguimus. 11. Est enim quaedam ignaviae culpa, quaedam versutiae. Culpa ignaviae est quae supinam neglegentiam refert, vel vitio naturae parum perspicacis, vel ex prava educatione contracta. … 13. Alia autem versutiae culpa eorum est qui ex versuto et malo proposito, animoque perfido et exulcerato, alienas vel res, vel negotia, affectata quadam improvidentia, maligne vel negligunt, vel dissimulant, cum in rebus suis sint praevidi et diligentes: et qui versutiam sub neglectionis vitium ita subvolvunt, ut manifesti quidam doli crimen, colore et velamine negligentiae a sese amoveant, doli tamen machinatione non careant. … 26. Lata culpa quae ignaviae est, dolo numquam aequiparatur, … De hac culpa loquitur d.l. latae ff. de verb. sig. …31. Lata culpa dolo proxima, quae dicitur versutiae, ubique dolo comparatur, paribusque iuris decisionibus utraque obsolvunt. … Licet ergo culpa versutiae velamento contengatur neglegentiae, pari tamen iure cum iusto dolo censebitur. Nam quid interest, an manifesto dolo machineris, an sub culpae obliquo ad dolum tendas? … 32. … deinde haec lata culpa dolo adeo est cognata, eique hactenus cohaeret, ut saepenumero I.C. eam culpam dolum nominet, ut in d.l. quod nerva et fa. l. magna ff. de verb. sig. cum similib. Quod tamen non intelligas, ut lata culpa vere sit dolus: hoc enim esse non potest, cum dolus iustam et manifestam imposturam inferat, at lata culpa sub velamento negligentiae fraudem subvolvat …96 |
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Egualmente poco seguìta è la proposta di Antonio Fabro di emendare il ‘non’ dall’inciso ‘nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat’ nell’intento di illuminare la reale portata del pensiero di Celso97: per Favre l’attuale redazione aveva condotto Accursio all’equivoco di imputare di culpa lata ogni depositario meno diligente della media salvo che avesse rispettato la diligentia quam suis; la nuova lettura dimostrerebbe, invece, che l’intento di Celso era quello di spiegare che anche un depositario mediamente diligente (‘nam et si quis ad eum modum quem hominum natura desiderat’) sarebbe stato imputato di culpa lata se non avesse rispettato la diligentia quam suis, cioè in sostanza che l’omissione di diligentia quam suis era colpita come culpa lata sulla sola base della disparità di trattamento fra cose proprie ed altrui indipendentemente dal grado iniziale e normale di diligenza dell’obbligato: | 61 |
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Dicemus hic ea tantum quae ad contextum legis brevius enarrandum pertinent, ac primum in versiculo illo qui statim sequitur, Nam et si quis non ad eum modum, tollendam esse negationem, quam Aloander iam ante nos feliciter sustulit. Sensus enim loci huius procul dubio ille est, si depositarius ad eum quidem modum, quem natura hominum desiderat diligens sit in re deposita custodienda, id est, eam diligentiam praestet, quam alius quilibet non diligentissimus paterfamilias, sed mediocriter diligens praestarit (natura siquidem in omnibus fere mediocritate contenta est), maiorem autem diligentiam in suis rebus adhibere soleat fraude illum non carere. Nec enim salva fide posse quem minorem alienis rebus quam suis diligentiam praestare. … Mirum vero non est, Accursium, caeterosque interpretes corrupta huius textus lectione deceptos iurisconsulti sententiam assequi non potuisse. Sic enim Accursius intellegit, ut si forte depositarius non sit ita diligens in re deposita custodienda, ut caeteri homines communiter esse solent, fraude non careat, nisi ad suum modum, quem scilicet tenet in rebus suis curam in deposito praestet, quod certe a Celsi sententia alienum est98. |
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Ma l’emendazione viene in genere considerata superflua: ad esempio, Jacopo Gotofredo si associa ad Antonio Fabro nella critica ad Accursio, ma rigetta l’emendazione del ‘non’ perché il ‘sensus apertissimus’ del testo è che ‘etsi in deposito non veniat ea diligentia, quam hominum natura desiderat, attamen ad suum modum depositarium diligentem esse oportere’: | 62 |
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Sequuntur nunc duo alii diligentiae gradus, qui utrique indicantur per modum quem hominum natura desiderat: quaeque opposita latae culpae, in d.l. quod Nerva ff. depositi. Crassus enim Accursii error est et sequacium, qui haec verba accipiunt de lata culpa, quam depositarius praestat contra apertam Iurisconsulti mentem: nam ibi differenter opponitur in deposito diligentia in rebus suis (de qua mox) diligentiae ad eum modum quem natura hominum desiderat. Sicut et nimia eorum licentia est, qui in illis verbis, si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens sit, negativam non expungunt. Nam immo ea retinenda est: apertissimus enim illius loci sensus hic est, etsi in deposito non veniat ea diligentia, quam hominum natura desiderat, attamen ad suum modum depositarium diligentem esse oportere99. |
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La seconda corrente interpretativa, che fa capo soprattutto a Connan, Corasius e Donello100, equipara più tradizionalmente al dolo entrambi i tipi di culpa lata (quello della ‘lex latae’ e quello della ‘lex quod Nerva’) e li ritiene entrambi fonte di responsabilità per il depositario. L’immediato riferimento testuale è a C.I. 4.34.1, passo poco richiamato dai cultori del precedente indirizzo, che, in un caso di rapina di ornamenta deposita nella quale anche il depositario ha trovato la morte, esclude l’imputabilità all’heres depositarii del detrimentum conseguente al perimento fortuito delle cose, sulla base della regola che, in deposito, la responsabilità è limitata al dolo e alla culpa lata101: | 63 |
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Imp. Alexander A. Mestrio militi: Si incursu latronum vel alio fortuito casu ornamenta deposita apud interfectum perierunt, detrimentum ad heredem eius qui depositum accepit, qui dolum solum et latam culpam, si non aliud specialiter convenit, prestare debuit, non pertinet. Quod si praetextu latrocinii commissi vel alterius fortuiti casus res, quae in potestate heredis sunt vel quas dolo desiit possedere, non restituuntur, tam depositi quam ad exhibendum actio, sed etiam in rem vindicatio competit. PP. IIII id. Iul. Maximo II et Urbano conss. [a. 234] |
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Il testo è significativo perché l’estensione della responsabilità del depositario alla culpa lata vi è affermata con chiarezza, indipendentemente dai dubbi interpretativi suscitati dall’espressione culpa latior della ‘lex quod Nerva’: lo rileva, ad esempio, il Corasius102, che cita il passo in risposta al commentatore Giovanni Igneo il quale aveva invece sostenuto che ‘latam … culpam non praestat depositarius’: | 64 |
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Obiicies, culpam latiorem a lata, ob id diversam censeri, quod illam certum sit, in depositum venire, quia dolus est, d.l. quod Nerva. Latam autem culpam non praestet depositarius: sed de solo dolo teneatur, l. si ut certo, § nunc videndum, ff. commod. (D. 13.6.5.4) l. eum qui, § is autem ff. de furt. (D. 47.2.14.3), in qua sententia est Ioan. Igneus praeses Rhotomagen. dignissimus et gravissimus author, in l. contractus. ff. de regul. iur. (D. 50.17.23)103. Quae tamen, bona tanti praesidis venia, vera non videtur, cum et in deposito, praeter dolum, lata culpa veniat, l. I C. depos. (C.I. 4.34.1). Nec obstat utique, quod dicat legislator, in deposito solum dolum venire, l. contractus ff. de reg. iur. Nam immoderata haec negligentia, quam latam culpam dicimus, tam dissoluta est, et gravis, sicut paulo ante posui, ut ea in fraudis suspicionem veniat, atque ideo a lege comparata, cadat in doli crimen. |
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Ma l’estensione della responsabilità del depositario all’inescusabile negligenza della ‘lex latae’ è, secondo questi autori, necessaria anche su un piano di politica del diritto: sarebbe troppo facile altrimenti – spiega bene Connan104 – nascondere sotto il velo dell’imbecillità un comportamento realmente malizioso: | 65 |
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Latae culpae finis est, non intelligere quod omnes intellegunt, id est eo usque potest hominis ignorantia excusari, ut non dolo peccasse videatur. Ultra illum finem non est veniae locus, ut si quis crystallinum quod susceperat custodiendum, sponte sua in terram proiecerit credens non esse fragile, lapsus est non gravitate aliqua, sed opinione falsa quidam et stulta profecto, certe non improba: et tamen latae culpae reus est, quia ea ignoraverit, quae norunt omnes. Atque haec culpa lata praeterquam in delictis dolo aequiparatur, quod nisi ita constitutum esset, facile quivis malitias suas et fraudes ignorantiae velo obtenderet, et tamquam adumbraret. |
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La sintesi più compiuta di questo indirizzo si trova nel commento a C.I. 4.34.1 di Donello105, che distingue fra ‘lata culpa ex capto hominum communi’ – la grave negligenza della ‘lex latae’ di chi, ad esempio, getta ex superiore loco materiali pesanti sopra gli animali depositati –, e lata culpa ex captu privato (‘et soluta diligentia eius de cuius culpa quaeritur’), l’omissione di diligentia quam suis di chi, ad esempio, nell’imminenza di un’incursione nemica, ‘abstulit res suas et alio transtulit, res autem depositas in villa reliquit’: | 66 |
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Aestimatur autem lata culpa duabus ex rebus quae definitionem huius culpae continent. Aut enim aestimatur ex capto hominum communi, aut ex captu et soluta diligentia eius de cuius culpa quaeritur. Ex captu hominum communi, culpa lata intellegitur, cum quis peccavit et facto suo damnum dedit, dum non putat eventurum quod omnes homines eventurum intelligunt, pro captu hominum non dementium communi. Hoc est quod dicitur in L. latae, de verb. sign. … Hac de caussa tenebitur depositarius ob latam culpam huiusmodi, si proponas eum non cernentem dejecisse tegulas vel trabem ex superiore loco aedium, in eum locum ubi animalia deposita continebantur. … Ex captu privato et soluta diligentia eius, de cuius culpa quaeritur, lata culpa esse intellegitur, si quis diligentior quam caeteri in rebus suis custodiendis, non adhibeat in re deposita eandem diligentiam quam in suis praestat, L. quod Nerva, depos. L mulier, § sed enim, ad Trebell. (D. 36.1.23.3). Exempli caussa: cum nuntiaretur hostes esse in vicinia, aliquis qui res depositas in villa habebat … propter metum ejus pericoli abstulit res suas et alio transtulit, res autem depositas in villa reliquit, cum haberet satis spatii ad eas quoque transferendas, dicemus eum lata culpa peccasse, et ita damnum praestiturum: quia non, pro suo captu, diligens fuerit in rebus alienis, d. L. quod Nerva D. hoc. tit. |
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Entrambe le forme di culpa lata sono, per Donello, imputabili al depositario ma l’equiparazione al dolo non è da intendere sul piano sostanziale, ma su quello dell’interpretatio iuris e degli effetti: | 67 |
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… revera lata culpa dolus non est. Distinguuntur enim haec definitionibus, id est re ipsa et substantia sua. Quod autem dicitur lata culpa dolus esse, ideo dicitur, quia interpretatione juris et effectu, lata culpa dolus est; quoniam jure pro dolo habetur, jure effectum doli patitur. Et quod dicitur in L. quod Nerva, D. hoc. tit. eum qui lata culpa peccat, dolo non carere, sic accipiendum est, non ut certitudine definitionis et re ita se res habeat, sed quia ita se habeat violenta praesumptione, quae iure pro explorata habetur; et jus ita est, ut sempre lata culpa pro dolo habetur106. |
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La terza corrente di pensiero risale ad un’originale intuizione di Francesco Duareno, che si distacca talmente dalla comune linea interpretativa da rimanere, salvo poche eccezioni107, ignorata108: nel commento alla lex ‘si mora’ del titolo ‘soluto matrimonio dos quemadmodum petatur’ (D. 24.3.9), Duareno adotta una definizione unitaria di culpa lata che richiama sia la ‘lex latae’ che la ‘lex quod Nerva’, e che è ravvisabile, ad esempio, in chi abbia abbandonato di notte un bene sulla pubblica via e poi si stupisca di averlo perduto: | 68 |
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Culpa lata dicitur … cum quis non ad eum modum, quem communis hominum natura desiderat, diligens est, d. l. Quod Nerva, et in eo peccat, atque errat, quod omnes homines vulgo intellegunt, l. Latae De verb. signific. ut si quis rem ideo amiserit, quod nocturno tempore eam dimiserit in via publica, et causetur, se non putasse quenquam ablaturum esse109. |
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Questo comportamento non è doloso nel senso proprio del termine (secondo la definitio canonica di D. 4.3.1), ma è tanto dissoluto e intollerabile da essere meritatamente trattato come tale, perché ‘a natura communi hominum abhorret’ e suscita, così, un fondato sospetto di frode: | 69 |
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Haec enim culpa, licet machinatio non sit, fraudandi, decipiendique alterius causa adhibita, ideoque a dolo distingui soleat, l. I de dolo malo (D. 4.3.1), tamen adeo dissoluta, ac intolerabilis est, ut merito comparetur dolo malo, et aeque ac dolus malus, praestetur. Et quia a natura communi hominum abhorret, vis creditur fraude, et malo animo carere, qui hujus culpae arguitur110. |
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Ma la presunzione di dolo si elide se, in base alla ‘lex quod Nerva’, l’obbligato si dimostra in suis egualmente negligente: | 70 |
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Sed si appareat ex conjecturis, dolum malum abesse, ut, exempli gratia, si forte nihilo diligentior esse soleat in suis rebus, etc. quamlibet lata negligentia pro dolo non habebitur. D. l. Quod Nerva111. |
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Se la dottrina maggioritaria individuava nell’omissione di diligentia quam suis un caso autonomo di culpa lata, Duareno, al contrario, individua nella diligentia quam suis una scusante giudiziale al comportamento gravemente negligente del depositario, applicabile nel caso che in suis egli sia stato egualmente negligente. Con un solo tocco da maestro la secolare dottrina del dolo presunto fondata sulla ‘lex quod Nerva’ viene istantaneamente dissolta. Molto tempo dopo il ragionamento ricompare in ambiente olandese, nel commento alla ‘lex quod Nerva’ di Gerardo Noodt112: | 71 |
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Venio ad Nervam. Is non minus vere dixit, culpam latam esse dolum: aestimata videlicet culpa lata non vi et potestate naturali, sed iuris praesumptione. Vix enim potest lata culpa, id est, supina et crassa ignorantia, qualis est, nescire quod omnes homines sciunt, videri sincera? Magis debet credi quaesita et affectata dissimulandi sceleris et doli gratia, natura passim homines non faciente stultos, sed quales eos esse oportet. Hoc igitur sensu Celsus verissimam esse praedicat Nervae sententiam: quae alioquin Proculo ad veritatem exacta, non male displicebat. Sed vere Celsus, animadverso, homines a natura non nasci stultos, sed rebus aptos, alios plus, alios minus: existimavit, culpam latam depositarii, futuram deponenti noxiam, in actione depositi non pro errore, sed pro dolo, habendam esse: donec judici liqueat, esse peccatum simplicitate vera et naturali, tum enim praesumptionem veritati manifestae et clarae cedere oportere. Id contingere ait Celsus, si depositarius dicatur pari simplicitate stultitiaque in re sua, inque re deposita, esse versatus. |
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Ma la forza della tradizione prevale ed è proprio con la scuola culta che incomincia a diffondersi la contrapposizione tra culpa in concreto e culpa in abstracto113, che tanta fortuna avrà nella dottrina civilistica fino ai nostri giorni. | 72 |
L’altro difficilis nodus114 della materia era tradizionalmente quello del contrasto fra le concezioni di diligentia quam suis emergenti da D. 16.3.32 – con funzione ed effetto aggravanti della responsabilità del depositario – e da D. 17.2.72/D. 10.2.25.16, con funzione ed effetto attenuanti della responsabilità del socio e del comunista. |
A questo problema Bartolo aveva già fornito una soluzione soddisfacente, che teneva conto della differenza obbiettiva esistente fra la custodia di una res aliena – nella quale l’omissione di diligentia quam suis poteva ben suggerire una presunzione di dolo nel depositario –, e l’amministrazione di res communes, ove tale presunzione si scontrava con l’interesse personale del socio e del comunista al buon esito delle operazioni: ad essa una prima corrente interpretativa (Cujacio, D’Avezan, Noodt)115 si adegua perché, come bene spiega Cujacio, per chi è pro parte dominus rei, l’omissione di diligentia quam suis è più da intendere come un re sua abuti che come un fraudem facere116: | 73 |
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Depositarius autem dolum dumtaxat et eam culpam praestat, quae doli facies habet, id est, latam culpam, l. 1 C. depos. (C.I. 4.34.1) L. quod Nerva ff. eod. Minus esse attentum in depositis, quam in suis rebus, in depositario lata culpa est, quia non potest non dolo malo facere is, qui res suas bene et gnaviter gerit, depositas autem male et ignaviter. In socio autem, vel eo, qui sine societate cum alio rem communem habet, minus esse attentum in communibus, quam in propriis rebus lata culpa non est, non potest enim quis sine fraude rem communem negligere, quoniam pro parte rei dominus est, quin etiam maius re sua abuti intellegitur, quam fraudem facere117. … |
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Ma tale soluzione è tutt’altro che incontrastata e si moltiplicano, fra gli umanisti, i tentativi di scioglimento dell’enigma118: a Donello si deve, in particolare, un’intuizione che farà scuola, che isola, sotto il profilo della responsabilità, il deposito dagli altri contratti, per la particolare delicatezza dell’officium della custodia affidato al depositario e per la fiducia piena e totale che il deponente ripone in lui. Laddove si guardi all’ ‘officium quo se obstrinxit depositarius ad rem bona fide servandam’, l’omissione di diligentia quam suis, che di per sé non configura necessariamente un comportamento riprovevole, assume il connotato della riprovevolezza e della frode perché il depositario, non prestando la stessa cura destinata alle proprie cose, dimostra di aver disatteso contra bonam fidem l’impegno di custodia assunto con il contratto: | 74 |
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Dicendum est in hoc genere negligentiae, quae admittitur in rebus depositis et fidei accipientis commissis non factum tantum ipsum per se spectari, sed et officium, quo obstringitur, qui accepit. Si factum per se spectetur, non potest dici statim dolo facere eum qui rem negligat; quia non continuo dixeris eum dedita opera et consulto id facere, ut res pereat aut deterior fiat, ut ante ostendi. Sin spectetur officium quo se obstrinxit depositarius ad rem bona fide servandam, hic recte dixerimus eum contra eam fidem facere, eoque hactenus fraude non carere, si cum sciat et possit rem curare, non curet. Cum enim hanc custodiam ex bona fide in se receperit, quae potest illi in negligentia sua esse excusatio, ubi scivit quid facto esset opus ad rem servandam et potuit id facere? Scivisse enim apparet: quia ut providet, ita eadem facit in suis119. |
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Fin qui la soluzione di Donello viene seguita e riproposta120: ma l’autore procede oltre e, nel tentativo di superare appieno la contraddizione, elabora una teoria complessa che non avrà grande seguito in dottrina anche perché, nel suo sforzo ricostruttivo, finisce col prescindere dalla lettera dei testi121. Per Donello la culpa va sempre distinta in culpa in faciendo (colpa commissiva) e culpa in omittendo122 (colpa omissiva o negligentia)123, ma tale distinzione rileva soprattutto per la culpa levis, perché di culpa lata, sia omissiva che commissiva, si risponde sempre, mentre fra i rapporti che ‘levem culpam recipiunt, quidam recipiunt eam tantum quae in faciendo est, non etiam eam quae est in omittendo negligendove, quidam utramque’124. Poi, sulla base di D. 50.17.23, Donello enumera cinque rapporti che prevedono una responsabilità per culpa levis in faciendo ma non in omittendo, vale a dire la società, la comunione, la tutela, la cura e la dote125. Con queste premesse si chiarisce, secondo l’autore, il rapporto fra D. 50.17.23, D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9), D. 16.3.32: il precetto generale di D. 50.17.23 imputa al socio una responsabilità per culpa levis in faciendo, il che, com’è ovvio, non esclude la sua più grave responsabilità per culpa lata, sia in faciendo che in omittendo. L’omissione di diligentia quam suis è, secondo la descrizione di D. 16.3.32, un caso di culpa lata in omittendo. E al medesimo caso di culpa lata in omittendo fa riferimento D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9) quando tratta dell’omissione di diligentia quam suis del socio. Non vi dunque contraddizione fra D. 16.3.32 e D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9) perché entrambi si riferiscono alla medesima fattispecie: | 75 |
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XXVIII: Societas dicitur culpam recipere in d. L. contractus D. de reg. iur. ubi cum culpa distinguatur a dolo, jam saepe monui non aliam intellegi posse quam levem. Et tamen in § ult. Inst. De societ. diserte scriptum est, socium non majorem diligentiam adhibere debere rebus communibus, quam suis rebus solet: hac autem non adhibita, hujus negliegentiae, id est culpae quae in non faciendo sit, nomine ita eum teneri, ut non maiorem praestet. Atqui non eandem diligentiam adhibere alienis rebus fidei tuae commissis culpa est lata, non levis. L. quod Nerva. D. Depos. Ita quem prius dicebamus praestare debere socio culpam levem, eum nunc non nisi culpam latam praestare debere dicimus. Quae si de eadem culpa dicuntur, apparet esse contraria. Quomodo igitur haec explicamus? Dici haec nimirum de diversis culpis, non de una et eadem: ac quod dicitur socium socio negligentiae nomine non teneri nisi latae, perspicuum est dici quidam de culpa, sed de ea quae sit in non faciendo, ubi scilicet non fecit, quod eum pro diligentia debita prestare oportebat. Quod autem dicitur eum culpam levem prestare debere, sane verum esse; sed dictum accipiendum de culpa quae si recte a negligentia distinguitur ea sit culpa, quae sit in faciendo, ubi facto aliquo suo societati nocuit: quam quidem culpam omnem quanvis levem, atque adeo levissimam socius socio jure societatis praestabit. Idque ita declaratur in L. de illo in pr. D. de soc. (D. 17.2.23.pr.)126. |
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Molto più aderente ai testi è la successiva proposta esegetica di Vinnio, che di fronte al nodus indissolubilis della contraddizione fra D. 16.3.32 e D. 17.2.72/D. 10.2.25.16, precisa che l’omissione di diligentia quam suis, valutata in genere dai giuristi come culpa levis127, viene definita nella ‘lex quod Nerva’ come culpa latior soltanto in quanto, nel caso concreto, Celso si riferisce ad un depositario già molto negligente in suis rebus (‘nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens est’), che in rebus depositis si rivela ancora più negligente128. Qui è naturale che il giurista abbia parlato di culpa latior ‘quoniam nullum hic aliud extremum dari potest’: | 76 |
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(2) Ait Justinianus, culpam in societate non ad exactissimam diligentiam dirigendam esse, sed sufficere talem diligentiam communibus rebus socium adhibere, qualem suis rebus adhibere solet. (3) Quae sunt ipsissima verba Caii in d.l. socius, 72 h.t. (D. 17.2.72). Hic vero nobis pene indissolubilem nodum nectit responsum Celsi in tit. quod Nerva, 32 depos. Ubi jurisconsultus refert et probat, quod Nerva dixit, latiorem culpam dolum esse, scilicet vi et effectu, ut non minus, quam dolus in deposito praestetur. Hujus autem culpae reum esse ait, qui minus diligens est in rebus alienis, quam in suis, sive, ut loquitur jurisconsultus, qui non ad suum modum curam in deposito praestat. At nihil amplius Justinianus a socio exigere videtur: inter quem tamen et depositarium hanc ipse differentiam antea constituit: quod socius praeter dolum etiam culpam et negligentiam praestet, depositarius non item. Et cuius igitur rei praestatio socium a depositario segregat? Non aliter videtur hic nodus expediri posse, quam si dicamus, jurisconsultos aliquando eum, qui rem alienam aut communem negligentius habet quam suam, ponere in lata culpa et proxima dolo, quam etiam praestat depositarius: aliquando vero id factum adscribere culpae levi et negligentiae, quam praestet socius, depositarius non praestet. Illud Celsus facit in d.l. quod Nerva, 32 depos. Hoc alii passim, ut Justinianus hic (Iust. inst. 3.25.9), Caius in d.l. socius, 72 (D. 17.2.72), item Paulus l. heredes 25 § non tantum, 16. famil. ercisc. (D. 10.2.25.16) leg. In rebus, 17 de jur. dot. (D. 23.3.17.pr.) et Ulp. L. 1 de tutel. et ration. distr. (D. 27.3.1.pr.). Sed animadvertendum est Celsum expresse proponere ignavum aliquem et dissolute negligentem, id est, talem qui nec, ut ait ipse, ad eum modum diligens sit, quem hominum natura desiderat. Hunc ait, si ne ad suum quidem modum curam rei alienae praestet, reum esse culpae latioris, doloque proximum. Et merito; quoniam nullum hic aliud extremum dari potest. At extra hunc casum, in nomine videlicet diligenti ad communem modum, sed bono alioqui et frugi patrefam. si quando is consuetam in suis rebus diligentiam in re aliena aut communi omiserit, levem culpam id reputabimus: atque omnino existimandum est, curam diligentis hominis considerari, quoties simpliciter ea diligentia in re aliena ad aliquo exigitur, quam prestare solet in rebus propriis, arg. d.l. quod Nerva, 32 depos129. |
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Come si vede, rispetto all’età di Bartolo, la discussione sulla ‘lex quod Nerva’ si è ampliata dando luogo a risultati diversificati, ma l’originario nucleo interpretativo, ossia la figura del dolo presunto inaugurata da Azone a corollario del principio dell’utilitas contrahentium, non viene ancora del tutto scalfito. | 77 |
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I secolari dubbi interpretativi sulla lettura tradizionale della ‘lex quod Nerva’ non avevano potuto scalfire né la dottrina della colpa né il principio dell’utilitas che ne costituiva l’intimo fondamento130. Ma la rivisitazione delle fonti alla luce della ragione avviata dal giusnaturalismo contribuì a sfatare alcuni preconcetti perpetuatisi nella tradizione, fornendo gli strumenti concettuali per il definitivo superamento, nei codici ottocenteschi131, dei principi cardine del sistema della responsabilità ereditato dal passato. | 78 |
Tale rifiuto non fu tuttavia generale, visto che alcuni importanti esponenti del giusnaturalismo apertamente difesero la dottrina tradizionale dagli attacchi dei critici, proprio in ragione dell’autorevolezza dei suoi antichi sostenitori132. Ciò si rivela con evidenza, ad esempio, nelle opere di Domat e di Pothier, che non solo ripropongono il principio dell’utilitas contrahentium e la disciplina classica della diligentia quam suis del depositario, ma giungono a formalizzare tale disciplina in regola positiva di condotta, laddove originariamente essa rilevava soltanto in negativo come un caso di culpa lata omissiva, cioè sotto il profilo della responsabilità del depositario per il caso di perimento o deterioramento della res133: | 79 |
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Domat, Loix civiles, I.VII.III.2: Le dépositaire est tenu d’avoir le même soin pour les choses déposées qu’il a pour les siennes. Et il seroit infidèle au dépôt, s’il y veilloit moins qu’à ce qui est à lui134. |
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Pothier, Traité du contrat de dépôt, in Traités des contrats de bienfaisance, II.3.II.1 Art. I, Cor. 1135: La fidélité, que le dépositaire s’oblige d’apporter à la garde de la chose qui lui a été confiée, l’oblige à apporter le même soin, à la garde des choses qui lui ont été confiées, qu’il apporte à la garde des siennes136. |
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Analoga tendenza alla riproposizione dei principii tradizionali in una nuova veste sistematica, che li esalta generalizzandoli e formalizzandoli in regole positive di condotta, si osserva nell’ampio Tractatus de doli, culpae et neglegentiae praestationibus in quolibet negotio di Henricus de Coccejus (Heidelbergae, 1672)137 ove, ad una prima parte dedicata alla critica delle propositiones tradizionali138, segue la presentazione delle assertiones della nuova dottrina139. Le formulazioni ricevute dal passato vengono qui ricollocate in un rinnovato e più coerente contesto sistematico, nel tentativo di appianarne le contraddizioni e semplificarne il dettato. | 80 |
L’errore interpretativo più grave della dottrina tradizionale (l’autore cita in particolare Bachovius, Vinnius e Franskius) sta per Coccejus nell’aver ristretto la ‘diligentia in concreto’ della ‘lex quod Nerva’ al mero ambito del contratto di deposito, con la conseguente iniquità di estendere oltre misura la responsabilità del depositario diligentissimo, contro il principio dell’utilitas contrahentium. | 81 |
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Propositio IX. Diligentia et culpa in causa depositi, et quidam in hac sola, in concreto consideratur, ita, ut sive sit negligentissimus140 sive diligentissimus depositarius, in lata sit culpa, si minorem rebus aliis, quam suis diligentiam praestet, Bachov. ad § 5 Q. m. r. c. ob. num 5. et ad Tr. I D. 10 Thes. 5. C. Disp. 26 th. 2 fin. Franskius Exerc. 9 q. 9. |
Haec omnino erronea sunt, et plane falsum est, quod in deposito tantum consideretur diligentia et culpa in concreto. … (2) In deposito, non magis praestatur culpa in concreto, quam in reliquis contractibus. … (6) Nihil plane rationis habet, quod in deposito debeat considerari culpa in concreto, in reliquis in abstracto; nec imaginari quis possit, qua causa talis distinctio oriri queat, aut quo fondamento niti. … (7) Denique quod magis adhuc absurdum eveniret, ut tantundem praestetur in deposito, quantum in commodato; ut, inquam, tantundem praestet is, cujus nulla est utilitas, quantum is, cujus omnis est utilitas … Quid his absurdius? (8) Ratio abstracti et concreti, huc plane non quadrat141. |
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In realtà la bipartizione ‘diligentia in abstracto’ e ‘in concreto’ va riferita, secondo l’autore, a tutti i contratti poiché ‘indistinte verum est quod salva fide nemo possit minorem curam alienis rebus, quas administrandas suscepit, quam suis, quia in tali casu praesumitur propositum aliquod laedendi alium’142. | 82 |
Tale bipartizione assume, tuttavia, connotati differenti a seconda del rapporto preso in considerazione: quando all’obbligato sia affidata la gestione di una res aliena, cioè nella maggioranza dei casi (deposito, gestione d’affari altrui, locazione, mandato etc.), l’omissione di ‘diligentia in concreto’ rappresenta una culpa lata equiparabile al dolo, poiché la disparità di trattamento fra cose proprie ed altrui fa presumere nell’obbligato un’intenzione malevola (è il classico dolo presunto di Azone). Quando, invece, all’obbligato sia affidata la gestione di una res communis, cioè nei rapporti di societas e rerum communio, l’omissione di ‘diligentia in concreto’ non può intendersi che come culpa levis (D. 17.2.72 [= Iust. inst. 3.25.9]; D. 10.2.25.16) perché il personale interesse del comunista alla salvaguardia della cosa annulla la presunzione di dolo altrimenti desumibile dalla disparità di trattamento fra le cose proprie e le altrui (nemo praesumitur iactare suum; quod fieret, si proposito doloso damnum rei communi inferret)143: | 83 |
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Assertio III. Illa tamen culpa in societate dolo non comparatur, et hoc effectu levis culpa dici potest. |
Latae culpae effectus est, ut dolo comparetur, et dolus exinde praesumatur: ille autem effectus cum cesset in societate et reliquis communionibus, hoc effectu culpa lata non est, sed effectum habet culpae levis, quae dolo opponitur. Cessare autem hunc effectum in societatibus, et in iis ex lata culpa dolum non praesumi, probamus his rationibus. (1) Quia non praesumitur dolus, ubi quis causam habet gerendi … Socius autem, causam habet gerendi propter partem suam ... Non ergo in illo dolus est praesumendus ex lata culpa; sed plene probandus: quo casu, utpote in claris, non opus est conjecturis … (2) Cum lata culpa ideo dolo comparetur, quia, ut dictum, dolus est praesumtus, quod leges dolus inde praesumunt … hinc in societate et communionibus cessat illa praesumtio doli, et contrarium potius praesumitur, quia nemo videtur sibi velle obesse, et se laedere. Cum ergo socius gerat rem, quae est pro indiviso communis, non potest in ea damnum inferre parti socii, quin simul inferat portioni propriae, cum sit pro indiviso communia; quod nemo praesumitur ultro velle, quia naturale est unicuique, se ac sua diligere, Cic. 3 Finib., naturalia autem praesumuntur; sed et nemo praesumitur iactare suum; quod fieret, si proposito doloso damnum rei communi inferret144. |
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Alla luce di queste precisazioni, che in gran parte ripercorrono solchi già tracciati dalla tradizione, la dottrina della culpa viene dal Coccejus riformulata in una trattazione nuova ed articolata: la distinzione culpa (diligentia) ‘in concreto’/‘in abstracto’, che per l’autore informa di sé l’intero sistema della responsabilità, ha l’effetto di moltiplicare i gradi della colpa, che da tre (lata, levis e levissima) diventano cinque (lata in abstracto, lata in concreto, levis in abstracto, levis in concreto, levissima). Il depositario, infatti, risponde per dolo e culpa lata sia in abstracto che in concreto; il mandatario, il gestore d’affari, il conduttore, il venditore etc. per dolo, per culpa lata in abstracto e in concreto e per culpa levis in astratto; il socio e il comunista per dolo, per culpa lata in abstracto e per culpa levis in abstracto e in concreto; il comodatario per dolo, per culpa lata in abstracto e in concreto, per culpa levis in astratto e per culpa levissima. | 84 |
Ma, come già osservato, queste autorevoli prese di posizione non impediscono ad autori sul punto più innovativi (ad esempio Pufendorf, Kreß, Le Brun), di mettere progressivamente in luce le intime contraddizioni del sistema, creando le premesse per il suo superamento: ciò avviene soprattutto ad opera di due pratici, Christianus Gottlob Kreß, avvocato di Halle, e Denis Le Brun, avvocato del Parlamento di Parigi, l’uno autore di una dissertazione per la licentia in utroque iure dal titolo De usu practico doctrinae difficillimae juris romani de culparum praestatione in contractibus, discussa nel 1705 all’Università di Halle praeside Christiano Thomasio e pubblicata nel 1731145, l’altro autore di un Essai sur la prestation des fautes, ou l’on examine combien les lois romaines en distinguent d’espèces, pubblicato a Parigi nel 1764 e di lì a poco criticamente recensito dal Pothier146: per i due autori, le tradizionali classificazioni della colpa e della diligenza tramandate dalla dottrina sono insensate, illogiche ed inique e creano ai pratici difficoltà applicative; il principio dell’utilitas che ne costituisce il fondamento è pura invenzione degli interpreti contraddetta dagli stessi giuristi romani: lo dimostrano le regole del mandato e della negotiorum gestio, ove gli obbligati sono tenuti ad exactissima diligentia benché non traggano dal rapporto alcuna utilità. Chiunque, contrattualmente o non, amministri una res aliena, è tenuto dunque a conservarla con ogni diligenza, perché se non avesse voluto ‘omnem diligentiam adhibere’, non avrebbe dovuto ‘?se? immiscere negotio et rei alienae’147. | 85 |
Naufraga, dunque, la tripartizione della colpa e, con essa, ci si aspetterebbe che naufragasse anche la diligentia quam suis, che di questa tripartizione costituiva parte integrante. Ma ciò non accade: la figura, pur in diverse proporzioni a seconda degli autori, viene ridimensionata, ma mai del tutto abbandonata. Sopravvive, ad esempio, in Pufendorf, come dovere morale del depositario che, in forza dell’amicitia che lo lega al depositante e che informa di sé l’intero rapporto (‘nemo enim fere deponit, nisi apud amicum, aut de cujus probitate bene judicat’), salvi dal perimento la cosa depositata a scapito della propria. La diligentia quam suis non è qui regola giuridica suscettibile di sanzione in caso di inosservanza, ma mero dovere morale fondato sull’amicitia, non sanzionabile sul piano del diritto: in nessun caso, infatti, il depositario può essere costretto a sacrificare le proprie cose nell’interesse di quelle, anche più preziose, del depositante, poiché ‘intermissa nudae amicitiae et humanitatis officia ad refusionem detrimenti inde orti non obligant’148: | 86 |
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§ 7. … Unde etsi legibus amicitiae satisfecerim, si res amici aeque curem, ac proprias; neque ut meas alterius rebus posthabeam, si utraeque paris sint pretii, quispiam salva fronte postulare queat; aequum tamen fuerit, ut quando utraque servari nequit, ego potius rem meam viliorem negligam, et pretiosiorem depositam servem v.g. incendio aborto, quis non judicaverit potius servandam esse cistam auro aut aliis pretiosis rebus, vel magni momenti instrumentis literisque plenam, quam vilem supellectilem? Ita tamen ut deponens teneatur mihi restituere pretium earum rerum, quae mihi perierunt, dum ipsius res prae meis servatum eo; non secus atque alias impensas in depositas res factas, aut damna, quae per illam accepi. Quod si tamen quis rem suam viliorem deposito pretiosiori praetulerit, ubi de tali diligentia et cura non fuit conventum, amicitiae duntaxat et humanitatis jura violasse censebitur, a praestanda rei aestimatione immunis. Nam neque inde factus est locupletior; et intermissa nudae amicitiae et humanitatis officia ad refusionem detrimenti inde orti non obligant149. |
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Come vera e propria figura giuridica, la diligentia quam suis sopravvive, invece, nel nuovo sistema ideato dal Le Brun ove, alla diligenza del buon padre di famiglia imposta a chi sia obbligato a gestire una cosa altrui, cioè nella maggioranza dei contratti e «quasi-contratti» (deposito, comodato, locazione, mandato, vendita, tutela, negotiorum gestio etc.), si accosta la diligentia quam suis applicabile ai soci e ai comproprietari che gestiscono una cosa o un patrimonio comune. Amministrando, infatti, un bene indiviso, è a costoro impossibile astenersi «d’administrer les parts de leurs coassociés ou de leurs copropriétaires sans cesser d’administrer leurs propres parts»150. Conseguenza necessaria sul piano della logica, atta anche a conciliare equamente gli interessi delle parti, è che ad essi non venga richiesta, nell’amministazione della cosa comune, più della diligenza che adottano normalmente nelle proprie cose: | 87 |
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I … Voyons maintenant pourquoi les lois romaines distinguent deux espèces de diligence. Cette distinction est fondée sur ce qu’il y a des choses dont la propriété nous est commune avec d’autres personnes, et d’autres dont nous ne sommes que simples détenteurs, ou dont nous nous sommes engagés à faire la tradition, et qui, par cette obligation, peuvent être considérées comme ne nous appartenant plus. Dans les premières, il faut, antant qu’il est possibile, concilier nos droits avec ceux d’autrui. La meilleure manière de les concilier est de soigner les choses communes comme les nôtres. … La règle qui prescrit la diligence d’un bon père de famille, ne concernant que les choses qui appartiennent en totalité à autrui, ne reçoit point ici d’application. … Dans les choses dont nous sommes simples détenteurs, ou dont nous devons faire la tradition, notre capacité réelle ou présumée est notre boussole. La manière dont nous administrons nos biens n’a point de rapport avec la manière dont nous devons administrer ceux des autres151. |
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L’autore è consapevole che la lettura tradizionale della ‘lex quod Nerva’, che presuppone la regola generale della diligentia quam suis del depositario, contraddice apertamente la sua ricostruzione: ma per Le Brun il testo prova soltanto che «la faute grossière poussée à l’excès, est un dol». Celso, infatti, presenta il caso d’ «un homme d’une extrème négligence dans ses affaires, qui se charge d’un depôt, et qui le néglige encore plus que ses propres biens; et il décide que ce dépositaire n’est point exempt de dol»152. | 88 |
Forse senza intuirlo fino in fondo, il Le Brun ha qui posto le basi per il definitivo superamento della contraddizione, da sempre parsa insuperabile, fra la diligentia quam suis del depositario (D. 16.3.32) e la diligentia quam suis del socio e del comunista (D. 17.2.72 [= Iust. inst. 3.25.9], D. 10.2.25.16). Di queste intuizioni si farà tesoro in sede di esegesi della ‘lex quod Nerva’, nella parte finale di questo lavoro (§ 9). | 89 |
Con qualche ritardo i codici seguono gli sviluppi della dottrina. Così, mentre le codificazioni settecentesche, ancora tributarie dello ius commune, mantengono generalmente inalterata la sistematica tradizionale153, il Codice napoleonico del 1804154, l’ «ABGB.» del 1811155 e il Codice Civile italiano del 1865156 abbandonano il principio dell’utilitas contrahentium e la conseguente tripartizione della colpa, a favore di un unico grado di diligenza media, imposto ad ogni debitore nell’adempimento della sua obbligazione157. | 90 |
Ma anche qui, come nelle opere di dottrina, il superamento dei principii tradizionali non porta con sé l’abbandono della diligentia quam suis: l’influenza della ‘lex quod Nerva’ e della sua tradizione interpretativa è tale158 che la figura rimane imperante nella disciplina del contratto di deposito (secondo le formulazioni positive già notate in Domat e Pothier) sia nella codificazione francese che in tutti i codici che da essa dipendono159, fra cui in particolare il Codice Civile italiano del 1865: | 91 |
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Art. 1927 c.c. francese: Le dépositaire doit apporter, dans la garde de la chose déposée, les mêmes soins qu’il apporte dans la garde des choses qui lui appartiennent. |
Art. 1928: La disposition de l’article précédent doit être appliquée avec plus de rigueur: 1. si le dépositaire s’est offert lui-même pour recevoir le dépôt; 2. s’il a stipulé un salaire pour la garde du dépôt; 3. si le dépôt a été fait uniquement pour l’intérêt du dépositaire; 4. si il a été convenu expressément que le dépositaire répondrait de toute espèce de faute160. |
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Art. 1843 c.c. italiano del 1865: «Il depositario deve usare nel custodire la cosa depositata la stessa diligenza che usa nel custodire le cose proprie»; |
art. 1844: «La disposizione del precedente articolo si deve applicare con maggior rigore, 1. quando il depositario si è offerto a ricevere il deposito; 2. quando ha stipulato una rimunerazione per la custodia del deposito; 3. quando il deposito si è fatto unicamente per l’interesse del depositario; 4. quando si è convenuto espressamente che il depositario sarà obbligato per qualunque colpa». |
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Nella civilistica italiana dell’epoca, operante su un codice di matrice francese ma tributaria, sotto il profilo scientifico, della metodologia pandettistica, si ebbe un vivace dibattito sull’interpretazione ed applicazione degli artt.1843-1844 e in particolare sul significato dell’espressione «maggior rigore» ivi contenuta: secondo alcuni la diligentia quam suis dell’art.1843 costituiva mero strumento di attenuazione della responsabilità del depositario gratuito, salvo il ritorno alla disciplina comune della diligenza del buon padre di famiglia ex art. 1224 nei casi previsti dall’art.1844161. Secondo altri l’art. 1843 non costituiva norma eccezionale ma vera e propria regola speciale applicabile, pur se con «maggior rigore», anche nei casi previsti dall’art. 1844 in ragione del particolare affidamento riposto dal depositante sul depositario da lui scelto: per costoro in tema di deposito occorreva sempre tener conto, per la diagnosi della responsabilità, delle capacità individuali del soggetto, fossero queste maggiori o minori della media162. | 92 |
Ma la seconda soluzione creava difficoltà applicative per l’ambiguità dell’espressione «maggior rigore» dell’art.1844: così la giurisprudenza maggioritaria si orientò a favore della prima soluzione, con l’effetto pratico di limitare l’applicazione della diligentia quam suis ai pochi casi di deposito gratuito, richiedendo per il resto la comune diligenza del buon padre di famiglia ex art. 1224163. Analogo percorso fu compiuto dalla dottrina francese, che tuttora riconosce comunemente alla disciplina dell’art. 1927 mero carattere suppletivo164, interpretando l’espressione «plus de rigeur» dell’art. 1928 come ritorno alla comune «diligence d’un bon père de famille» dell’art. 1137. | 93 |
Fra i codici dell’epoca, soltanto l’ «ABGB.» austriaco abbandonò la diligentia in concreto perché, secondo Franz von Zeiller, relatore della sua revisione finale, si trattava di «cosa … pel giudice impossibile quasi a rilevare, ed in cui il cittadino diligente a peggior condizione si troverebbe di quello non diligente»165. La diligentia quam suis è, invece, ampiamente presente nella codificazione sassone del 1865166 (come del resto lo sarà nel «BGB.» del 1900) su influenza della rivisitazione pandettistica delle fonti romane (cfr. § 7): la troviamo, infatti, prevista nel § 730 in via generale167, nel § 1371 in tema di società, nel § 1655 in tema di dote e nel § 1949 in tema di tutela168. | 94 |
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Per tanti secoli la ‘lex quod Nerva’ era stata il centro del dibattito scientifico sulla dottrina della colpa e della diligentia quam suis. Per tanti secoli il pensiero giuridico, nel suo mai sopito affanno di sistematizzazione della sconnessa disciplina romana della responsabilità contrattuale, aveva fatto del frammento di Celso un punto cardine di ogni suo ragionamento. Nel settecento, per la prima volta, la revisione delle fonti avviato da alcuni giuristi pratici, come il Le Brun, aveva cominciato a scalzare la ‘lex quod Nerva’ dal suo piedistallo, da una parte dimostrandone la natura di caso singolo non generalizzabile, dall’altra ravvisando in rapporti diversi dal deposito, come la società (D. 17.2.72 = Iust. inst. 3.25.9), la comunione (D. 10.2.25.16) e la dote (in particolare D. 24.3.24.5), il solo vero ambito di applicazione della culpa in concreto propriamente detta, intesa non più come un caso di culpa lata, ma come attenuazione di culpa levis. Tuttavia si trattava ancora di casi isolati e, agli albori dell’Ottocento, il primato concettuale della ‘lex quod Nerva’ rimaneva immutato, anche per la massiccia receptio nei codici della regola della diligentia quam suis del depositario. | 95 |
I tempi erano tuttavia maturi per un cambiamento di prospettiva: ed esso ebbe luogo ad opera della Pandettistica che, rivisitando con nuova mentalità i frammenti sulla diligentia quam suis, scardinò finalmente l’edificio concettuale fondato sulla ‘lex quod Nerva’ e le sue false interpretazioni. Quest’ultima venne così riletta e reinterpretata con maggior aderenza al dato testuale, libera dalla tradizione che per secoli ne aveva sviato la comprensione. | 96 |
Il cambiamento prese l’avvio soprattutto con la pubblicazione a Kiel nel 1815 della monografia di Johann Christian Hasse «Die culpa des römischen Recht» (riapparsa a Bonn in II edizione ampliata a cura di August Bethmann-Hollweg nel 1838)169, i cui risultati innovativi, benché non recepiti in blocco dalla Pandettistica, costituirono certamente un punto di non ritorno nella lunga tradizione di studi sulla colpa e la diligentia quam suis. | 97 |
«Niente è più facile – osservava Hasse – del sistema romano della colpa»170, che si distingue in culpa lata – il ‘non intelligere quod omnes intellegunt’ della ‘lex latae’ (D. 50.16.213.2) e il ‘minorem quam suis rebus diligentiam praestare’ della ‘lex quod Nerva’ – e culpa levis, l’omissione del grado di diligentia normale nel bonus et diligens pater familias. A seconda del rapporto preso in considerazione e dell’utilitas di volta in volta ricavata, i contraenti rispondono soltanto di dolo e culpa lata – come nel deposito – o anche di culpa levis, come nei rapporti stipulati nell’interesse comune delle parti. In entrambe le sue forme, la culpa lata è in pratica difficilmente distinguibile dal dolo: ciò spiega la loro tradizionale equiparazione, dovuta al fatto che, come bene dirà il Windscheid, «la disattenzione di cui [il danneggiante] si rese colpevole è così di comune pericolo nel primo caso, così vergognosa nel secondo, ch’egli non può lagnarsi di sottostare alle conseguenze giuridiche del dolo»171. A tal punto le due figure sono vicine che non di rado i giuristi romani mostrano di utilizzare l’appellatio doli per casi propri di culpa lata: ciò poteva accadere – spiega Hasse – perché il pretore romano non attribuiva al termine «dolo» il significato ristretto di volontarietà del danno (animus nocendi), ma l’accezione più ampia di consapevolezza del pericolo a cui la cosa altrui veniva sottoposta: quindi il debitore che, nell’adempimento della sua obbligazione, commettesse una colpa di qualsiasi entità – levis o lata – non abituale, tuttavia, nelle sue cose, rispondeva di culpa lata – equiparata al dolo – perché non aveva evitato alla controparte un pericolo di cui era consapevole e che in suis avrebbe certamente evitato172. Ciò risulta dal fr. 32 di Celso, di cui Hasse dà una lettura nuova (anche se per certi versi non del tutto perspicua), pur non disconoscendogli un ruolo centrale nella dottrina romana della culpa in concreto. Celso, che inizia riferendo la discussa tesi di Nerva sull’equiparabilità della culpa lata al dolo, cercherebbe qui di provare la correttezza della tesi del suo predecessore con un argomento a potiori: se una semplice culpa levis, quale è quella descritta nel ‘nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens est …’, viene addirittura considerata dolo (‘fraude non caret’) quando l’autore di essa è solito evitarla in suis (nisi tamen ad suum modum curam in deposito praestat), a maggior ragione essa potrà essere considerata culpa lata secondo la tesi di Nerva riportata in principio: | 98 |
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Die Frage im Anfange ist auf die eigentlich grobe Schuld, culpa lata, wenn wenigstens der Vorwurf eintritt, einer habe nicht erkannt, was sonst alle erkennen, gestellt. Ob diese als dolus angesehen werden könne, wurde bezweifelt, Celsus entscheidet für die bejahende Partei. Sein Beweis ist ein argumentum a potiori. Schon wenn jemanden kein anderer Vorwurf treffen kann, als daß er nur nicht alles das erfüllte, was ein Anderer erfüllen würde, welcher alles das leistete, was menschliche Natur verlangt, d.h. was ein bonus et diligens pater familias zu leisten pflegt, denn dieser erfüllt die von der Natur dem Menschen vorgeschriebene Bestimmung, wenn er also auch nur eine leichte Schuld beging; so kann man ihn nicht von aller argen Denkungsart frei sprechen, sobald sich zeigt, daß auch so kleine Versehen ihm im Eignen nicht vorzukommen pflegen, denn in der That gehört es allemal zur redlichen Gesinnung, welche jeder Contrahent bei dem andern voraussetzen muß, daß er wenigstens in dem besondern Verpflichtungsverhältniß sich nicht nachlässiger benehmen werde, als er gewöhnlich bei Verrichtungen auf eigne Rechnung thut, es mag übrigens der Grad dieser Nachlässigkeit kleiner oder größer sein. Kann nun also eine culpa levis unter Umständen in einem gewissen Sinne dolus sein, mit dem sich keine obligatio verträgt, so muß dies um so mehr von jeder an sich groben Schuld gelten. Der Schluß verstand sich von selbst, daher ward er nicht ausgeführt. Zieht man nun diese, wie mir scheint, ganz natürliche Erklärung den vielen künstlichen und sinnentstellenden Andrer vor, so sieht man auch, daß hier die culpa in concreto, nicht culpa lata genannt wird, sondern es wird nur eine culpa levis, die zugleich culpa in concreto ist, für dolus erklärt, und daraus geschlossen, daß um so eher eine jede culpa lata, sie mag nun zugleich culpa in concreto sein, oder nicht, für dolus gelten müsse173. |
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Dunque per Hasse, con la ‘lex quod Nerva’ Celso non si soffermava sulla diligentia quam suis come autonoma categoria dogmatica, ma tentava di meglio definire i concetti edittali di dolo e culpa lata, ampliandone i confini: infatti, per il pretore romano rientrava nel dolo, e a fortiori nella culpa lata, anche la neglegentia rebus suis non consueta. | 99 |
Con ciò, tuttavia, non si superava ancora la contraddizione fra il fr. 32 e i frammenti in tema di società, comunione e dote, ove la diligentia quam suis veniva presentata come attenuazione di culpa levis. A questo fine Hasse precisa che di culpa lata – commissiva od omissiva –, anche nella forma descritta dal fr. 32, si rispondeva sempre, senza poter mai trovare scusanti al proprio comportamento gravemente negligente richiamandosi alla propria negligenza abituale. Diversamente in taluni rapporti in cui si rispondeva anche per culpa levis – come la società, la comunione, la dote e la tutela – per particolari ragioni174, il diritto romano aveva introdotto un correttivo a favore del debitore, attribuendogli, in caso di azione esercitata da parte del creditore, la possibilità di discolparsi ope exceptionis opponendo la ‘neglegentia rebus suis consueta’; al debitore convenuto per culpa levis spettava, in tali casi, per evitare la condanna, l’onere di dimostrare di essere abitualmente in suis parimenti negligente: | 100 |
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… bei den Contracten, welche diligentia quam suis etc. prästiren lassen, das iudicium auf culpa levis geht, und nur in einzelnen Fällen, wenn gerade der Handelnde als ein gewöhnlich Nachlässiger befunden wird, die Beschränkung der Beflissenheit eintritt, muß hier in der Regel jegliches leichte Versehen verantwortlich machen, und muß es präsumirt werden, daß der in Anspruch genommene durchweg und auch in der gerade in Frage stehenden Art der Thätigkeit ein Fleißiger zu sein pflege. Eine culpa levis ist hier zum Klaggrunde hinreichend, und nimmermehr kann es hier erforderlich sein, daß der Kläger sich auf den gewöhnlichen Fleiß des Andern berufe, vielmehr muß dieser letztere es zu seiner Entschuldigung anführen, es zum Gegenstande seiner exceptio machen, daß er ein Nachlässiger auch in Eignen sei, nicht aber genöthigt werden können, mehr zu leisten, als er in seinen eignen Dingen zu leisten gewohnt sei175. |
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Tale scusante valeva tuttavia per i soli comportamenti omissivi, perché per i danni prodotti con culpa in faciendo il debitore rispondeva sempre, in base alla lex Aquilia, anche per una negligenza di lievissima entità (D. 9.2.44.pr.: ‘In lege Aquilia et levissima culpa venit’): nessuna gradazione di culpa aveva, infatti, rilievo nella responsabilità extracontrattuale ex lege Aquilia, applicabile a qualunque soggetto, indipendentemente dalla sua posizione all’interno del rapporto obbligatorio. | 101 |
Nel nuovo sistema di Hasse la diligentia quam suis viene così dissolta come autonoma categoria dogmatica e, nello stesso tempo, sono superate le contraddizioni testuali che per secoli avevano occupato gli interpreti: la ‘neglegentia rebus suis non consueta’ della ‘lex quod Nerva’ non costituisce, infatti, che un mero caso di culpa lata equiparata al dolo; la ‘neglegentia rebus suis consueta’ della lex socius socio (Iust. inst. 3.25.9 = D. 17.2.72) e degli altri frammenti in tema di comunione, dote e tutela, perde la sua autonomia per ridursi a mezzo di difesa giudiziale apprestato dal diritto a favore di particolari debitori rispetto ad un’accusa di culpa levis. | 102 |
Nella dottrina dell’epoca le intuizioni di Hasse non riscossero sempre generale e incondizionato consenso176. Non di rado esse furono sottoposte a critica177 e, qualche volta, radicalmente disattese178: in particolare venne generalmente rifiutata la scelta di mantenere inalterata la tradizionale forma della culpa lata in concreto, giudicata in genere fonte di equivoci e poco fondata sul piano testuale179. Ma, al di là delle singole soluzioni ed esegesi, più o meno apprezzate dai successivi studiosi, il nuovo approccio determinò un radicale cambiamento nella definizione dogmatica dei principii cardine della responsabilità contrattuale e, più in generale, nella stessa mentalità giuridica del tempo: da questo momento, infatti, l’omissione di diligentia quam suis, tradizionalmente accostata alla culpa lata della ‘lex quod Nerva’, perse con essa ogni contatto, per divenire forma di culpa levis attenuata posta a beneficio del socio, del comunista, del marito e del tutore180, in ragione dei particolari rapporti di fiducia o fraternità riconoscibili all’interno di questo tipo di obligationes, dell’onere particolarmente gravoso imposto al tutore o della condizione sui generis del comproprietario che amministra una cosa comune181. | 103 |
Così la «rivoluzione» di Hasse cambiò il corso della storia esegetica della ‘lex quod Nerva’, che dalla Pandettistica venne generalmente presentata come il frutto più maturo della riflessione dogmatica di Celso sui concetti di dolo e culpa lata, sul loro fondamento, sul loro contenuto e reciproca connessione182. | 104 |
La ‘lex quod Nerva’ perse dunque il suo primato nella dottrina della diligentia quam suis ma ciò non ne comportò l’uscita dai circuiti delle trattazioni scientifiche sulla responsabilità contrattuale e l’obsolescenza come oggetto di studio: la sua tradizione millenaria era troppo forte, la sua storia esegetica troppo radicata perché una qualsiasi rivisitazione scientifica della dottrina della colpa potesse ragionevolmente pensare di discostarsene. Così ‘lex quod Nerva’ rimase nonostante tutto protagonista del rinnovato dibattito sulla responsabilità contrattuale, a volte elevata a base testuale della rifondazione dogmatica del concetto di culpa lata tentata da alcuni pandettisti (come Hesse183, Binding184, Friedrich Mommsen185), a volte, al contrario, sminuita come opinione personale ed isolata di Celso, espressa in un momento in cui la dottrina della colpa non si era ancora del tutto consolidata (Dernburg186, Regelsberger187, Perozzi188). | 105 |
Questo, in sintesi, lo stato della dottrina tedesca sulla culpa lata e la diligentia quam suis alla vigilia dei lavori preparatori della nuova codificazione: e il Windscheid, membro autorevole della prima commissione, tentò di applicarne rigorosamente i risultati, proponendo di limitare il beneficio della diligentia quam suis ai soli casi in cui, per particolari ragioni attinenti alla natura del rapporto, esso apparisse equamente conforme agli interessi delle parti (contratto di società, rapporti patrimoniali fra coniugi). La responsabilità in concreto fu, invece, nel primo progetto, esclusa dalla disciplina del contratto di deposito in ragione della rinnovata interpretazione della ‘lex quod Nerva’ operata dalla Pandettistica, che aveva fatto giustizia dei malintesi del passato: secondo i «Motive» (in cinque volumi) che accompagnavano l’ «Erster Entwurf» del «BGB.», la comune responsabilità per culpa levis, applicabile senza distinzione al deposito gratuito ed oneroso, sarebbe stata anche funzionale ad evitare un’ingiustificata disparità di trattamento fra depositario e mandatario gratuiti189. | 106 |
Ma, nonostante tutto, la forza della tradizione prevalse e l’esito dei lavori fu opposto a quello prefigurato: la «Kommission für die zweite Lesung», dominata da germanisti desiderosi di far valere le peculiarità del diritto nazionale contro il diritto romano e la precedente leadership romanistica190, riesumò in funzione polemica la diligentia quam suis del depositario richiamandosi proprio alla sua inveterata tradizione, rifluita da una parte nelle consuetudini dei Länder, dall’altra nei precedenti codicistici prussiano e sassone191: così la diligentia quam suis del depositario, faticosamente estromessa dal dibattito scientifico come lettura infondata di un testo malinteso, ritornò baldanzosa ed immutata nella disciplina codicistica, come se i cento, lunghi anni della rivisitazione pandettistica delle fonti romane, nulla avessero prodotto di determinante e significativo. | 107 |
Qui sta l’origine del § 690 del «BGB.» sull’attenuazione di responsabilità del depositario gratuito, fonte tuttora, insieme agli altri casi di culpa in concreto mantenuti dal codice192, di dissensi dottrinali di larga portata, fra chi reputa tale misura inutile e dannosa, e chi si sforza di giustificarla alla luce dell’equità e della giustizia del caso singolo193. | 108 |
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Fino agli inizi del novecento gli approfondimenti tematici sulla culpa in concreto del depositario e in generale sulla diligentia quam suis non si erano mai disgiunti dall’analisi esegetica della ‘lex quod Nerva’, da sempre considerata caposaldo – ed insieme nodo problematico – dell’intera disciplina della responsabilità contrattuale, romana e positiva. Ma la trasposizione della lex in regola codificata di molti paesi (Francia, Italia, Germania, Argentina, Brasile, Costa Rica, Venezuela, Perù, Quebec etc.194) non potè che determinare la divaricazione fra gli studi di diritto positivo, interessati all’interpretazione della norma nell’ambito della regolamentazione codicistica della responsabilità e ai suoi problemi applicativi, e quelli di diritto romano, interessati al significato e alla portata del frammento nel suo contesto storico, alla luce della disciplina antica della responsabilità contrattuale195. Contemporaneamente, fra i due poli, perse di interesse fra i romanisti196 lo straordinario patrimonio esegetico del diritto intermedio197. Poiché la scelta programmatica del presente studio è quella di seguire le sorti della ‘lex quod Nerva’ durante i lunghi secoli della sua storia esegetica al fine di proporne un’interpretazione più consapevole e storicamente fondata, si lasceranno da parte le problematiche attinenti agli esiti codicistici e dogmatici della regola (salvo i pochi accenni dei paragrafi precedenti) per concentrarsi sugli sviluppi dottrinali della lex nel quadro delle nuove metodologie scientifiche della ricerca romanistica del XX secolo, nella prospettiva indicata nell’introduzione a questo lavoro, cui rinvio. | 109 |
Com’è noto, il definitivo superamento della vigenza positiva dello jus commune nell’Europa del primo novecento aprì le porte al consolidamento del cd. metodo critico, che si proponeva un complessivo riesame testuale, sotto il profilo filologico e storico, del Corpus Iuris (e delle fonti giuridiche minori pervenute al di fuori di esso) teso anche ad individuarne l’eventuale presenza di interpolazioni giustinianee. Per la ‘lex quod Nerva’ tale rinnovamento fu di particolare significato perché, al di là del concreto dissidio fra Nerva e Proculo sorto all’epoca del primo impero e poco dopo ripreso da Celso, il testo era stato per lo più presentato (persino dai giuristi culti) come il manifesto astorico di un principio giuridico fondamentale, elevato a pilastro della sistematica della responsabilità contrattuale ereditata dal passato. Ora, per la prima volta, la fonte veniva rivista alla luce del contesto storico della scuola proculiana e, sulla scorta della Palingenesia Iuris Civilis di Otto Lenel pubblicata nel 1889, veniva anche rivalutata sulla base della sua collocazione palingenetica (rivelata dall’inscriptio) nel titolo ‘de tutelis’ dei Digesta di Celso (n. 91). | 110 |
Notoriamente alle novità metodologiche della critica del testo, non sempre corrispose un adeguato rigore scientifico negli studi esegetici dell’epoca, ed in effetti, qui come altrove, non rari sono gli eccessi di chi, senza plausibile ragione, giunge a svalutare la ‘lex quod Nerva’ come prodotto deteriore di una logica bizantina schematica e generalizzante, sulla sola base di una sua presunta contraddittorietà interna o della presenza di parole ritenute arbitrariamente «sospette»198. | 111 |
Più produttivo fu invece l’apporto di quegli esponenti della critica che, riprendendo una suggestione del Pernice199 e riflettendo sulla collocazione palingenetica del frammento, riferivano il passo al contesto originario della tutela, ipotizzando che Giustiniano lo avesse spostato nel titolo ‘depositi vel contra’, interpolandone alcune parole, proprio al fine di confermare con una fonte classica l’equiparazione cara ai compilatori fra culpa lata e dolo200. Ciò apportava una nuova chiave di lettura, idonea forse a svelare aspetti inesplorati del testo, e non è dunque un caso che, ancora negli ultimi decenni, la tesi sia stata riproposta da personalità scientifiche di rilievo, che hanno fatto della ‘lex quod Nerva’ un caposaldo della controversa disciplina romana della responsabilità del tutore201. Molti hanno giustamente rilevato202 che, vista l’abitudine dei giuristi romani di argomentare per connessioni di idee, digressioni e paragoni, la variazione tematica di un frammento dal contesto dominante non è di per sé prova sufficiente di interpolazione. Tuttavia, di fronte al dato oggettivo della collocazione palingenetica del testo in un ambito certamente riferito alla tutela, il generico riferimento alla tecnica argomentativa dei giuristi romani non basta ad escludere con certezza ipotesi interpolazionistiche: il sospetto di interpolazione può, infatti, essere ragionevolmente escluso soltanto nel caso di evidente discrasia fra il contenuto della lex e la portata concettuale della diligentia quam suis del tutore, quale risulta dalle numerose attestazioni delle fonti sul tema. A questo nodo problematico si cercherà di dare una risposta esauriente nella parte finale di questo studio, in sede di rivalutazione esegetica del frammento. | 112 |
Fra i primi sostenitori dell’attinenza del passo alla responsabilità del tutore vi fu Ludwig Mitteis con la sua magistrale monografia del 1908 «Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians»203: occorre, tuttavia, precisare che, ben al di là di questa minuta ipotesi interpolazionistica, l’opera inaugurò un filone interpretativo che, con le dovute varianti, va tuttora per la maggiore fra gli esegeti della ‘lex quod Nerva’, compresi quelli che ne sostengono la totale genuinità e l’originaria pertinenza al contratto di deposito. | 113 |
Mettendo a frutto un’intuizione della Pandettistica (§ 7), Mitteis presentò la ‘lex quod Nerva’ come attestazione significativa degli sforzi della giurisprudenza alto-imperiale verso l’ampliamento interpretativo del concetto di dolo: il che serviva, in particolare, nei rapporti tutelati da azioni infamanti (ad esempio tutela e società) che, secondo l’autore, non potevano prevedere un grado di responsabilità più pesante del dolo, proprio a causa della gravità della sanzione inflitta all’obbligato in caso di condanna. Con tale interpretazione estensiva la giurisprudenza avrebbe inteso rendere possibile la condanna dell’obbligato in ipotesi di grave negligenza, nonostante che fossero prive dei requisiti della consapevolezza o volontarietà del danno tipico del dolo propriamente detto204. Così, nel fr. 32, Nerva e Celso avrebbero formulato il principio nuovo e non da tutti condiviso che «die Zurücksetzung fremder Angelegenheiten gegen die eigenen unehrlich ist»205 e che la mancanza di fedeltà di chi è meno diligente in alienis che in suis deve essere considerata dolo anche se non presenta gli estremi della consapevolezza/volontarietà del danno secondo l’accezione più ristretta del termine. Interpolati erano, invece, per Mitteis, tutti i testi in cui la diligentia quam suis non fosse presentata come ampliamento del concetto di dolo, ma come attenuazione della responsabilità per colpa: unica eccezione poteva forse essere D. 17.2.72 in tema di società, a patto di considerarlo (a dire il vero contro la lettera del testo, che parla espressamente di culpa levis) come attestazione del tentativo gaiano di estendere la classica responsabilità per dolo del socio oltre i suoi originari limiti concettuali206. | 114 |
In seguito molti studi207 misero opportunamente in luce l’erroneità del supposto legame fra condanna infamante e responsabilità per dolo, dimostrando, attraverso nuove attestazioni epigrafiche o con la semplice rilettura non prevenuta delle fonti giuridiche tradizionali, che il criterio della colpa era applicato già in età classica a molti rapporti tutelati da azioni infamanti, primo fra tutti quello di società. Praticamente incontrastata rimane comunque, fino ai nostri giorni, l’intuizione di fondo del Mitteis che la ‘lex quod Nerva’ fosse espressione del cammino della giurisprudenza classica verso l’estensione del concetto di dolo a gravi infrazioni della fides prive dell’evidenza della consapevolezza/volontarietà del danno: in seguito i giustinianei, nella loro opera di stilizzazione dogmatica dei concetti giuridici ereditati dal passato, avrebbero relegato questi casi gravi di infrazione involontaria della fides nella categoria residuale della culpa lata. Sulla base della ‘lex quod Nerva’ interpretata secondo questi presupposti, si è anche tentato in dottrina di formulare una nuova categoria concettuale, quella del cd. «dolo relativo», rilevabile in chi, già negligente in suis, si riveli nella custodia del deposito ancor più negligente: secondo questa lettura, Celso avrebbe creato la nuova figura del dolo relativo al fine di difendere la proposta di Nerva di equiparare al dolo la grave negligenza del depositario, contro l’obbiezione di Proculo che escludeva tale possibilità nel caso di un depositario già gravemente negligente in suis208. | 115 |
In ogni caso, per l’attuale dottrina dominante, la ‘lex quod Nerva’ contiene un nucleo genuino del pensiero classico ed attesta per quest’epoca l’esistenza di un concetto elastico di dolo, nel quale rientravano ipotesi di grave infrazione della fides, volontarie o non, come, nel caso di specie, l’omissione di diligentia quam suis del depositario209. | 116 |
L’osservazione contiene senza dubbio un fondo di verità210, ma va a mio parere precisata alla luce di un’attenta rilettura del passo nella sua integrità strutturale e contenutistica perché, in questa generica formulazione, essa finisce coll’attribuire ai giuristi romani l’idea, logicamente e storicamente inaccettabile, che a qualcuno – e a maggior ragione al depositario, titolare di un contratto gratuito – possa tout court essere imposto dal diritto l’obbligo di trattare le cose affidate come le proprie, sanzionandolo di dolo in caso di inosservanza. Riprendendo un’acuta osservazione del Pufendorf (§ 6), la diligentia quam suis così intesa può tutt’al più ergersi ad obbligo morale, ma non può assurgere ad obbligo giuridico sanzionato sul piano del diritto: il disagio dei giuristi di ogni epoca di fronte all’iniquità di questa formulazione emerge con chiarezza dal tentativo ricorrente211 di interpretare D. 16.3.32, contro la lettera del testo, alla luce di D. 13.6.5.4 in tema di comodato, cioè come statuizione della responsabilità del depositario che, in caso di perimento fortuito della cosa affidata, abbia, nella stessa circostanza, salvato la propria. Si aggiunga che la suddetta impostazione, salvando la classicità del fr. 32 come tentativo di interpretazione estensiva del concetto di dolo, giunge di regola a sacrificare, come frutto di interpolazione o di modifica postclassica, i testi ove la figura emerge sotto un diverso profilo, cioè come attenuazione (nella società e in un frammento sulla dote) o aggravamento (nella tutela e in un altro frammento sulla dote) della responsabilità per colpa212. In realtà l’antitesi tra classico e postclassico-giustinianeo non risolve i problemi di una figura giuridica che si presenta contraddittoria anche all’interno della disciplina dei singoli istituti (si veda, ad esempio, la contraddizione fra D. 23.3.17.pr. e D. 24.3.24.5 in tema di dote). | 117 |
Da ultimo occorre ricordare la posizione del Cannata, che ha supposto la presenza nel testo di un’ampia glossa postclassica213 da ‘nisi tamen’ a ‘praestat’ e da ‘nec enim’ alla fine214, cioè proprio nella parte riferita alla diligentia quam suis215: nel contesto originario Nerva e Celso si sarebbero limitati a qualificare come doloso il comportamento del depositario che avesse usato nella custodia «una diligenza inferiore a quella corrispondente al comportamento che può definirsi come «il comportamento umano» … perché chi affida ad un soggetto la propria cosa ha diritto di attendersi che questi si comporterà da persona normale»216. L’autore considera la fattispecie del fr. 32 come un caso di «dolo tipizzato», cioè come un comportamento tipico, considerato dai giuristi doloso sulla sola base dei suoi connotati esteriori: l’individuazione di casi di «dolo tipizzato» sarebbe stata, infatti, una necessità di fronte alle difficoltà pratiche connesse all’accertamento giudiziale del dolo in quanto «stato dell’anima». | 118 |
Ma il taglio radicale che questa ricostruzione presuppone non solo appare di per sé ingiustificato di fronte alla piena comprensibilità del testo nella lezione tramandata (cfr. § 9), ma finisce coll’attribuire ai giuristi l’idea – secondo me inaccettabile sia sul piano logico che sotto il profilo storico – che un comportamento possa essere giudicato doloso soltanto perché meno diligente della media: si tratta in realtà di una prospettiva non nuova che, già lumeggiata su altre basi da Accursio, è stata più volte criticata, a partire dalla scuola dei commentatori, nell’intero corso della tradizione romanistica (cfr. § 3 ss.). | 119 |
Alla luce delle suggestioni della dottrina del novecento, si rivela ora opportuna una revisione dei testi che parta da una nozione di diligentia quam suis non aprioristica ed unitaria, ma variabile e modellata sulle esigenze concrete dei singoli rapporti217. | 120 |
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a. Al di là delle svariate letture date alla ‘lex quod Nerva’ nel corso dei secoli e della diversa portata di volta in volta riconosciutale per la ricostruzione della dottrina della colpa e della diligentia quam suis, comune a molti studi esegetici è il tentativo di individuare nella lex la statuizione di un principio generale (quello del «dolo presunto» a partire dai glossatori, quello del «dolo ampliato» a partire dalla Pandettistica) senza una corrispondente ed adeguata considerazione del dato testuale: in realtà, come sporadicamente messo in luce, nel corso dei secoli, da diversi esponenti della dottrina (già Vinnio218, poi Le Brun219, Glück220, von Löhr221, Sertorio222, Rotondi223, Cian224, Hoffmann225, Hausmaninger226), il testo non statuisce il principio generale che l’omissione di diligentia quam suis del depositario sia dolo, ma descrive il caso specifico di un depositario abitualmente più negligente in suis di quanto la natura hominum227 richieda, che in deposito sia ancor più negligente228 e con ciò tradisca l’affidamento riposto in lui dal depositante, annullando l’operatività del principio ‘de se queri debet’ (in base al quale chi abbia assunto un depositario negligente, deve imputare a sé ogni conseguente danno)229. Infatti, come bene spiega il Rotondi, «chi affida un oggetto a persona notoriamente trascurata de se queri debet: ma ognuno deve avere il diritto di aspettarsi che quella persona sia almeno tanto diligente quanto lo è usualmente»230. In tale lettura, come chiarisce il Sertorio, trova giustificazione anche il comparativo latior della frase d’esordio (… latiorem culpam dolum esse …) che indica che «il supposto depositario avrebbe commesso per le cose depositate una colpa più grave di quelle, pur già latae, che soleva commettere per sé»231. | 121 |
Ma, dati per certi questi presupposti, la piena comprensione del passo richiede, a mio parere, un’ulteriore precisazione. Secondo la lettura attualmente dominante232 il testo documenterebbe l’intento dei giuristi alto-imperiali di estendere la responsabilità per dolo del depositario a casi privi del requisito della consapevolezza delle conseguenze dannose del proprio comportamento, e proverebbe l’elasticità classica del criterio del dolo in contrapposizione alla staticità e rigidità del concetto giustinianeo. A sostegno di questa tesi la dottrina è solita citare alcuni frammenti del titolo ‘depositi vel contra’ del Digesto, ove i giuristi mostrano di estendere la tutela del depositante a casi di mancata o difettosa restituzione della cosa depositata indipendentemente dalla verifica dell’intenzionalità del suo comportamento e della consapevolezza delle sue conseguenze: è il caso, ad esempio, del depositario condannato, secondo l’opinione di Giuliano, sul semplice presupposto del suo rifiuto di restituire la cosa (D. 16.3.1.22), del sequester condannato per aver liberato, spinto dalla misericordia e non allo scopo specifico di consentirgli la fuga, uno schiavo miseramente legato in attesa di processo (D. 16.3.7.pr.), o di chi, ricevuto un deposito da uno schiavo, venga condannato per averlo restituito allo stesso schiavo, nonostante potesse, valutando le circostanze, sospettare che la volontà del dominus era contraria alla restituzione (D. 16.3.11.pr.): | 122 |
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D. 16.3.1.22 Ulp. 30 ad ed.: Est autem et apud Iulianum libro tertio decimo digestorum scriptum eum qui rem deposuit statim posse depositi actione agere: hoc enim ipso dolo malo facere eum qui suscepit, quod reposcenti rem non reddat. Marcellus autem ait non semper videri posse dolo malo facere eum, qui reposcenti non reddat: quid enim si in provincia res sit vel in horreis, quorum aperiendorum condemnationis tempore non sit facultas? Vel condicio depositionis non exstitit? |
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D. 16.3.7.pr. Ulp. 30 ad ed.: Si hominem apud se depositum ut quaestio de eo haberetur, ac propterea vinctum vel ad malam mansionem extensum sequester solverit misericordia ductus, dolo proximum esse quod factum est arbitror, quia cum sciret, cui rei pararetur, intempestive misericordiam exercuit, cum posset non suscipere talem causam quam decipere. |
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D. 16.3.11.pr. Ulp. 41 ad Sab.: Quod servus deposuit, is apud quem depositum est servo rectissime reddet ex bona fide: nec enim convenit bonae fidei abnegare id quod quis accepit, sed debebit reddere ei a quo accepit, sic tamen, si sine dolo omni reddat, hoc est, ut nec culpae quidem suspicio sit. Denique Sabinus hoc explicuit addendo: «nec ulla causa intervenit, quare putare possit dominum reddi nolle». Hoc ita est, si potuit suspicari, iusta scilicet ratione motus: ceterum sufficit bonam fidem adesse. Sed et si ante eius rei furtum fecerat servus, si tamen ignoravit is apud quem deposuit vel credidit dominum non invitum fore huius solutionis, liberari potest: bona enim fides exigitur. Non tantum autem si remanenti in servitute fuerit solutum, sed etiam si manumisso vel alienato, ex iustis causis liberatio contingit, scilicet si quis ignorans manumissum vel alienatum solvit. Idemque et in omnibus debitoribus servandum Pomponius scribit. |
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Ma a ben vedere, intendere questi casi come attestazione di un consapevole tentativo giurisprudenziale di ampliamento sostanziale del concetto di dolo233 appare incongruente con il tenore dei testi, che impostano il problema sotto il mero profilo processuale: in D. 16.3.1.22 Giuliano prospetta come doloso il contegno del depositario che rifiuta la restituzione di fronte all’espressa domanda del deponente. Marcello rileva l’eventualità di cause oggettive che giustifichino il rifiuto di restituzione e che quindi escludano il dolo attuale. Nella prospettiva del testo ulpianeo, che mette a confronto Giuliano con Marcello, il punto di vista è quello processuale della mancata restituzione dolosa e dell’eventualità di circostanze a difesa del convenuto che escludano il dolo. Nel fr. 7.pr. D. 16.3 Ulpiano rifiuta, seppure che un certo imbarazzo, l’idea che l’esercizio della misericordia da parte del sequestratario infedele lo giustifichi di fronte all’azione dei codeponenti che ne fanno valere il dolo234. In D. 16.3.11.pr. non deve stupire la menzione del dolo del depositario, non consapevole per sua colpa della contraria volontà del dominus dello schiavo deponente alla restituzione allo schiavo stesso: ancora una volta il depositario non può difendersi nell’actio depositi esperita dal dominus per questa restituzione contraria alla sua volontà, adducendo la sua ignoranza colposa235. In questo modo i sospetti di interpolazione vengono mitigati e i testi mantengono la loro interna coerenza logica. | 123 |
In tale quadro si chiarisce meglio anche la portata del fr. 32, che costituisce attestazione significativa dei tentativi giurisprudenziali dell’epoca di estendere l’operatività dell’actio depositi in factum e in ius a casi di grave infrazione della fides che non rientrerebbero di per sé nella fattispecie tipica del dolo236. | 124 |
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b. Come già notato (§ 8) il fr. 32 di Celso, in ragione dell’originaria collocazione palingenetica, è stato non di rado in dottrina riferito alla tutela, quasi che la disputa fra Nerva e Proculo alludesse alla possibile estensione della responsabilità per dolo del tutore al caso dell’omissione della diligentia abituale nei suoi affari. Si dimostrerà ora che l’incoerenza sostanziale rilevabile fra il concetto di diligentia quam suis del tutore e il caso descritto dalla ‘lex quod Nerva’, consente ragionevolmente di escludere tale sospetto. | 125 |
Com’è noto, il tema della responsabilità del tutore in età classica è stato oggetto in dottrina di un’annosa disputa237 fra chi, soprattutto in passato, la considerava limitata al dolo238, chi pensava ad un criterio di imputabilità oggettiva fondato sul mero nesso di causalità fra interposizione gestoria ed evento dannoso239, e chi – con opinione oggi maggioritaria – ritiene genuine le svariate attestazioni delle fonti sull’estensione della sua responsabilità fino alla colpa240. Comunque, nonostante le differenze di opinione, è comune fra gli interpreti l’idea che la gestione del patrimonio pupillare debba essere informata ai criteri generali della fides et diligentia241, ossia dell’accuratezza, oculatezza, attenzione, premura e partecipazione affettiva e psicologica242 agli interessi del pupillo, da cui discende, come da genus a species, la lunga serie di obblighi specifici ricordati nelle fonti, come quello della tempestiva assunzione dell’ufficio, dell’accurata redazione dell’inventario, della regolare tenuta dei conti, dell’oculato investimento del patrimonio pupillare in nomina idonea o beni immobiliari, dell’educazione e cura della persona del pupillo, e così via243. | 126 |
In tale contesto rientrano con piena coerenza, al di là dei sospetti di interpolazione frequentemente avanzati244, i frammenti attestanti la cd. diligentia quam suis del tutore, che alludono proprio alla «fattiva devozione agli interessi del pupillo» che deve indurre il tutore ad «un impegno non inferiore a quella cura che egli porta negli affari propri»245: accezione, del resto, non infrequente, anche al di fuori del campo specifico della tutela, nelle fonti extra-giuridiche, prime fra tutte quelle evangeliche246. E’ il caso, ad esempio, di D. 27.3.1.pr., Ulp. 36 ad ed., ove la ‘diligentia quanta in suis rebus’ del tutore si aggiunge alla statuizione generale dei criteri di imputabilità della colpa e del dolo, come «grado di chiusura» della sua responsabilità247: qui, come giustamente ha osservato il MacCormack, «the sense is that the tutor is required to take proper care … and is liable for failure to take such care … Diligentia is mentioned explicitly because of the importance of the fault constituted by the failure to take care»248: | 127 |
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In omnibus quae fecit tutor, cum facere non deberet, item in his quae non fecit, rationem reddet hoc iudicio, prestando dolum, culpam et quantam in suis rebus diligentiam. |
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Analoga prospettiva è quella di D. 26.7.33.pr., Call. 4 de cogn. che, a dispetto delle critiche di illogicità e dei sospetti di interpolazione249, indica soltanto che, nella gestione del patrimonio pupillare, si chiede a tutori e curatori di prestare la diligenza che un pater familias attento e sollecito presta normalmente nelle sue cose: | 128 |
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A tutoribus et curatoribus pupillorum eadem diligentia exigenda est circa administrationem rerum pupillarium, quam pater familias rebus suis ex bona fide praebere debet. |
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Benché il criterio ivi seguito sia eminentemente astratto, anche qui come nel frammento precedente ciò che preme al giurista è precisare che dal tutore si pretende una gestione attiva, attenta, accurata, sollecita, come è di regola quella di chi amministra una cosa propria: interpretazione, questa, conforme alla testimonianza dei Basilici ove, nello scolio OÙc (n. 4) a D. 27.3.1.pr. = Bas. 38.3.1, lo scoliasta anonimo interpreta la diligentia quam suis ivi richiamata come la diligentia exacta dell’ ™pimel¾j ¥nqropoj proprio sulla base del confronto del testo con D. 26.7.33.pr. di Callistrato250. | 129 |
Coerenti con tale impostazione di fondo sono anche le trattazioni casistiche dei giuristi, che proprio del confronto fra le scelte del tutore in rebus suis e in rebus pupilli, fanno sovente un criterio diagnostico della sua responsabilità nel caso concreto. Così per Scevola, che imputa ai tutori la perdita economica derivante al pupillo dal loro atteggiamento omissivo quando, in seguito ad un incendio distruttivo dell’intera documentazione di credito, pupillare e personale, essi abbiano salvaguardato gli interessi propri (convocando i debitori per chieder loro il pagamento o la novatio obligationum) ma non quelli del pupillo. E’ interessante notare che nel passo la diligentia quam suis non compare come autonomo criterio di responsabilità, ma come mero elemento diagnostico dell’esistenza del dolo o della colpa in capo ai tutori nel caso concreto251 (‘… si adprobatum fuerit eos tutores hoc per dolum vel culpam praetermisisse’): | 130 |
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D. 26.7.57.pr., Scev. 4 dig.: Chirographis debitorum incendio exustis cum ex inventario tutores convenire eos possent ad solvendam pecuniam aut novationem facendam cogere, cum idem circa [priores] ?proprios? debitores propter eundem casum fecissent, id omisissent circa debitores pupillorum, an, si quis propter hanc cessationem eorum pupilli damnum contraxerunt, iudicio tutelae consequantur? Respondit, si adprobatum fuerit eos tutores hoc per dolum vel culpam praetermisisse, praestari ab his hoc debere252. |
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Analogo criterio è utilizzato da Gaio per statuire la responsabilità del tutor che abbia lasciato infruttuoso il denaro pupillare con la scusa di non aver trovato nomina idonea, ma abbia oculatamente e con successo collocato il proprio: | 131 |
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D. 26.7.13.1, Gai 12 ad ed. prov.: Non est audiendus tutor, cum dicat ideo cessasse pupillarem pecuniam, quod idonea nomina non inveniret, si arguatur eo tempore suam pecuniam bene collocasse. |
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Lo stesso confronto serve al pretore per valutare la scusabilità del tutore che, assentandosi improvvisamente, abbia lasciato il pupillo in condizioni miserevoli facendogli mancare addirittura gli alimenta: egli, infatti, non sarà rimosso, ma soltanto temporaneamente affiancato da un curatore se, per un’assenza necessaria ed improvvisa, si sia trovato nell’impossibilità di provvedere non solo agli interessi del pupillo, ma anche ai suoi propri: | 132 |
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D. 27.2.6, Tryph. 14 disp.: Si absens sit tutor et alimenta pupillus desideret, si quidem neglegentia et nimia cessatio in administratione tutoris obiciatur, quae etiam ex hoc arguatur, quod per absentiam eius deserta derelictaque sunt pupilli negotia, evocatis adfinibus atque amicis tutoris praetor edicto proposito causa cognita etiam absente tutore vel removendum eum, qui dignus tali nota videbitur, decernet vel adiungendum curatorem: et ita qui datus erit, expediet alimenta pupillo. Si vero necessaria absentia tutoris et improvisa acciderit, forte quod subito ad cognitionem principalem profectus nec rei suae providere nec consulere pupillo potuerit et speratur redire et idoneus sit tutor nec expediat alium adiungi et pupillus alimenta de re sua postulet: recte constituetur ad hoc solum, ut ex re pupilli alimenta expediat. |
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Identico criterio è infine attestato in ordine alla valutazione dell’accoglibilità dell’excusatio tutelae in caso di adversa valetudo del chiamato all’officium: essa, infatti, per disposizione imperiale, può essere accolta soltanto in caso di impedimento serio, comprovato dall’impossibilità di provvedere anche ai propri interessi personali: | 133 |
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D. 27.1.10.8, Mod. 3 exc.: … Adversa quoque valetudo excusat, sed ea quae impedimento est, quo minus quis suis rebus superesse possit, ut imperator noster cum patre rescripsit253. |
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Quanto tale peculiare accezione di diligentia quam suis fosse radicata nella mentalità del tempo, lo dimostra la Novella giustinianea 72 dell’anno 538 che, al capo VIII, raccomandando ai curatori una gestione patrimoniale particolarmente accurata nel caso di difficoltà economiche del pupillo, usa l’espressione æj ¨n ™pˆ to‹j ˜autîn pr£gmasi per indicare la richiesta di massima partecipazione, psicologica ed affettiva, agli interessi di quello. Come si vedrà, in seguito al progressivo avvicinamento della potestà maritale alla tutela come altrettanti uffici protettivi, questa stessa accezione di diligentia quam suis verrà, in età giustinianea, estesa all’amministrazione dei beni dotali254. Lo dimostrano C.I. 5.14.11.4, una costituzione giustinianea del 530 riferita alla conservazione dei documenti parafernali di credito della moglie, e D. 23.3.17.pr., un testo tratto dal VII libro del commentario ad Sabinum di Paolo ove, alla classica responsabilità del marito per dolo e colpa, viene aggiunta la menzione della diligentia quam suis probabilmente su imitazione di D. 27.3.1.pr. in tema di tutela255: | 134 |
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C.I. 5.14.11.4: Dum autem apud maritum remanent eaedem cautiones, et dolum et diligentiam maritus circa eas prestare debet, qualem circa suas res habere invenitur ne ex eius malignitate vel desidia aliqua muliebri accedat iactura. Quod si evenerit, ipse tandem de proprio resarcire compelletur256. |
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D. 23.3.17.pr.: In rebus dotalibus virum prestare oportet tam dolum quam culpam, quia causa sua dotem accipit: sed etiam diligentiam praestabit, quam in suis rebus exhibet. |
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E’ evidente che l’accezione di diligentia quam suis del tutore qui ricostruita, non ha nulla a che fare con quella attestata dalla ‘lex quod Nerva’ e, in generale, con l’accezione unitaria che a questa espressione è stata data sin dai primi secoli della tradizione romanistica257: piuttosto, i frequenti malintesi dottrinali sul tema sono proprio dipesi dal tentativo di esaminare i testi secondo una concezione preconcetta, sacrificando le peculiarità dei singoli rapporti. In realtà la diligentia quam suis è un mero parametro di fatto di cui talvolta, per particolari ragioni, i giuristi si servono come criterio di determinazione della responsabilità dell’obbligato. | 135 |
In ogni caso, la grave negligenza assimilabile al dolo della ‘lex quod Nerva’, che legittima il depositante ad esperire l’actio depositi quando il depositario, già negligente in suis, sia nella custodia del deposito ancor più negligente, non ha nulla a che fare con il surplus di diligenza attiva richiesta al tutore nella gestione del patrimonio pupillare in funzione protettiva. E’ quindi da escludere che D. 16.3.32 si sia originariamente riferito alla tutela. | 136 |
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c. La trattazione non sarebbe completa senza un riferimento ai testi in cui la diligentia quam suis compare in funzione attenuativa della responsabilità per colpa258: si è visto, infatti, che sin dai glossatori la contraddizione fra D. 16.3.32 in tema di deposito, ove la diligentia quam suis aggrava la responsabilità dell’obbligato, e D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9) in tema di società e D. 10.2.25.16 in tema di comunione ove, invece, ne attenua la responsabilità per colpa, costituisce un topos del dibattito scientifico sulla responsabilità contrattuale. | 137 |
Indizi utili alla soluzione del problema si possono ricavare in primo luogo da D. 10.2.25.16, nonostante la poca considerazione di cui il testo ha generalmente goduto nelle trattazioni romanistiche sul tema: | 138 |
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D. 10.2.25.16, Paul. 23 ad ed.: Non tantum dolum, sed et culpam in re hereditaria praestare debet coheres, quoniam cum coherede non contrahimus, sed incidimus in eum: non tamen diligentiam praestare debet, qualem diligens pater familias, quoniam hic propter suam partem causam habuit gerendi et ideo negotiorum gestorum ei actio non competit: talem igitur diligentiam praestare debet, qualem in suis rebus. Eadem sunt, si duobus res legata sit: nam et hoc coniunxit ad societatem non consensus, sed res. |
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Secondo la lezione della Florentina, il frammento esordisce dicendo che la responsabilità del coerede per danni arrecati in re hereditaria non si limita al dolo ma si estende alla colpa a causa del carattere incidentale della comunione. Il riferimento evidente è al contratto di società, in cui per Paolo si risponde in misura più ridotta (soltanto per dolo) perché ‘de se queri debet’ chi ha scelto un socio negligente. Tuttavia elemento diagnostico dell’esistenza della colpa in capo al comunista non è, come di consueto, l’assenza della diligentia del bonus pater familias, ma l’assenza di diligentia quam suis, perché questi (sia coerede che collegatario) ‘propter suam partem causam habuit gerendi et ideo negotiorum gestorum ei actio non competit’. | 139 |
La diversa interpretazione del testo resa in età bizantina dallo scolio KinoÚmenon (n. 13) ad Bas. 42.3.25 ha spinto gli editori259 a proporre una diversa lettura che, alla statuizione iniziale della responsabilità del coerede per dolo e colpa, fa seguire l’attenuazione della diligentia quam suis fondata, oltre che sulla gestione propter suam partem, sul carattere incidentale della comunione: | 140 |
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… non tantum dolum sed et culpam in re hereditaria praestare debet coheres: quoniam tamen cum coherede non contrahimus, sed incidimus in eum, non talem diligentiam praestare debet, qualem diligens pater familias: nam quoniam hic propter suam partem causam habuit gerendi, ideo negotiorum gestorum in eum actio non competit … |
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Tuttavia, seguendo questo indirizzo, il beneficio della diligentia quam suis deriverebbe al comunista dall’inapplicabilità del principio ‘de se queri debet’, perché egli, contrariamente al socio, non ha potuto scegliere i compartecipi alla comunione. Ma è noto che, all’opposto, lo stesso principio viene presentato in D. 17.2.72 come motivazione della concessione del beneficio nella società, il che crea fra i due testi un insanabile contrasto. Emerge inoltre con evidenza l’assenza di un legame logico fra la prima motivazione (il carattere incidentale della comunione) e la seconda (la gestione propter suam partem del comunista). La genuinità di questa seconda motivazione è, invece, confermata dalla sua coerenza con il contesto complessivo del passo, i cui §§ 17 e 18 trattano proprio di problematiche attinenti a danni arrecati alla comunione da uno solo dei suoi membri a causa di decisioni o posizioni assunte singolarmente o della gestione isolata della res communis. Infatti il § 17 allude al caso di un legato di homo incertus: il legatario muore ma, fra i coeredi, uno non acconsente alla scelta dell’homo proposta dagli altri e così impedisce a tutti l’acquisto del legato. Secondo Paolo, questi potrà essere condannato nel iudicium familiae herciscundae intentato dai coeredi al quanti intersit eorum. Lo stesso accade nel caso opposto, quando, cioè, fra più coeredi a cui spettava la scelta dell’homo da dare in legato, uno solo non abbia consentito alla proposta degli altri. I coeredi, condannati nel processo intentato dal legatario per mancato adempimento del legato, possono rivalersi contro di lui con l’actio familiae herciscundae: | 141 |
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D. 10.2.25.17: Si incerto homine legato et postea defuncto legatario, aliquis ex heredibus legatarii non consentiendo impedierit legatum, is qui impedit hoc iudicio ceteris quanti intersit eorum damnabitur. Idem est, si e contrario unus ex heredibus, a quibus generaliter homo legatus est quem ipsi elegerint, noluerit consentire, ut praestetur quem solvi omnibus expediebat, et ideo conventi a legatario iudicio pluris damnati fuerint. |
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Un caso analogo è presentato nel § 18, ove si dichiara tenuto a titolo di colpa il coerede che, avendo adìto prima degli altri (istituiti, ad esempio, sotto condizione), abbia con la sua inerzia determinato l’estinzione per non uso delle servitù costituite a favore dei fondi ereditari: | 142 |
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D. 10.2.25.18: Item culpae nomine tenetur, qui, cum ante alios ipse adisset hereditatem, servitutes praediis hereditariis debitas passus est non utendo amitti. |
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Sono tutti casi in cui un coerede è condannato con l’actio familiae herciscundae perché col suo comportamento ha impedito un’acquisto o ha cagionato una perdita a tutti gli altri membri della comunione. Ciò suggerisce di cercare la vera motivazione dell’attenuazione di responsabilità alla diligentia quam suis enunciata nel § 16 dello stesso frammento, proprio nella gestione propter suam partem del comunista e nella rilevata assenza, in capo a lui, di legittimazione – attiva e passiva – all’actio negotiorum gestorum, cioè, in ultima analisi, nel rapporto esistente fra azioni divisorie e actio negotiorum gestorum. | 143 |
Tale rapporto viene bene evidenziato da Ulpiano nel fr. 6.2 del titolo ‘communi dividundo’ quando, in un caso di gestione isolata di un fondo comune da parte di uno dei comproprietari, precisa che l’azione esercitata dagli altri per ottenere il risarcimento dei danni (arrecati dal «gestore» all’intero) o la divisione dei lucri, sarà l’actio communi dividundo se la gestione della sua parte è inscindibile dalla gestione del tutto – cioè se si tratta di communio pro indiviso260 –, l’actio negotiorum gestorum nel caso contrario (cd. communio pro diviso)261: | 144 |
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D. 10.3.6.2, Ulp. 19 ad ed.: Sive autem locando fundum commune sive colendo de fundo communi quid socius consecutus sit, communi dividundo iudicio tenebitur, et si quidem communi nomine id fecit, neque lucrum neque damnum sentire eum oportet, si vero non communi nomine, sed ut lucretur solus, magis esse oportet, ut damnum ad ipsum respiciat. Hoc autem ideo praestat communi dividundo iudicio, quia videtur partem suam non potuisse expedite locare. Ceterum non alias communi dividundo iudicium locus erit, ut et Papinianus scribit, nisi id demum gessit, sine quo partem suam recte administrare non potuit: alioquin si potuit, habet negotiorum gestorum actionem eaque tenetur. |
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Nel primo caso il gestore agisce per sé stesso, perché gli sarebbe stato impossibile gestire la propria parte senza gestire contemporaneamente quella degli altri. Nel secondo caso agisce volutamente per altri, nella consapevolezza di obbligarli a sé e di poter poi ottenere il rimborso delle spese con l’actio negotiorum gestorum contraria262. | 145 |
Su questa base la limitazione di responsabilità alla diligentia quam suis nella comunione, affermata da Paolo, trova una coerente spiegazione: al membro di una communio pro indiviso che gestisca da solo la res communis, non può essere chiesta più diligenza di quella che normalmente usa nelle sue cose perché ‘propter suam partem causam habuit gerendi’, cioè non avrebbe potuto gestire la cosa propria senza gestire contemporaneamente quella degli altri263. Così se nel corso di tale gestione solitaria egli reca danno alla communio, la colpa – e la conseguente condanna nell’azione divisoria intentata dai comproprietari per il risarcimento – sarà rilevabile unicamente nell’omissione della diligentia abituale nelle sue cose (‘talem igitur diligentiam prestare debet, qualem in suis rebus’). | 146 |
D. 10.2.25.16 si riferisce esclusivamente alla comunione fra coeredi e collegatari. Tuttavia è evidente che la gestio propter suam partem che giustifica l’attenuazione di responsabilità del comunista, vale anche per quel socio che, essendo comproprietario del patrimonio comune della societas, lo abbia gestito singolarmente e in tale occasione abbia provocato un danno alla res communis: anch’egli, infatti, non potrebbe gestire la propria parte senza gestire contemporaneamente quella degli altri. Per questa ragione, in tali circostanze, i consoci non possono pretendere dal socio-gestore più della diligenza abituale nei suoi affari e, in caso di danno arrecato alla res communis per una sua scelta gestionale sbagliata, non possono ottenerne la condanna giudiziale al risarcimento se non provandone una neglegentia ‘rebus suis non consueta’: a questo solo parametro concreto il giudice dovrà attenersi nella valutazione della colpa, non a quello astratto della diligenza del buon padre di famiglia. Ciò vale non solo se i soci esercitino per il risarcimento l’azione divisoria communi dividundo, ma anche se preferiscano esperire l’actio pro socio: infatti l’alternatività fra le due azioni nel caso di res communes sociorum, più volte rilevata dalle fonti (cfr. D. 17.2.31-34, 43, ma soprattutto D. 17.2.38.1264) induce a ritenere che anche alla seconda dovessero essere adattati i criteri di clemenza nella valutazione della colpa formulati per la prima. Che tale speciale considerazione per il socio «gestore» della res communis non fosse estranea alla mentalità dei giuristi del tempo, lo dimostra anche il fr. 51.pr. D. 17.2 (Ulp. 30 ad Sab.) ove, in un caso di furto della res communis da parte di un socio, si precisa che l’actio furti richiede il dolo ma che tale condizione psicologica è difficilmente rilevabile in colui che, essendo dominus partis, ‘iure potius sua re uti quam furti consilium inire’. | 147 |
In questa luce il fr. 72 D. 17.2 (= Iust. inst. 3.25.9) trova, a mio parere, una spiegazione coerente: | 148 |
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Socius socio etiam culpae nomine tenetur, id est desidiae atque neglegentiae. Culpa autem non ad exactissimam diligentiam dirigenda est: sufficit etenim talem diligentiam communibus rebus adhibere, qualem suis rebus adhibere solet, quia qui parum diligentem sibi socium adquirit, de se queri debet. |
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Infatti, osservando con attenzione il dato testuale, si nota che il passo non riguarda, come generalmente si sostiene265, l’attività del socio nel suo complesso ma, come occasionalmente rilevato da qualche esponente della dottrina più risalente266, si concentra sul problema della gestione di res communes della societas da parte di uno dei soci membri della comunione (‘sufficit etenim talem diligentiam communibus rebus adhibere, qualem suis rebus adhibere solet’)267. Il testo enuncia dunque il principio che al socio comproprietario e gerente di res communes societatis non può essere richiesta dagli altri soci, nella gestione del patrimonio comune, più della diligenza abituale nelle sue cose perché propter suam partem causam habuit gerendi, cioè non avrebbe potuto gestire la propria parte senza gestire contemporaneamente quella degli altri. Per questa ragione la diagnosi della responsabilità per colpa del socio che, nel corso della gestione della res communis, abbia recato danno alla societas si deve conformare al parametro della diligentia quam suis, che non è standard autonomo di responsabilità, ma mero indirizzo di «clemenza» nell’individuazione della colpa nel caso concreto, da applicarsi nei ristretti limiti sopra indicati. L’autore delle res cottidianae – sia questi Gaio o un postclassico – ha riportato questa regola forse senza capirne l’originario fondamento: per questo l’ha giustificata col principio de se queri debet268 (‘qui parum diligentem sibi socium adquirit de se queri debet’) che tuttavia, come già notato dal Pernice, non rappresenta nel contesto una vera e propria motivazione, ma si riduce alla «notazione di un dato di fatto e non va al di là di una magra consolazione»269. | 149 |
Tale interpretazione si colloca coerentemente nel quadro delle nostre conoscenze sui dibattiti giurisprudenziali dei primi secoli dell’impero (richiamati proprio da D. 17.2.72 = Iust. inst. 3.25.9) sull’opportunità di estendere la responsabilità del socio, fino ad allora limitata al dolo, al criterio più rigoroso della colpa. Lo stesso Paolo, in D. 10.2.25.16, sopra citato, sembra alludere ad una responsabilità del socio limitata al dolo. Se, infatti, da D. 17.2.52.2 (Ulp. 31 ad ed.) sappiamo che Celso propose di rendere responsabili per colpa il socio d’opera e il socio «gestore» di res communes, è del tutto verosimile che, nel corso dello stesso dibattito, lui stesso o un altro giurista del tempo possano aver rilevato l’opportunità di attenuare alla diligentia quam suis la responsabilità per colpa del socio-gestore di res communes, come nella comunione incidentale, in ragione della cd. ‘gestio propter suam partem’. | 150 |
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d. La diligentia quam suis presenta effetto attenuativo della responsabilità per colpa dell’obbligato anche in D. 24.3.24.5 in tema di dote, ove Ulpiano, chiedendosi se la moglie sia legittimata ad agire con l’actio rei uxoriae270 contro il consorte che abbia crudelmente maltrattato gli schiavi dotali, distingue fra un marito saevus tantum in servos uxoris, ed un marito crudele di natura, che non risparmi dalle sevizie nemmeno i propri schiavi. In teoria, secondo Ulpiano, l’azione sarebbe ammessa nel solo primo caso, perché nel secondo la regola della diligentia quam suis imposta al marito nell’amministrazione dei beni dotali è stata formalmente rispettata (‘diligentiam uxor eam demum ab eo exigat, quam rebus suis exiget, nec plus possit’). L’equità suggerisce, tuttavia, al giurista di estendere la legittimazione anche al secondo caso, perché la ‘saevitia, quae in propriis culpanda est, in alienis coercenda est’: | 151 |
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Si maritus saevus in servos dotales fuit, videndum, an de hoc possit conveniri. Et si quidem tantum in servos uxoris saevus fuit, constat eum teneri hoc nomine: si vero et in suos est natura talis, adhuc dicendum est immoderatam eius saevitiam hoc iudicio coercendam: quamvis enim diligentiam uxor eam demum ab eo exigat, quam rebus suis exiget, nec plus possit, attamen saevitia, quae in propriis culpanda est, in alienis coercenda est, hoc est in dotalibus. |
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Se D. 24.3.24.5 fosse l’unica attestazione delle fonti sulla diligentia quam suis del marito nell’amministrazione dei beni dotali, pochi dubbi potrebbero sussistere sulla sua originaria portata attenuativa della responsabilità di questi. Ma, come già visto (sub b), nel fr. 17.pr. del titolo 23.3, la diligentia quam suis del marito indica, all’opposto, il particolare grado di diligenza attiva a lui richiesta nell’amministrazione della dote, in ragione dell’ufficio protettivo assunto nei confronti della moglie, assimilabile a quello del tutore nei confronti del pupillo. Tuttavia l’origine giustinianea di questa assimilazione del marito al tutore è suggerita dal già citato C.I. 5.14.11.4, ove Giustiniano prevede il surplus di diligenza attiva a cui il marito, in ragione del suo ufficio protettivo, è tenuto nei confronti degli interessi economici della moglie. Inoltre che, in età classica, la diligentia quam suis del marito fosse intesa nel senso attenuante di D. 24.3.24.5 e non in quello aggravante di D. 23.3.17.pr., è attestato dalla disciplina stessa della dote in quest’epoca e dalla speciale natura degli obblighi del marito su di essa: è noto, infatti, che il patrimonio dotale, trasferito in piena proprietà al consorte al momento del matrimonio, rientrava tendenzialmente in perpetuo fra i suoi beni, salvo l’obbligo di restituzione nel caso di scioglimento del vincolo per divorzio o morte (cfr. D. 23.3.1). La restituzione riguardava, tuttavia, l’entità iniziale del patrimonio, non i frutti percepiti (frutti naturali, interessi maturati, canoni di locazione etc.) e gli eventuali incrementi (cfr. ad esempio D. 23.3.7.pr., 1), cosicché al marito non si chiedeva una gestione attiva come quella imposta al tutore, ma la mera conservazione del receptum in ragione dell’eventuale obbligo di restituzione. Così, in caso di scioglimento del vincolo, il marito o i suoi eredi dovevano restituire tutto quanto ricevuto in identica quantità e qualità (salvo il naturale deterioramento di alcuni beni, come gli indumenti): ciò non poneva problemi nel caso di beni fungibili, da restituire comunque nella quantità iniziale nonostante le eventuali perdite dipendenti, ad esempio, da cattiva gestione o da scelte sbagliate (cfr. ad esempio D. 23.3.42)271. Poteva, invece, risultare problematica la restituzione dei beni infungibili, nel caso di loro perimento o deterioramento: per evitare le difficoltà era usuale la previa aestimatio di questi beni, che trasferiva in capo al marito ogni rischio di perimento, anche fortuito (cfr. ad esempio D. 23.3.10.pr., C.I. 5.12.5)272. In mancanza, sin dall’età repubblicana, il marito rispondeva sino ai limiti della colpa, cosicché, ad esempio, Caio Gracco, per sententia di Publio Mucio Scevola, fu ritenuto responsabile della perdita dei beni della moglie Licinnia avvenuta nel corso della seditio in cui lui stesso aveva trovato la morte, perché si disse che questa era stata da lui provocata con colpa (D. 24.3.66.pr.). | 152 |
Collocando in tale panorama il dettato di D. 24.3.24.5, il beneficio della diligentia quam suis ivi richiamato si può spiegare alla luce della circostanza che, amministrando una cosa formalmente propria (benchè propria della moglie per considerazione sociale), il marito non può essere tenuto ad una diligenza superiore a quella abituale. | 153 |
Tuttavia lascia perplessi che, in età classica, possa essere stato previsto in via generale un obbligo – benché attenuato – di diligenza in capo ad un soggetto che, dei beni dotali, è proprietario pieno ed incondizionato: nella società e nella comunione, infatti, la regola della diligentia quam suis si spiega alla luce della circostanza che il socio e il comunista, gestendo la propria pars, gestiscono inevitabilmente anche quella degli altri (cd. gestio propter suam partem): ma il marito, pur in previsione di una restituzione e nonostante la concezione sociale della dote come patrimonio della donna destinato ai bisogni suoi e della sua famiglia273, gestisce pur sempre un patrimonio totalmente suo. | 154 |
La soluzione a questo problema va cercata nel contesto del passo ove, come si vedrà, la regola della diligentia quam suis del marito viene formulata in un ambito più specifico di quanto finora sia stato in dottrina prospettato. | 155 |
Nella Palingenesia Iuris Civilis di Otto Lenel, il fr. 24.5 rientra nel titolo ‘de re uxoria’ (edict. XX) sotto la rubrica ‘soluto matrimonio dos quemadmodum petatur’ (edict. 113), dopo una serie di testi dedicati a problematiche connesse alla legittimazione attiva della moglie o del pater (Ulp. n. 954 ss.) e alla possibilità di azione constante matrimonio nel caso di rischio per la solvibilità del marito (Ulp. n. 957). Il § 5 del fr. 24 è collocato in Ulp. n. 958, preceduto soltanto dal § 4, mentre i paragrafi precedenti dello stesso frammento sono collocati separatamente in Ulp. n. 957. | 156 |
Il § 4 del fr. 24 descrive il caso di un marito che, per volontà della moglie, abbia manomesso schiavi dotali. L’ossequio al desiderio della moglie lo esime ovviamente dall’obbligo di restituzione, al momento dello scioglimento del matrimonio, degli stessi schiavi o del loro valore. Tuttavia ci si chiede se alla moglie competa almeno la restituzione dei bona percepiti o dovuti ex obligatione dai liberti in base al diritto di patronato. Per Ulpiano la pretesa è fondata nel solo caso che la moglie, manifestando il desiderio della manomissione, abbia inteso, non donare gli schiavi al marito, ma contrarre con lui un negotium in tal senso. Allora, nell’actio rei uxoriae di restituzione, ella potrà pretendere quanto percepito a tale titolo dal marito ed egli sarà inoltre tenuto a prestare officio iudicis una cautio di restituzione di tutto ciò che in futuro riceverà ex bonis liberti vel ex obligatione: | 157 |
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Si vir voluntate mulieris servos dotales manumiserit, si quidem donare ei mulier voluit, nec de libertatis causa impositis ei praestandis tenebitur: quod si negotium inter eos gestum est, utique tenebitur, ut officio iudicis caveat restituturum se mulieri, quidquid ad eum ex bonis liberti vel ex obligatione pervenisset274. |
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Il testo riguarda dunque la condemnatio dell’actio rei uxoriae ed eventuali pretese della moglie, ulteriori rispetto alla mera restituzione della dote. Allo stesso campo attiene evidentemente il § 5, ove non viene formulato un criterio generale, ma ci si limita a chiedere se la moglie, attraverso l’actio rei uxoriae, possa anche pretendere, oltre alla restituzione della dote, un risarcimento per saevitiae commesse dal marito sugli schiavi dotali (anche indipendentemente da un loro danneggiamento fisico, che nel passo non è menzionato): ciò era del resto tecnicamente possibile vista la struttura della formula al quod aequius melius erit, che lasciava al iudex un ampio potere discrezionale, consentendogli di applicare retentiones a favore del marito, ma anche di aumentarne la condanna qualora particolari ragioni lo richiedessero. | 158 |
In questo specifico quadro deve essere collocata la notazione ulpianea sulla diligentia quam suis del marito, che non costituisce regola generale, ma è funzionale a precisare il limite della richiesta della moglie di includere nell’entità della condanna dell’actio rei uxoriae un risarcimento per le saevitiae commesse dal marito sugli schiavi dotali. | 159 |
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e. L’analisi dei testi ha dimostrato che il concetto di diligentia quam suis non può essere assunto in modo unitario275, ma costituisce un parametro variabile fondato sul confronto fra la scelta comportamentale dell’obbligato nell’adempimento dell’obbligazione e il suo atteggiamento in rebus suis, di cui i giuristi si servono per la diagnosi della sua responsabilità quando la natura del rapporto lo consenta e lo giustifichi. Così nella tutela (e nella dote di età giustiniaea), ove è richiesta all’obbligato una diligenza attiva tesa al massimo profitto nell’interesse del pupillo, il confronto fra il comportamento attuale del tutore e quello abituale o fra le scelte da lui assunte nella medesima circostanza in rebus pupilli e in rebus suis, può essere elemento diagnostico di responsabilità quando la diligentia in suis si sia nei fatti rivelata superiore. Viceversa, nella comunione e nella società (e, nei limiti indicati sopra, nella dote), la gestio propter suam partem dell’obbligato spinge i giuristi a limitare la sua responsabilità, conformandola al grado di diligenza abituale nelle sue cose. | 160 |
Una conferma di quanto detto si trae dal confronto con altre testimonianze giurisprudenziali che, pur non abitualmente richiamate sul tema, presentano identico modulo argomentativo e analogo criterio diagnostico di responsabilità: D. 19.1.54.pr. presenta il caso di uno schiavo venduto, che si sia rotto una gamba durante una mansione pericolosa impostagli dal venditore prima della traditio. Labeone esclude la responsabilità del venditore nel caso che la mansione fosse abituale per lo schiavo. Paolo dissente e rifiuta il principio, affidandosi al più sicuro criterio astratto della diligentia del buon padre di famiglia: | 161 |
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Lab. 2 pith.: Si servus quem vendideras iussu tuo aliquid fecit et ex eo crus fregit, ita demum ea res tuo periculo non est, si id imperasti, quod solebat ante venditionem facere, et si id imperasti, quod etiam non vendito servo imperaturus eras. Paulus: minime: nam si periculosam rem ante venditionem facere solitus est, culpa tua id factum esse videbitur: puta enim eum fuisse servum, qui per catadromum discendere aut in cloacam demitti solitus esset. Idem iuris erit, si eam rem imperare solitus fueris, quam prudens et diligens paterfamilias imperaturus ei servo non fuerit. … |
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In D. 7.9.1.3 Ulpiano fa dipendere la definizione concreta del contenuto dell’obbligo dell’usufruttuario (assunto con la cautio boni viri arbitratu) di non rendere deteriore la causa ususfructus, dall’atteggiamento che, in un caso simile, egli avrebbe assunto in re sua: | 162 |
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Ulp. 79 ad ed.: Cavere autem debet viri boni arbitratu perceptu iri usum fructum, hoc est non deteriorem se causam usus fructus facturum, quae in re sua faceret. |
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In D. 9.2.39 Pomponio fissa i limiti della reazione consentita al proprietario di un fondo contro l’irruzione di alienum pecus (oltrepassando i quali, sarà tenuto ex lege Aquilia) sulla base dell’entità che la reazione stessa avrebbe avuto se l’animale fosse stato suo: | 163 |
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Pomp. 17 ad Q. Muc.: Quintus Mucius scribit: equa cum in alieno pasceretur, in cogendo quod praegnas erat eiecit: quaerebatur, dominus eius possetne cum eo qui coegisset lege Aquilia agere, quia equam in iciendo ruperat. Si percussisset aut consulto vehementius egisset, visum est agere posse. Pomponius. Quamvis alienum pecus in agro suo quis deprehendit, sic illud expellere debet, quomodo si suum deprehendisset, quondam si quid ex ea re damnum cepit, habet proprias actiones. Itaque qui pecus alienum in agro suo deprehenderit, non iure id includit, nec agere illud aliter debet quam ut supra diximus quasi suum: sed vel abigere debet sine damno vel admonere dominum, ut suum recipiat. |
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In D. 13.6.5.4, infine, la responsabilità del comodatario per il perimento della cosa comodata viene eccezionalmente estesa al damnum fatale se, nella stessa circostanza, egli abbia potuto salvare la sua: | 164 |
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Ulp. 28 ad ed.: … proinde et si incendio vel ruina aliquid contigit vel aliquid damnum fatale, non tenebitur, nisi forte, cum possit res commodatas salvas facere, suas praetulit. |
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A questa regola non si sottrae la ‘lex quod Nerva’, a dispetto della lunga tradizione di studi che vi ha voluto sempre individuare la statuizione di un principio generale: per Nerva e Celso la tutela processuale del depositante, subordinata generalmente alla prova del dolo del convenuto, poteva di fatto e per ragioni di equità essere estesa a un caso di culpa latior quando, nel caso concreto, si rilevasse che la negligenza del depositario nella custodia era stata ancora maggiore della sua negligenza abituale. | 165 |
Nota in calce: * Come sempre ringrazio il professor Giovanni Negri per la sua disponibilità a discutere con me molte parti della ricerca. Ringrazio inoltre tutti i docenti e bibliotecari dell’Istituto di Storia del Diritto dell’Università Statale di Milano per avermi consentito di consultare con tranquillità i volumi della loro splendida biblioteca. 1 «La gestione d’affari altrui prohibente domino nella tradizione romanistica» (cur. R. Cavallaro), Milano, 2001. 2 Per notizie più approfondite sui codici civili europei ed extra-europei che contengono tale principio (oltre a quelli citati nel testo, Brasile, Costa Rica, Perù, Venezuela, Giappone etc.) e addirittura sulla sua recezione nel sistema di common law, H. Hausmaninger, Rechtsvergleichende Notizen zur «diligentia quam in suis», in «Festschrift H. Baltl», Innsbruck, 1978, p. 283 ss., e Id., Diligentia quam in suis: a standard of contractual liability from ancient roman to modern soviet law, in «Cornell International Law Journal», XVIII, 1985, p. 179 ss. 3 Sulla graduazione della colpa nella tradizione romanistica mi è stata di grande aiuto la ricerca, con amplissima e dettagliata bibliografia, di H.-J. Hoffmann, Die Abstufung der Fahrlässigkeit in der Rechtsgeschichte. Unter besonderer Berücksichtigung der culpa levissima, Berlin, 1968. 4 Questo veniva già notato da V. Arangio-Ruiz, Responsabilità contrattuale in diritto romano2, rist. Napoli, 1958, p. 257, il quale poi, però, ne faceva discendere con troppa facilità l’origine tarda dell’istituto. Sulla diligentia quam suis nella compilazione giustinianea, con conclusioni non sempre condivisibili, F.M. De Robertis, La disciplina della responsabilità contrattuale nel sistema della compilazione giustinianea, Bari, 1962, specie p. 32 ss., e La responsabilità contrattuale nel sistema della grande compilazione, I, Bari, 1983, p. 295 ss. 5 Cfr. anche Teoph. par. 3.14.3. 6 L’origine tarda dell’equiparazione del dolo alla culpa lata fu messa in luce per primo da A. De Medio, Studi sulla «culpa lata» in diritto romano, in «BIDR.», XVII, 1905, p. 5 ss. 7 Lo dice chiaramente lo sch. 2: Seme…wsai aÙtÒ:p£nu g¦r lanq£nei. 8 La stessa interpretazione di D. 16.3.32 viene richiamata in sch. 6 (Seme…wsai) a Bas. 29.1.5 (= D. 23.3.9.1) e in sch. 4 ('/Isqi) e 5 (Seme…wsai) a Bas. 13.1.5 (= D. 13.6.5.2). 9 Cfr. Bas. 42.3.25 (= D. 10.2.25.16) in tema di coeredità, Bas. 12.1.70 (= D. 17.2.72) in tema di società, Bas. 38.3.1 (= D. 27.3.1.pr.) in tema di tutela, Bas. 29.1.13 (= D. 23.3.17.pr.) e Bas. 28.8.24 (= D. 24.3.24.5) in tema di dote, Bas. 16.9.1 (= D. 7.9.1.pr., 1, 2, 3) e Bas. 42.3.16 (= D. 10.2.16. 4, 5, 6) in tema di usufrutto, Bas. 37.11.1 (= Nov. 72.8) in tema di tutela e curatela. 10 D. Nörr, Die Fahrlässigkeit im byzantinischen Vertragsrecht, München 1960, p. 18 ss. Sul tema specifico del deposito, F. Sitzia, Sulla responsabilità del depositario in diritto bizantino, in «BIDR.», LXXIV, 1971, p.189 ss. 11 Secondo questo frammento ulpianeo il damnum fatale, di solito non imputabile al comodatario, lo diviene se questi, pur potendo salvare le res commodatae, ha nelle stesse circostanze salvato le proprie a scapito di quelle, anteponendo il proprio interesse a quello del comodatario: (Ulp. 28 ad ed.) ‘… proinde et si incendio vel ruina aliquid contigit vel aliquid damnum fatale, non tenebitur, nisi forte, cum possit res commodatas salvas facere, suas praetulit’. Come si vedrà, la confusione qui rilevata fra D. 16.3.32 e D. 13.6.5.4 ricompare spesso durante tutto l’arco della tradizione romanistica. Su D. 13.6.5.4 nel quadro dei criteri di responsabilità del comodatario, si vedano ad esempio E. Domínguez López, La gratuidad y la utilidad como factores determinantes de la responsabilidad del comodatario, Granada, 2001, specie p. 257 s., e F. Pastori, Il commodato in diritto romano, Milano, 1995, p. 322 ss., a cui rinvio per la letteratura precedente. 12 «Monumenta Germaniae Historica», Legum sectio I, «Legum Nationum Germanicarum», tomus I, Hannoverae et Lipsiae, MDCCCCII, p. 6 ss. 13 L. Vis. V.5.3: ‘Si alicui aurum, argentum vel ornamenta vel species fuerint commendate, sive custodiende tradite aut forte vindende, id si perierit, vel in domo ipsius, qui accepit, cum rebus eius fuerit incendio concrematum, una cum testibus veniat et brevem det ille, qui conmendata susceperat, et prebeat sacramentum, quod nihil exinde suis profuisset conpendiis, et nihil cogatur exsolvere, excepto aurum et argentum, quod ardere non potuit …’. 14 L. Bai. 15.2-5: ‘Si cui aurum vel argentum vel ornamenta vel quaecumque species fuerint conmendatae, sive custodiendae traditae sint sive vendendae, et in domo ipsius cum rebus ipsius forsitan fuerit incendio concrematae, una cum testibus qui conmendata susceperat praebeat sacramenta, nihil exinde suis profuisse compendiis, et nihil cogatur exsolvere, excepto aurum et argentum, quod ardere non potuit …’. 15 L. Vis. V.5.5: ‘Qui commendata vel commodata susceperit et de ruina aut incendio vel hostilitatis naufragio seu quolibet simili casu sua omnia liberaverit et aliena perdiderit, quod accepit sine aliqua excusatione cogatur exsolvere. Si vero partem aliquam de rebus propriis liberasse cognoscitur, illi, cuius res secum habuerat, iuxta modum perdite rei vel liberate restituat, qualem iudex ratione deducta estimaverit portionem’. 16 Exceptiones legum romanarum Petri, in «Scritti Giuridici Preirneriani», II (cur. C.G. Mor), Milano, 1938, rist. Torino, 1980, p. 111 s. L’opera è stata ritenuta da taluni preirneriana e composta in Italia, da altri di origine francese e composta nella metà del XII secolo. La soluzione francese è oggi prevalente. Si tratta comunque di una collezione di opere preesistenti: si veda la letteratura in E. Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma, 2000, p. 246 ss. 17 «Corpus Legum sive Brachylogus iuris civilis», ed. E. Böcking, Berolini, 1829. Cfr. Cortese, Le grandi linee, cit., p. 249 s. 18 La responsabilità del depositario era, com’è noto, estesa alla culpa levis per espressa pattuizione delle parti (D. 16.3.1.6 e 35) se il depositario si fosse spontaneamente offerto di ricevere il deposito (D. 16.3.1.35) e se il contratto fosse stato stipulato nel suo mero interesse (D. 12.1.4). A queste ipotesi si aggiungeva, in base a D. 13.6.5.2 e D. 47.8.2.23, quella del deposito oneroso, ipotesi negata in linea di principio dai giuristi (D. 16.3.1.9) ma evidentemente diffusa nella pratica. Riproponendo tale contraddizione delle fonti romane, i glossatori ripetono il principio della gratuità del deposito ma, fra i casi di estensione della responsabilità del depositario alla culpa levis, menzionano anche quello del deposito oneroso: cfr. ad esempio Bulgari ad Digestorum titulum de diversis regulis iuris antiqui commentarius (ed. fr. G.C. Beckhaus), Bonnae, 1856, ad reg. XXIII (D. 50.17.23), p. 24, Placentini summa de actionum varietatibus XL De actione depositi, in «Quellen zur Geschichte des römisch-kanonischen Processes im Mittelalter» (cur. L. Wahrmund), IV.3, Anselmi De Orto Iuris civilis instrumentum (ed. V. Scialoja), in «Scripta Anecdota Antiquissimorum Glossatorum», II (cur. A. Gaudentio, I.B. Palmerio, F. Patetta, I. Tamassia, V. Scialoja), Bologna, 1892, LVIII, Depositi vel contra actio bonae fidei, p. 97. Così, nonostante le loro stesse affermazioni di principio, i glossatori giungono a riconoscere e legittimare una figura giuridica diffusa nella prassi ma mai ammessa dai giuristi. Diversamente Azone che, nella Summa super Codicem (in «Corpus Glossatorum iuris civilis», II (cur. M. Viora), Torino, 1966, tit. Depositi, p. 144), precisa che il depositario oneroso è tenuto per colpa lieve ‘sed non per actionem istam’. 19 ‘… sed culpa dolo proxima dolum repraesentat …’. 20 ‘placet … eum … culpae plane reddere rationem, sed eius quae dolo proxima est …’. 21 ‘… lata culpa plane dolo comparabitur …’. 22 ‘… magnam tamen neglegentiam placuit in doli crimine cadere’. 23 Sulla portata e il significato di queste citazioni nell’opera dei glossatori, da ultimo, cfr. A. Errera, Il concetto di scientia iuris dal 12. al 14. secolo: il ruolo della logica platonica e aristotelica nelle scuole giuridiche medievali, Milano, 2003. 24 Odofredus, Lectura super Digesto Veteri, II, Lugduni, 1552, rist. anast. in «Opera Iuridica Rariora» (cur. D. Maffei, E. Cortese, G. Rossi), II.2, Bologna 1968, Depositi vel contra, Quod nerva, p. 81. 25 Accursii Glossa in Digestum Vetus, in «Corpus Glossatorum iuris civilis», VII (cur. M. Viora), Torino, 1969, tit. Depositi vel contra, l. quod Nerva, p. 503. 26 ‘In lege Cornelia dolus pro facto accipitur, neque in hac lege culpa lata pro dolo accipitur. Quare si quis alto se praecipitaverit et super alium venerit eumque occiderit, aut putator, ex arbore cum ramum deiceret, non praeclamaverit et praetereuntem occiderit, ad huius legis coercitionem non pertinet’. 27 Azonis Summa super Codicem, in «Corpus Glossatorum iuris civilis», II, cit., tit. Depositi, p. 144. 28 Accursii Glossa in Digestum Vetus, cit., p. 503. 29 Loc. ult. cit. 30 La stessa estensione si trova espressa nella gl. ‘contractus’ a D. 50.17.23 (si veda oltre nel testo). 31 Era stata, infatti, l’osservazione di tale diligentia abituale a spingere l’altro socio a coinvolgerlo nell’affare comune. 32 La stessa soluzione viene applicata al coerede sulla base di D. 10.2.25.16. 33 Azonis Summa super Codicem, cit., tit. ‘pro socio’, p. 150 34 Accursii Glossa in Volumen, in «Corpus Glossatorum iuris civilis», XI (cur. M. Viora), Torino, 1969, gl. ‘solet’ a Iust. inst. 3.25.9, p. 96. 35 In «Corpus Glossatorum Iuris Civilis», I (cur. M. Viora), Torino, 1973, p. 59. 36 Analogo ragionamento, sotto forma di esemplificazioni pratiche, si trova in Odofredus, Lectura super Digesto veteri, cit., Quod Nerva (‘… Quid enim si rem suam tenebat in nocte in domo, alienam rem apud eum depositam tenebat extra domum?’) e diviene la comune linea interpretativa del testo: ricompare anche in Decretales D. Gregorii Papae IX, Parisiis, MDLXXXV, lib. III tit. XVI De deposito, cap. II casus, c. 1120 (‘Deposui penes te res meas: illae res amissae sunt, de rebus tuis nihil amisisti: quaeritur an tenearis mihi ad eas restituendas actione depositi …’). 37 Accursii Glossa in Digestum Vetus, cit., p. 437. 38 Azonis Summam super Codicem, cit., p. 144. 39 Accursii Glossa in Digestum Vetus, cit., p. 503. 40 Commentaria in quartum et quintum Codicis lib., Lugduni, MDLXXXV, ad lib. Quartum Codicis, tit. XXIV De act. pign., lex V Quae fortuitis, p. 80 verso. 41 Accursii Glossa in Digestum Vetus, cit., p. 503. 42 Accursii Glossa in Digestum Novum, in «Corpus Glossariorum Iuris Civilis», IX (cur. M.Viora), Torino, 1968, p. 589. 43 Accursii Glossa in Digestum Vetus, cit., p. 503. 44 Accursii Glossa in Digestum Novum, cit., p. 589. 45 In «Aspekte europäischer Rechtsgeschichte. Festgabe H. Coing», Frankfurt a.M., 1982, p. 87 ss. 46 Op. cit., p. 93 s. 47 Oltre alle opere già citate, si vedano ad esempio Odofredus, Lectura super Codice, I, Lugduni, MDLII, rist. anast. in «Opera Iuridica Rariora» (cur. D. Maffei, E. Cortese, G. Rossi), V.1, Bologna, 1968, tit. depositi vel contra, l.. Si incursu, p. 238, Placentinus, De personalibus actionibus, in «Corpus Glossatorum Iuris Civilis», I, cit., liber secundus, tit. XII De actione depositi, p. 104, e Decretales D. Gregorii Papae IX, cit., lib. III tit. XVI De deposito, cap. II casus, c. 1120. 48 P. de Bellapertica, Lectura Institutionum, Lugduni, MDXXXVI, rist. anast. in «Opera Iuridica Rariora» (cur. D. Maffei, E. Cortese, G. Rossi), VII, Bologna, 1972, p. 313 ss. 49 Op. cit., p. 320. 50 Op. ult. cit., p. 318. 51 Op. ult. cit., p. 316. 52 Op. ult. cit., p. 316-317. 53 Op. ult. cit., p. 316-317. 54 Tuttavia la si ritrova formulata in una quaestio di un trattato sul deposito di Vincenzo Carocci: Tractatus practicabiles de deposito, oblationibus et sequestro, Venetiis, MDCIII, quaest. II, p. 96: ‘Quaero an depositarius possit praeferre res suas alienis, quando ambas salvare non potest … respondetur si res suae erant viliores, non potest, facit l. quod nerva … si vero erant eiusdem pretiositatis, similiter non potest, si contractus est actus gratia recipientis …’. In forma di obbiezione, la si ritrova anche in una quaestio del Tractatus de contractibus et negotiationibus di Ludovico Lopez (II, Brixiae, MDXCVI, p. 241 s.). 55 Una delle prime formulazioni si trova in Cino da Pistoia, In Codicem et aliquot titulos primi Pandectarum tomi, id est, Digesti Veteris Doctissima Commentaria, Francoforti ad Moenum, MDLXXVIII, rist. anast. Torino, 1964, super Codic. lib. IIII, rubr. XXXIIII depositi, l. Si incursu, p. 250 A. 56 Lectura Institutionum, cit., p. 320-321. 57 Bartolus, Super Secunda ff. Veteris Expolita Commentaria, rist. anast. in Commentaria, II (cur. G. Polara), Roma, 1996, Depositi vel contra, Quod nerva, p. 101 ss. 58 Sul tema, da ultimo, U. Agnati, Il commento di Bartolo da Sassoferrato alla lex quod Nerva (D. 16.3.32). Introduzione, testi e annotazioni, Torino, 2004. 59 ‘Quod nerva’ (p. 101): ‘Si igitur intellegis principium huius legis in lata culpa male sequitur textus qui concludit quod fraude non caret, quoniam fraus venit ex animo, ut. l. i. supra de dolo (D. 4.3.1.2), lata culpa ex ignorantia’. 60 Baldo, invece, accetta la tesi di Petrus de Bellapertica, ma poi distingue fra un dolo presunto respectu probationis – quello di D. 4.3.1.2 – e un dolo presunto respectu essentiae sive qualitatis, quello della ‘lex quod nerva’ (ad lib. Quartum Codicis, lex V Quae fortuitis [C.I. 4.24.6] cit., p. 80 v., n. 23): ‘Adverte, dolus presumptus dicitur dupliciter, quandoque respectu probationis: ut supra de dolo l. dolum (D. 4.3.1.2), quandoque respectu essentiae sive qualitatis. Et ita sumitur in d.l. quod nerva …’. Anche Paolo di Castro accetta il presupposto del Bellapertica, ma poi distingue il dolo vero da quello presunto sostenendo che il primo si fonda su ‘praesumptiones consistentes in faciendo’, il secondo su ‘praesumptiones consistentes in non faciendo’: Pauli Castrensis in secundam Digesti Veteris partem, Lugduni, MDXLVI, tit. Depositi, Quod nerva, p. 106: ‘… dolus autem verus colligit ex presumptionibus consistentibus in faciendo de quibus habetur gl. in l. dolus C. de dolo et de illis loquitur titulus de dolo. Dolus presumptus qui dicitur culpa latior consistit in presumptionibus consistentibus in non faciendo quando quid obligatus est aliquid facere et sciens se teneri non facit’. 61 In questa definizione generale Bartolo distingue la culpa in sei species ma, in tutto il resto della trattazione, parla soltanto di cinque species, non riproponendo più la categoria della culpa levior. 62 Così espressamente Bartholomeus de Saliceto, Super Digesto Veteri, Lugduni, MDLX, quod nerva, p. 98: ‘Culpa est genus et dividitur in duas species. Quorum una transit in proprium nomen et vocatur dolus: alia stat in nomen generis sui et vocatur culpa … dolus autem dividitur in duas species, quia alius verus, alius presumptus’. 63 Bartolus, op. cit., ‘Quod nerva’ (p. 101). 64 Bartolus, op. cit., ‘Quod nerva’ 14 (p. 102 v.). 65 ‘Quod nerva’, cit., 13, p. 102 v. Ancora più puntuale la definizione di Baldo: Baldi Ubaldi Commentaria in quartum et quintum Codicis lib., Lugduni, MDLXXXV, ad lib. Quartum Codicis, lex V Quae fortuitis (C.I. 4.24.6), p. 80 v.: ‘latior culpa est consideratio in suis, inconsideratio in commissis. … Concedo igitur quod interpretatione latior culpa est dolus … quantum autem ad veritatem naturalium terminorum, latior culpa est medium inter haec duo, dolum et latam culpam et de utroque participat, de dolo, quantum ad notitiam futuri pericoli, quia quod cognoscit in se, cognoscit in alio, cum lata autem culpa participat quia non ex animo: nec ex voluntate laesio contingit: sed per ignaviam, id est, pigritiam’. 66 Analoga riflessione si trova in Cino da Pistoia che, a proposito della disciplina della locatio di horrea, a cui applica le regole valevoli per il deposito, distingue fra praesumptio maior e minor: In Codicem et aliquot titulos primi Pandectarum tomi, id est, Digesti Veteris Doctissima Commentaria, Francoforti ad Moenum, MDLXXVIII, rist. anast. Torino, 1964, Super Codic. l. IIII, tit. LXV De locato et conducto, l. Dominus (C.I. 4.65.1), p. 275 v.: ‘Secundo quaero, nunquid sit sufficiens praesumptio, ut condemnetur locator, postquam res suae salvae factae sunt? Videtur quod sic, ut hic. Tamen dicunt Doc. quod praesumptio quandoque est minor, quandoque est maior. Nam pone, quod res locatoris erant graves, forte quia in horreis habebat servum vel similia, res conductoris erant leves et viliores. Isto casu et similibus non est praesumptio sufficiens, ut ff. commod. l. si ut certo § quod vero’ (D. 13.6.5.4). 67 ‘Imppp. Gratianus Valentinianus et Theodorus AAA. Floro pp.: Sciant cuncti accusatores eam se rem deferre debere in publicam notionem, quae munita sit testibus idoneis vel instructa apertissimis documentis vel indiciis ad probationem indubitatis et luce clarioribus expedita’ (a. 382). 68 Bartolus, op. cit., ‘Quod nerva’ 15 (p. 102 v.). 69 Baldi Ubaldi in secundam Digesti Veteris partem commentaria, Venetiis, MDCXV, lib. XVI.3 depos., l. quod Nerva, nova additio, p. 107. 70 Cfr. il Tractatus de contractibus et negotiationibus di Ludovico Lopez (II, cit., p. 241 s.): l’autore, da una parte, rinvia al forum animi che, custodendo la veritas della coscienza, è in grado di giustificare ciò che dal forum exterior viene punito in via di presunzione; dall’altra rinvia al prudente apprezzamento del giudice, perché soltanto in concreto è possibile di volta in volta graduare, in un caso come questo, l’entità della riprovevolezza del comportamento dell’obbligato: ‘Ad id autem, quod in obiectione est additum … respondetur … primo, quod hoc intelligendum est in foro exteriori quoad praesumptionem, quia praesumetur intercessisse dolus, quae quidam praesumptio in foro animae cessat, ubi constat veritas, scilicet, quod utrasque simul non potuit salvare. Secondo dicitur, quod etiam in foro exteriori in hoc casu iudicium ferendum est a bono iudice arbitrando, an dolus intervenerit an non, quia non potest dari certa doctrina interdum super hoc, nisi ex rerum, et circustantiarum, et personarum qualitate iudicium prudentiale et arbitrarium desumatur’. Cfr. anche Lucii Ferraris Prompta Bibliotheca canonica, juridica, moralis, theologica nec non ascetica, polemica, rubricistica, historica, III, Romae, MDCCLXXXV, sv. Depositum, Depositarius, p. 53, che rivede in senso equitativo la soluzione tradizionale, da una parte riconoscendo al depositario che, in un caso fortuito, abbia sacrificato la propria cosa per la salvezza di quella affidata pretiosior, il diritto ad una compensatio damni, dall’altra consentendogli nella stessa circostanza di prendere la decisione opposta se teme di non ricevere tale compensatio per lo stato di insolvenza in cui versa il deponente. Inoltre, nel caso di beni di eguale valore, l’autore riconosce al depositario il diritto di preferire la propria cosa a quella affidata se, in un caso fortuito, non possa salvarle entrambe; la ratio di ciò è che ‘quia quisque magis seipsum dirigere debet quam proximum, adeoque depositarius potest potius res suas, quam alienas salvare, cum utraeque sunt aequalis valoris, eo vel maxime, quod depositum fit in gratiam solius deponentis’. 71 Bartolus, op. cit., Quod nerva, p. 101 v. Analogo ragionamento in Bartolus, Super Seconda ff. Veteris Expolita Commentaria, tit. Pro socio, l. socius socio, rist. in Commentaria, II (cur. G. Polara), cit., p. 109 v., e, ad esempio, in Bartholomeus de Saliceto, Super Digesto veteri, Lugduni, MDLX, quod nerva 8, p. 98, Philippus Decius, De regulis iuris, Lugduni, 1545, p. 140, e Huberti Giphanii Antinomiarum Iuris civilis sive disputationum libri quattuor, Francofurti, MDCV, Disputatio XXX, De societate et mandato, Obiectiones et resolutiones ad th. 9, p. 80. Diversamente, nel commento alla lex socius socio, Bartolomeo da Saliceto richiama ancora la soluzione della glossa: Super Digesto veteri, cit., tit. Pro socio, lex socius socio, p. 102: ‘In societate culpa levis est non adhibere eam diligentiam quam in rebus suis adhibebat tempore contractae societatis h. d. et notabiliter. Et hoc in societate quae procedit ex conventione, ut hic et insti. eo § si (I.3.25.9). In societate vero non procedente ex conventione sed incidentia quaedam levis culpa dicitur committi quando non adhibet talem diligentiam qualem adhibet in rebus suis tempore culpae commissae, ut supra fam. hercisc. l. heredes § non tantum dolum (D. 10.2.25.16). In aliis autem causis levis culpa dicitur committi quando non fit id quod diligens paterfamilias esset facturus, ut l. si putator supra ad l. aquil. (D. 9.2.31) et hoc no.’. 72 Bartolus, op. cit., ‘Quod nerva’ (p. 101 v). 73 Bartolus, op. cit., ‘Quod nerva’ (p. 101 s.). Giovanni de Blenosco (o Blanasco) aveva sostenuto questa tesi nel suo Tractaus de actionibus, ed. Bergierius, Lugduni, 1596. 74 II, cit., p. 242. 75 Codex Fabrianus definitionum forensium, et rerum in sacro Sabaudiae Senatu tractatarum, ad ordinem titulorum Codicis Justinianei, auctore Antonio Fabro, I, Neapoli, MDCCLXV, lib. IV tit. XXV De deposit., definitio IV, Depositarius non tenetur de culpa, nisi certis casibus, tenetur autem de dolo etiam praesumpto, p. 329. 76 E’ generale l’osservazione che i diversi gradi della culpa lata o levis, evidenziati con i comparativi latior o levior, non indichino autonome species di culpa e che il comparativo ‘latior’ riferito alla culpa nella ‘lex quod Nerva’ sia usato, come in molte espressioni del latino classico, ‘pro positivo’. Questa critica a Bartolo si estende anche ai trattatisti che, sul punto, seguono l’insegnamento dei «neoterici», cioè dei culti rappresentanti della nuova metodologia: cfr. T. Deciani, Tractatus Criminalis, I, Augustae Taurinorum, MDXCIII, Liber Primus, cap. IIII, De Dolo, 14-17, p. 4 verso s. e soprattutto cap. VI, De culpa, p. 6 verso ss. 77 Anche Alciato esprime le stesse critiche, ma la sua trattazione è meno ampia e completa: Alciati Commentarius in tit. De verb. sign., l. CCXXIII e l. CCXXVI, in Opera omnia, Francofurti, MDCXVII, c. 1098 s. e 1101 ss. 78 Tutti gli umanisti citano il verso dell’Eneide (1.228) che a proposito di Venere recita: ‘tristior et lachrymis oculos suffusa nitentes’ («afflitta e soffusa gli occhi splendenti di lacrime»). 79 Udalrici Zasii Singularium Responsorum liber I, in Opera omnia, V, Lugduni, MDL, rist. anast. Aalen, 1964, caput II. Culpam non dividi per speciem, ut habet communis Doctorum opinio, c. 33 s. 80 A. Faber, De erroribus pragmaticorum et interpretum iuris, II, Lugduni, MDL, decad. LXXVI, error II, De lectione et sentent. l. quod Nerva 32 De deposito, p. 305 ss., e Rationalia in tertiam partem Pandectarum, IV, De Deposito lib. XVI tit. III, l. 32 Quod Nerva, Aurelianae, MDCXXVI, p. 425 ss. Secondo l’autore la falsa interpretazione di Accursio dipende dalla lettera del testo che induce in errore se dall’inciso ‘non ad eum modum quem hominum natura desiderat’ non viene espunto il ‘non’. Senza la negazione il senso del testo sarebbe che il depositario diligentissimo che, in deposito, è diligente nella media, fraude non caret. Basandosi sulla corrotta lettera del testo, Accursio ‘motus evidenter falsa ratione’, avrebbe affermato ‘quod hic depositarius in culpa lata esse videatur, cum tamen non sit culpa lata, sed levis si quis minorem diligentiam praestet, quam quae a diligenti patre familias praestari solet’. Sull’opinione di Antonio Fabro cfr. infra, nel testo. 81 Pietro Fabro critica la soluzione di Accursio ma non emenda il testo: Petri Fabri Commentarius ex repetita eiusdem auctoris praelectione plurimis in locis auctus et accurate illustratus, Parisiis, MDLXXXV, ad tit. De diver. reg. iur. ant., ad l. XXIII Contractus, p. 115: ‘Ex quo sequitur, ut si in propriis rebus diligentissimus se praestet, fraude non careat, si ad eum duntaxat modum quem hominum natura desiderat, in deposito est diligens: quandoquidem in eo curam ad modum suum non praestat. Et retro, sicut sit in suis rebus negligentissimus, talem quoque se praestet in deposito, nihilomagis teneatur, quicquid Accursius existimet: nec enim hic subisse ulla fraus videtur. At quia non sua gratia accepit, sed eius a quo accepit, in eo solo tenetur, si quid dolo perierit’. 82 Analoga critica in Jacobi Gothofredi in titulum Pandectarum De diversis regulis iuris antiquis commentarius, Genevae, MDCLII, l. XXIII Contractus, p. 112 s.: dopo avere descritto la culpa lata della ‘lex quod Nerva’, l’autore passa a descrivere le altre forme di culpa (levis e levissima) e a questo proposito aggiunge la critica alla lettura di Accursio, ma anche all’emendazione di Antonio Fabro: cfr. infra, nel testo. 83 Sulla tesi di Antonio Fabro cfr. infra. 84 Petri Fabri Commentarius, cit., ad tit. De diver. reg. iur. ant., ad l. XXIII Contractus, p. 114 s. 85 In Titulim Pandectarum de diversis regulis iuris antiqui, cit., p. 112 s. 86 Nicolai Burgundii Commentarius de periculis et culpis praestandis in contractibus, Venetiis, MDCLXIV, p. 1 ss. 87 Jacobi Raevardi ad Titulum Pandectarum De diversis regulis juris antiqui Commentarius, in Opera omnia, I, Neapoli, MDCCLXXIX, p. 91 ss. Interessante l’osservazione che la discussione sul concetto di dolum depositarii intervenuta fra Nerva e Proculo e riportata da Celso troverebbe la sua giustificazione nell’interpretazione della formula depositi in factum, che menzionava espressamente il dolo (p.94): ‘Sunt etiam inter latas culpas aliae aliis latiores; et quo sint latiores, eo proximiores dolo sunt; omnis enim lata culpa dolus non est. Nam ex culpis latis quaedam comparari dolo malo dicuntur, … quaedam dolo malo proximae sunt, … Et quaedam denique, doli mali nomine continentur, c. 32 depositi. … Hinc intellegimus quid sibi voluerit Celsus, cum scriberet, inter Nervam et Proculum tractatum fuisse, an latior culpa dolus sit, c. 32 depositi. Quandoquidem enim interdum doli appellatione latam culpam contineri, interdum non contineri liquido satis constabat; illud duntaxat inter Proculum et Nervam videtur agitatum fuisse, an his verbis: Quod dolo malo eius factum esse dicetur, quae in eo edicto continentur quod de deposito proposuit Praetor, etiam lata culpa comprehendatur. Et cum Nerva latiorem culpam dolum esse diceret, id Proculo displicuit, inter dolum et latam culpam in causa depositi (de ea enim sola contenditur) nonnullam esse differentiam statuendam existimanti’. 88 Joannis D’Avezan Contractuum liber Prior, caput XXVII In deposito praestatur dolus et lata culpa, in «Novus Thesaurus Juris Civilis et Canonici ex collectione et museo Gerardi Meerman», IV, Hagae-Comitum, MDCCLII, p. 57. 89 Caroli Molinaei Commentarius in Codicem Sacratissimi Imperatoris Iustiniani, in Operum Tomus quartus, Parisiis, 1658, tit. XXXIV Depositi vel contra lib. IV, c. 231 ss. 90 Interpretationes Iuris Bartholomei Chesii, cap. XLV, ad § pen. Inst. tit. De locat. et cond. Culpa alia lata, alia levis, at aliqua sit levissima, Florentiae, 1650, p. 411. 91 Matthaei Wesembecii in Pandectas Iuris Civilis et Codicis Iustinianei Libros Commentarii olim Paratitla dicti, Patavij, 1658, Depositi vel contra, 14, p. 476. 92 Arnoldi Vinnii in quatuor libros Institutionum Imperialium Commentarius, I, Venetiis, MDCCXXX, lib. III tit. XV Quibus modis re contrahitur obligatio, de comodato, 7, p. 652. 93 Henrici Jacobi Zoesii Commentarius ad Digestorum seu Pandectarum Iuris Civilis Libros L, Venetiis, 1757, in lib. XVI Digest., tit. III depositi vel contra, 16-18, p. 430. 94 Chiare sul punto sono, ad esempio, le parole di Antonio Fabro, Rationalia, cit., p. 426: ‘Quid, obsecro, medium esse potest inter latam culpam et dolum? Debuerunt ergo potius interpretes distinguere latam culpam, quae ex nimis crassa et supina illa ignorantia nascitur, ab illa quae ex nimia negligentia, de qua in l. nimia negliegentia 226 de verb. sign., ubi dicitur magnam negligentiam culpam esse, magnam vero culpam dolum esse, ut intellegamus magnam culpam, quae negligentiam maximam pro causa habet, dolo proximam esse, eodemque fere in omnibus iure censeri, quo si verus dolus esset, quo sensu accipi etiam debet quod Nerva dicebat, latiorem culpam dolum esse, non quasi si vero, aut dolus verus, aut praesumptus, sed effectu magis inspecto quam mera rei veritate, et haec decidendi ratio fit’. Viceversa la culpa lata di D. 50.16.223.pr. non avrebbe nulla a che fare col dolo: ‘Atqui nihil est quod tam distet a dolo quam crassa illa et supina ignorantia, quae nec doli capax esse videtur’ (Rationalia, cit., p. 425). 95 La bipartizione di Zasio si ritrova in Ioachimus Mynsingerius, Apotelesma id est Corpus Perfectum Scholiarum ad Institutiones Iustinianeas pertinentium, Lugduni, MDCXXXIV, p. 126-128, in Jacobus Spiegel, Lexicon iuris civilis, Lugduni, MDXLVIIII, sv. ‘culpa lata’, e in Joannis Brunemanni Commentarius in Pandectarum Libros quinquaginta, II, Neapoli, MDCCLXXX, tit. III depositi vel contra, ad l. quod Nerva. 32.1, p. 809. La bipartizione viene anche recepita da Joannis Voet, Commentarius ad Pandectas, lib. XVI tit. III Depositi vel contra, I, Neapoli, MDCC, p. 666 n. 7. Ma in generale le qualificazioni di ‘culpa ignaviae’ e ‘versutiae’ non vengono altrimenti riproposte. Critiche alla bipartizione di Zasio, ad esempio, in Ioannis Corasii Miscellaneorum Iuris Civilis Liber Quartus, caput I In expositione culpae et graduum eius, 7, in Operum Ioannis Corasii Tomus Posterior, Witebergae, s.d., p. 673, e in Ioannis Calvini Lexicon Iuridicum Iuris Cesarei et Canonici, Coloniae Allobrogum, MDCXL, sv. ‘culpa’, p. 247 ss. 96 Zasius, Singularium responsorum liber I, in Opera omnia, V, Lugduni, MDL, rist. anast. Aalen, 1964, caput II Culpam non dividi per speciem, ut habet communis Doctorum opinio, c. 34 ss. Analogo ragionamento in Zasius, Super Infortiato, in Opera omnia, II, Lugduni, MDL, rist. anast. Aalen, 1964, tit. Soluto matrimonio, l. Si mora, 1-6, p. 62. 97 La stessa emendazione è proposta da Jacobus Curtius, EIKASTWN (id est Conjecturalium) Iuris Civilis Libri VI, II, caput XXVIII De lata et levi culpa; et correcta l. Quod Nerva 32 Depos., in «Thesaurus Iuris Romani continens rariora meliorum interpretum opuscola, cum praefatione Everardus Ottonis», V, Trajecti ad Rhenum, MDCCXXXV, c. 166-172. 98 Rationalia, cit., p. 426; analogo ragionamento nel De erroribus pragmaticorum, cit., p. 305 ss. 99 Iacobi Gothofredi in Titulum Pandectarum de diversis regulis iuris antiqui commentarius, cit., l. contractus 23, p. 112 s. 100 Cfr. infra la citazione delle opere. Analogo mi pare il ragionamento di G. Prousteau, Recitationes ad legem XXIII Contractus Dig. De reg. iur., in «Novus Thesaurus Juris Civilis et Canonici ex collectione et museo G. Meerman», III, Hagae-Comitum, 1752, p. 501, di Ludovicus Charonda, PEIQANWN seu Verisimilium Libri Tres, caput IX ad l. quod Nerva D. depositi, in «Thesaurus Juris Romani cum praefatione Everardi Ottonis», I2, Trajecti ad Rhenum, MDCCXXXIII, c.782s., di Calvinus, Lexicon Iuridicum, cit., sv. ‘culpa’, e di Voet, Commentariorum ad Pandectas, cit., lib. XVI tit. III Depositi vel contra, VII, p. 732. 101 Il passo è riportato anche in coll. 10.8, dove il riferimento alla culpa lata manca: si tratta evidentemente di un’interpolazione giustinianea. 102 Ioannis Corasii Miscellaneorum Iuris Civilis, cit., caput I, 15, p. 675. 103 Corasius si riferisce all’opera di Giovanni Igneo dal titolo Repetitio Legis Contractus ff. de RI, Lugduni, 1519. 104 Francisci Connani Commentarius Iuris Civilis, de deposito, cap. IV, 7, in Commentariorum Iuris civilis Libri X, Basileae, MDLXII, p. 685. 105 Hugonis Donelli Commentariorum in Codicem Justiniani, II, ad tit. XXXIV lib. IV C. Dep. vel contra, ad l. Si incursu I, 13 ss., in Opera Omnia, Florentiae, MDCCCXLVI, 1846, c. 492 ss. Sulla gradazione della culpa (da cui Donello elimina la categoria della culpa levissima identificata con la levis) si veda anche Hugonis Donelli Commentariorum in Codicem Justiniani, II, cit., ad tit. XXXV lib. IV C. Man. vel contra, ad l. Procuratorem 11 (C.I. 4.35.11), 14 ss., c. 637 ss., e soprattutto Hugonis Donelli Commentariorum de Iure Civili, lib. XVI cap. VII De culpa: quid sit, et quotuplex: tum quibus in contractibus praestanda sit, et quatenus, in Opera Omnia, cit., IV, c. 689 ss. 106 Ad tit. XXXIV lib. IV cit., 17-18, c. 494 s. 107 Viene ripresa, ad esempio, da Gregorius Lopez, in Animadversionum Juris Civilis Liber Singularis, caput XVII De culpa, quae dolo aequiparatur, et aliis culparum speciebus, ad l. quod Nerva 32 D. Depositi, in «Thesaurus Iuris Romani cum praefatione Everardi Ottonis», III, Trajecti ad Rhenum, MDCCXXXIII, c. 467 ss., e, fra i «culti» d’Olanda, da Gerardo Noodt, Commentarius ad Digesta seu Pandectas, lib. XVI tit. III Depositi vel contra, in Gerardi Noodt Operum Omnium Tomus II, Coloniae Agrippinae, MDCCLXIII, p. 292-293. 108 Francisci Duareni Opera Omnia, Volumen Primum quo in Digestorum Priores Quatuor Partes et in Justinianei Codicis Titulos aliquot Commentarii continentur, in tit. Soluto matrimonio, dos etc., caput IX Si mora, commento alle parole non etiam culpa, Lucae, MDCCLXV, p. 507. Maggiore influenza ha, invece, l’osservazione che il concetto di colpa non può essere oggetto di una gradazione troppo rigida, vivendo del caso concreto e del libero apprezzamento del giudice: ‘Hi autem gradus culpae docendi causa sic a nobis distinguuntur, cum tamen certissimum sit, nulla certa juris definitione eos comprehendi posse, sed judicis arbitrio relinquendos esse potius, qui pro re nata gravitatem et magnitudinem culpae ex circumstantiis aestimabit’ (p. 507). L’osservazione si trova anche, ad esempio, nel commentario de periculis et culpis di Nicola Burgundio (Commentarius de periculis et culpis praestandis in contractibus, cit., caput I, 7, p. 2). 109 Duarenus, op. ult. cit., p. 506. 110 Loc. ult. cit. 111 Op. ult. cit., p. 506-507. Cfr. anche, dello stesso autore, sulle species della culpa, ivi, in tit. De in litem iurando, XXXIII s., p. 390 ss. 112 Commentarius ad Digesta seu Pandectas, lib. XVI tit. III Depositi vel contra, cit., p. 292-293. Cfr. anche le osservazioni di G. Noodt sulla culpa in Probabilium Juris Civilis Liber Primus, caput IV, In actione pigneraticia plerumque praestari culpam levem, in commodato etiam levissimam, in Opera omnia, I, Coloniae Agrippinae, MDCCLXIII, p. 12 s. 113 Cfr. Iacobi Gothofredi In titulum Pandectarum de diversis regulis iuris antiquis, cit., p. 114, Arnoldi Vinnii in quattuor libros Institutionum Imperialium Commentarius, I, cit., lib. III tit. XXVI de societate, I, p. 170, e Prousteau, Recitationes ad legem XXIII Contractus Dig. De reg. iur., cit., p. 501 e 530. Usa l’espressione ‘culpa in abstracto’ anche Giovanni Corasius, in Miscellaneorum Iuris Civilis, cit., caput I, 5, p. 673. Da qui in poi l’espressione diventa comune: così nella letteratura dell’usus modernus Pandectarum, ad esempio, Joannis Brunemanni Commentarius in Pandectarum Libros quinquaginta, II, Neapoli, MDCCLXXX, lib. XVI tit. III depositi vel contra, ad l. quod Nerva 32, 1, p. 809, e lib. XVII tit. II pro socio, ad l. socius socio 72, p. 840, I.G. Heineccius, Elementa Iuris Civilis secundum ordinem Institutionum, in Operum ad Universam Iuris Prudentiam Tomus I, Neapoli, MDCCLVIIII, lib. II tit. XXVI, § DCCCCXXXXVII, p. 214, e Henricus de Cocceius, Tractatus de doli, culpae et neglegentiae praestationibus in quolibet negotio, in Exercitationum Curiosarum Palatinarum, Trajectinarum et Viadrinarum Volumen Primum, Lemgoviae, 1722, specie p. 61 ss., e poi sempre nella letteratura successiva. 114 Così lo definisce Prousteau, Recitationes, cit., p. 529. 115 La stessa tesi è riproposta da J. D’Avezan, Contractuum liber prior, cit., p. 57, e da Noodt, Comm. ad lib. XVII tit. Pro socio, p. 302 s. 116 Tradizionalista in questa soluzione, il Cujacio è d’altro canto innovativo nella sua proposta esegetica del fr. 32, che affronta per la prima volta in chiave palingenetica. Cfr. Jacobi Cujacii Paratitla in Libros L Digestorum sive Pandectarum, Ad librum XVI Depositi vel contra tit. III, l. 32, in Opera, III, Prati, MDCCCXXXVII, c. 434: l’autore rileva che il fr. 32 di Celso ‘proprie pertinet ad edictum de magistratibus conveniendis’ (cioè al tit. De tutelis § 127 De magistratibus conveniendis) ed è da collegare a D. 22.3.11 e D. 27.8.7, tratti anch’essi dall’XI libro dei digesta di Celso. In quest’ultimo frammento, a proposito della ‘cautio rem pupilli salvam fore’, Celso precisava che i magistrati che, nominando il tutore, ‘dolo fecerunt … ut minus pupillo caveretur’, sarebbero stati tenuti verso il pupillo in solidum, quelli invece che l’avessero fatto per colpa, sarebbero stati tenuti ‘pro virili portione’. Cujacio ipotizzava che, nel contesto, Celso si fosse domandato se la stessa obbligazione solidale prevista per il caso di dolo potesse sorgere a carico dei magistrati anche nel caso di culpa lata ed avesse a questo fine richiamato la disciplina del deposito (ove dolo e culpa lata sono equiparati) per dare risposta affermativa: ‘…quaesitum fuit, an si id admiserint lata culpa, singuli in solidum teneantur? Et ait teneri: nam et in deposito venit lata culpa. Itaque et in hoc negotio veniet. Sed Celsus occasione data ad tit. de magistr. conven. de eo tractavit …’. Analoga trattazione in Commentarius Jacobi Cujacii in tit. III De probation. et praes. lib. XXII Digest., ad l. XI, in Opera, VII, Prati, MDCCCXXXIX, c. 1394 s. La stessa prospettiva palingenetica compare in Iacobi Gotrofredi In titulum Pandectarum de diversis regulis iuris antiquis, cit., p. 111. 117 Jacobi Cujacii Notae et Scholia, caput XIV Quibus modis re contrahitur obligatio, in Opera, II, Prati, MDCCCXXXVI, c. 1091-1092. 118 Un riassunto delle ipotesi avanzate in Guillelmus Prousteau, Recitationes ad legem XXIII Contractus Dig. De reg. jur., cit., p. 529 s. 119 Hugonis Donelli Commentariorum de Iure Civili, IV, lib. XVI, cap. VII, cit., IX, c. 701. 120 Ricompare, ad esempio, in Jacopo Gotofredo (De diversis regulis iuris, cit., p. 114 s.), che giustifica la diversa configurazione dell’omissione di ‘diligentia quam suis’ nei due gruppi di rapporti colla maggiore riprovevolezza che assume l’infrazione di un obbligo, come quello di custodia, noto a tutti perché insito nella natura stessa del contratto di deposito, da quella degli obblighi meno evidenti che si fondano sugli altri rapporti: ‘Res ita concilianda est, imo jam ante conciliavimus: nempe latae omnino culpae adscribi in deposito, si quis non aequam deposito custodiendo, atque rebus suis custodiendis diligentiam impendat, quia diligentia illa custodiaria in deposito omnem praestationis modum continet: et communis hominum intelligentiae est, depositum custodire oportere, quandoquidem hic unus verusque finis est depositi: depositum enim est quod custodiendum datur. … Contra reliquae praestationes in caeteris contractibus non sunt communis intelligentiae, sed diligentiae et solertiae alicuius: ac nominatim aequa alienis in rebus quam in suis cura: sibi enim naturaliter quis mavult quam alteri’. Ricompare anche in Nicola Burgundio (Commentarius de periculis et culpis, cit., caput II Quid praestandum sit in deposito, 1, 2, 7, p. 4 ss. e caput IX Quid praestandum sit in societate, p. 38 ss.) ma con una variante: l’autore si richiama infatti anche alla tesi dei glossatori per cui, nel deposito, la diligentia quam suis si intende rispettata quando l’obbligato tratta con la stessa cura, dopo la stipulazione del contratto, le proprie cose e quelle affidate, nella società, invece, quando il socio mantiene, dopo la stipulazione del contratto, la diligenza che prima di essa dimostrava abitualmente in suis: (caput II, 7, p. 6 s.) ‘Diximus depositum fidei eius, apud quem deponitur, totum committendum esse, l. 1 in princ. D. depos. (D. 16.3.1.pr.). Ex quo sequitur, custodiam praestandam esse in hoc contractu, non ad eum modum, quem communis hominum natura desiderat, sed eum modum, quem is, qui depositum accepit, tenet in rebus suis, d.l. quod Nerva D. Depos. …Non est igitur quaerendum, quam diligens fuerit depositarius tempore contractus, et an postea negligentius custodire coeperit; sed hoc unum spectandum est, utrum tunc, cum res deposita vel amissa est, vel deterior facta, diligentiam eam adhibuerit depositarius, quam adhibeat suis rebus: quia nec is se ulterius videtur obligasse, nec alter ab eo maiorem curam exigisse’; (caput IX, 7, p. 40) ‘… socium quidem teneri ad modum suum, sicuti depositarius, sed modum aliter in deposito, aliter in societate aestimandum esse: quippe depositarius modum quem habet tempore contractus, mutare potest. … At vero socius modum, quem tenuit tempore contractus mutare non potest’. 121 Ma viene ad esempio riproposta da Gregorio Rosignolo, Novissima Praxis Theologicolegalis in Universas de Societatibus, Simonia, et de Commodato, et Deposito Controversias, Mediolani, MDCLXXXII, Contractus VII De societate, Praenotio IV Ex qua culpa teneatur socius erga alios socios, p. 7. 122 Il rilievo dato da Donello a questa distinzione è importante e nuovo, anche se sporadicamente essa era già apparsa in autori precedenti: compariva ad esempio in Giacomo Butrigario, ove era utilizzata per giustificare il rapporto fra la ‘lex quod Nerva’ e la ‘lex Si constante § Si maritus’ (D. 24.3.24.5): Iacobi Butrigarii super ff. Veteri, in In Primam et Secundam Veteris Digesti partem, II, Romae, MDCVI, rist. anast. in «Opera Iuridica Rariora», XIV (cur. D. Maffei, E. Cortese, G. Rossi), Bologna 1978, tit. Depositi, lex. XXXII quod nerva, p. 182: ‘Conclude ergo, quia aut ex animo aliquid egi hic est dolus, si praeter animum, tunc aut non adhibeo illam diligentiam quam in meis, sum in lata culpa et in fraude praesumpta, aut adhibeo illam quam in meis non tamen illam quam diligens, tunc aut adhibeo culpam in omittendo, ut quia omitto id quod faceret diligens, sum in levi culpa in omittendo, et non teneo, aut committo in faciendo, ut quia facio id quod diligens non faceret, tunc licet sit levis culpa, tamen aequiparatur latae in omittendo, et ideo teneo de lata culpa, ut d. l. si constante § si maritus (D. 24.3.24.5)’. 123 Si ha, per Donello, culpa in faciendo ‘ubi quid facies quo damni causam des’, in non faciendo ‘ubi omissis necessariis ad custodiam et conservationem rebus, res aut pereat aut deterior fiat’ (Hugonis Donelli Commentariorum de Iure Civili, IV, lib. XVI, cap. VII cit., XXVII, c. 723). 124 Loc. ult. cit. 125 ‘Qui contractus levem culpam recipiant eam tantum, quae in faciendo sit, non quae in negligendo, hi ex universo genere eorum, quos levem culpam recidere diximus, in summa sunt quinque, societas, dos, tutela, cura, rerum communio’: Hugonis Donelli Commentariorum de Iure Civili, IV, lib. XVI, cap. VII cit., XXVII, c. 723 s. Donello fonda questa affermazione sulla lex Contractus D. De reg. iur. (D. 50.17.23). 126 Commentariorum de Iure Civili, IV, lib. XVI, cap. VII cit., XXVIII, c. 724. 127 Così in D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9) e in D. 10.2.25.16, ma anche in D. 23.3.17.pr. e in D. 27.3.1.pr. 128 Già Jacopo Gotofredo aveva osservato che l’espressione ‘diligentia quam suis’ viene usata nei vari testi in modo diversificato e deve dunque essere distintamente interpretata a seconda del contesto: In titulum Pandectarum De diversis regulis iuris, cit., p. 141. 129 In Quatuor Libros Institutionum Imperialium Commentarius, II, cit., lib. III tit. XXVI De societate, p. 170. Da questa tesi non si discosta molto quella risalente a Georgius Frantzkius ricordata da Guillelmus Prousteau, Recitationes ad legem XXIII Contractus Dig. De reg. jur., cit., p. 530. 130 Cfr. Hugonis Grotii Institutiones Juris Hollandici e bellico in latinum sermonem translatae a Joanne van der Linden (ed. H.F.W.D. Fischer), Haarlem, 1962, liber III titulus VII De deposito, § 9, p. 113: ‘Si res perierit, vel deterior facta fuerit, depositarius ad resarciendum damnum non tenetur, nisi depositarii dolo vel lata culpa damnum acciderit. Culpae vero reus depositarius non habetur, si quid neglexerit, quod homo sapiens et prudens non omisisset (quisque enim praevidere debet, cui rem custodiendam tradit, nec aequum est, eum, qui gratis beneficium praestat, strictissime obligatum fore) sed si rem depositam non custodiverat, uti res proprias custodire solitus erat, omne damnum, quod ex hac culpa passim fuerim, resarcire tenetur …’; liber III titulus XXI de societate, § 7, p. 138: ‘Singuli socii eorumque heredes actionem habent adversus singulos socios eorumque heredes, … ad resarciendum omne damnum, quod quis dolo vel culpa socii passus fuit; hoc autem ita est intelligendum, ut major diligentia vel prudentia ab eo non requiratur, quam in rebus suis adhibere solet; societas enim utriusque gratia contrahitur’. 131 Nelle prime codificazioni settecentesche il principio dell’utilitas e la tripartizione della colpa sono, invece, ancora pienamente attestati: cfr. infra. 132 All’autorità della tradizione fa riferimento espresso, ad esempio, Pothier quando tenta di reagire alle critiche dissacranti rivolte dall’avvocato Le Brun (cfr. infra, nel testo) alla dottrina tradizionale della colpa: Appendice au Traité des obligations. De la prestation des fautes. Observation générale sur le précédent traité et sur les suivants, in Œuvres de Pothier annotées et mises en corrélation avec le Code civil et la législation actuelle par M. Bugnet2, II, Paris, 1861, p. 498: «C’est la doctrine des Accurse, des Alciat, des Duaren, des d’Avezan, des Vinnius, des Heineccius; et ceux mêmes qui se sont le plus appliqués à combattre les opinions communément reçues, et à proposer des nouveautés, tel qu’Antoine Faber, ne s’en sont jamais écartés»; p. 500: «Je n’entremprendrai pas point de réfuter les arguments par lesquels l’auteur de la dissertation combat l’ancienne doctrine, et prétend établir la sienne … La réponse à ceux qu’il tire des différentes lois rapportées dans sa dissertation, se trouve dans les notes que j’ai faites sur ces lois dans mon ouvrage sur les Pandectes; je les ai tirées de Cujas et d’autres interprètes de réputation». 133 Nel seguito del titolo Domat ripropone la dottrina tradizionale della responsabilità del depositario: imputazione di dolo e culpa lata intesa nei due sensi di negligenza inescusabile e omissione di diligentia quam suis (liv. I, tit. VII, sec. III, 3, 4, p. 80), attenuazione del livello di diligenza richiesta nel caso di deposito presso «une persone de peu de sens, ou un mineur sans expérience, ou un homme négligent en ses propres affaires, come seroit un prodigue» (liv. I, tit. VII, sec. III, 5, p. 80). 134 Les loix civiles dans leur ordre naturel, le droit public, et legum delectus, I, Paris, MDCCXLV, liv. I, tit. VII Du dépôt et du séquestre, sec. III Des engagements du dépositaire et de ses héritiers, 2, p. 80. 135 Œuvres (cur. M. Dupin Ainé), III, Bruxelles, MDCCCXXXI, p. 87: nel seguito Pothier ripropone la dottrina tradizionale, addirittura accettandone anche le conseguenza più estreme e criticate, come l’aggravamento di responsabilità del «diligentissimo» (p. 46). Analoghe considerazioni vengono riproposte nella trattazione di Pothier sulle «obbligazioni di dare» in Trattato delle obbligazioni3, I, Napoli, 1832, p. 82 s. 136 Sotto questo profilo i due autori hanno direttamente influenzato la formulazione dell’art. 1927 del Codice Civile francese e dei codici che da questo modello dipendono, prima fra tutte quella dell’art. 1843 del codice civile italiano del 1865. Cfr. infra. 137 In Henrici de Cocceji Exercitationum Curiosarum, cit. 138 Dissertatio prima. De praestatione doli et culpae in contractibus juxta communem opinionem, in Henrici de Cocceji Exercitationum, cit., p. 59 ss. 139 Disputatio Secunda. De praestatione doli, culpae et neglegentiae in contractibus: ubi nova sententia deducitur et demonstratur, in Henrici de Cocceji Exercitationum, cit., p. 77 ss. 140 Secondo questa tesi, il depositario risponderebbe di culpa in concreto per omissione di diligentia quam suis anche se negligentissimus in suis. Coccejus ne evidenzia l’illogicità: infatti, ‘si … est negligentissimus in suis, non potest negligentior esse in rebus alterius, aut magis eas negligere; esset enim negligentia in suis maxima … Nihil ergo insulsius est dictu, quam minorem diligentiam posse quem adhibere rebus alienis, quam suis, qui in suis plane nullam adhibet diligentiam. Non enim diligentia aliqua est minor nulla: nulla autem est diligentia negligentissimi’ (Propositio IX, p. 67). 141 Henrici de Cocceji Exercitationum, cit., p. 67 s. 142 Propositio X: In reliquis contractibus, uti, in quibus utriusque utilitas versatur, consideratur diligentia et culpa in abstracto, p. 69. 143 Questa è la tesi già formulata da Bartolo: cfr. supra, § 4. 144 Disputatio Secunda De praestatione doli, culpae et neglegentiae in contractibus: ubi nova sententia deducitur et demonstratur, in Exercitationum, cit., p. 92 s. 145 De usu pratico doctrinae difficillimae juris romani de culparum praestatione in contractibus … praeside Dn. Cristiano Thomasio, Jcto, et facultate juridicae h.t. decano, pro licentia, summos in utroque iure honoris et privilegia doctoralia rite capessendi publice et solenniter submittit Christianus Gottlob Kreß Advocat. Immatric. Misenensis, ad d. VI Junii anno MDCCV, Halae, 1731: l’opera in dottrina è stata spesso erroneamente attribuita al Thomasius. 146 Essai sur la prestation des fautes, ou l’on examine combien les lois romaines en distinguent d’espèces, par Le Brun, avocat au parlement de Paris, Paris, 1764, ripubblicata in calce alla recensione del Pothier (Appendice au Traité des obligations. De la prestation des fautes) in Œuvres de Pothier, cit., II, p. 503 ss. Altra recensione al saggio di Le Brun è quella di J.C. Hasse nell’appendice III del volume di Die Culpa des römischen Recht. Eine Civilistische Abhandlung2 (cur. A. Bethmann-Hollweg), Bonn, 1838, p. 504 ss. 147 De usu pratico doctrinae difficillimae, cit., § XLI, p. 37. Per Kreß il principio dell’utilitas, invenzione di Africano, non fu generale nemmeno all’epoca della sua presunta formazione, essendo piuttosto opinione isolata di un ‘juriconsultus non optimus nec acutissimus, a jurisconsultis reliquis plerisque neglecta’ (§ XL-XLI, p. 36); la sua intrinseca illogicità è attestata dalla regola ‘in lege Aquilia et levissima culpa venit’, visto che l’assenza di qualsiasi utilità da parte di colui ‘cujus rem citra contractum corrumpo’, non impedisce in capo al danneggiante una responsabilità per culpa levissima (§ XLI, p. 37); il sistema stesso presenta al suo interno elementi di indubbia contraddittorietà: la limitazione della responsabilità del depositario al dolo e alla colpa lata non resiste, infatti, alla critica di fronte all’evidente disparità di trattamento del mandatario che, pur non traendo dal contratto alcuna utilità, risponde per colpa lieve ed è tenuto a un’exactissima diligentia (§ XLII, p. 38); la stessa regola della diligentia quam suis del socio appare al Kreß profondamente illogica ed iniqua, se si pensa che l’attenuazione della responsabilità fondata sul principio ‘de se queri debet’ tralascia il dato di fatto che ‘non semper neglegentiae adscribi potest, si quis socium adsumat parum diligentem, cum homines possint mores suos dissimulare’ (§ XLV, p. 41). La regola generale, valevole per ogni obbligazione, deve essere dunque questa: ‘dolum et culpam quamcunque meam mihi non debere prodesse et alteri nocere, sive res ejus ex contractu penes me sit, sive citra contractum’ (§ XLI, p.37). Le cose altrui, infatti, ‘quocumque ex contractu penes me sint’, vanno sempre custodite con maggior diligenza delle proprie perchè ‘in rebus propriis arbitrium habeam, eas pro lubitu perdendi, ergo multo magis negligendi, in alienis autem is, qui res suas mihi relinquit, regulariter non fidem solum meam sed et industriam respexisse videtur’ (§ XLI, p.37). Alla medesima dissoluzione del principio dell’utilitas giunge in Francia D. Le Brun che, a proposito della tripartizione della colpa, afferma anche che si tratta di una sottigliezza giuridica pericolosa nella pratica, che gli interpreti hanno dovuto insegnare «plusieurs absurdités pour accorder les lois avec leur système» e che la concettualizzazione della culpa levissima presuppone che, nei contratti stipulati nell’interesse di entrambe le parti, ove si risponde per culpa levis, vi sia un margine di negligenza ammesso (Essai, cit., § II, p. 506-507). Già Pufendorf (De jure naturae et gentium, Zweiter Teil, Text [liber quintus - liber octavus], cur. F. Böhling, Berlin, 1998, liber V, § 7 de deposito, p. 478 ss.), alla tradizionale limitazione della responsabilità del depositario al dolo e alla colpa lata, opponeva l’idea che soltanto una diligenza in astratto, qualem communiter diligentes homines circa proprias res solent adhibere, potesse ripagare appieno i sentimenti di fiducia e di amicizia che il depositante ripone nel depositario (‘nemo enim fere deponit, nisi apud amicum, aut de cujus probitate bene juducat’). Questo non comportava per l’autore un eccessivo aggravamento di responsabilità, perché al depositario non viene mai richiesta una diligenza attiva (‘ut quis noctu diuque rei custos assideat’), ma soltanto l’apprestamento di un locus munitissimus ove la cosa possa riposare al sicuro. 148 Questa soluzione del Pufendorf viene riproposta dal Kreß (De usu pratico doctrinae difficillimae, cit., § XLIV p. 40-41) che dubita però della correttezza di sminuire la diligentia quam suis in dovere morale: infatti ‘Nuda humanitatis officia dicuntur, ubi nulla adfuit conventio’ ma, nel caso esaminato, esiste una conventio fra le parti e, a favore del depositario che abbia sacrificato la propria cosa per salvare quella affidata, sorge il diritto al risarcimento del danno. 149 De jure naturae et gentium, cit., V.7, p. 479. 150 Essai, cit., § XIII, p. 525. 151 Essai, cit., § 1, p. 504. 152 Essai, cit., § XIII, p. 525. 153 Così il Codex Maximilianeus Bavaricus civilis («CMBC.») del 1756, codificazione di diritto comune con valore sussidiario rispetto al diritto degli statuti (cfr. H.-J. Hoffmann, Die Abstufung der Fahrlässigkeit, cit., p. 157 ss.): qui la diligentia quam suis compare in tema di società (op. ult. cit., p. 173 e nt. 1133), non in tema di deposito (ibid., p. 175). Ma è significativo che nel progetto di revisione del «CMBC.» del 1811 (Der Entwurf eines Bürgerlichen Gesetzbuchs für das Königreich Bayern von 1811. Revidirter Codex Maximilianeus Bavaricus civilis (cur. W. Demel, W. Schubert), Ebelsbach, 1986), pur rimanendo la tradizionale tripartizione della colpa (op. ult. cit., p. 436 § 26), venga eliminata la colpa in concreto dalla società perché fonte di eccessive incertezze interpretative (op. ult. cit., Motifs zum Vierten Teil, § 6 c., p. 632). Soluzioni analoghe compaiono nel progetto del Codex Theresianus e nelle sue rielaborazioni (cfr. H.-J. Hoffmann, op. cit., p. 157 ss. e 173). La tricotomia tradizionale e il principio dell’utilitas compaiono ancora nell’ «ALR.» (Allgemeines Landrecht für die Preußischen Staaten) del 1794 (cfr. H.-J. Hoffmann, op. cit., p. 157 ss.). Qui la diligentia quam suis ha un amplissimo campo di applicazione: I.3 § 25 (norma generale che stabilisce che il grado di imputazione viene valutato in base a determinate qualità delle parti soltanto nei delitti e nei contratti che presuppongono un particolare affidamento), I.13 §§ 55-58 (diligentia quam suis nel mandato gratuito), I.14 § 11 ss., 21 ss. (diligentia quam suis nel deposito), I.17 § 211-214 (diligentia quam suis nella società), II.1 § 554-555 (diligentia quam suis nella dote) e II.18 § 275 (diligentia quam suis nella tutela). 154 L’art. 1137, I comma, abbandona espressamente il principio dell’utilitas, obbligando ogni debitore alla diligenza del buon padre di famiglia: «L’obligation de veiller à la conservation de la chose, soit que la convention n’ait pour objet que l’utilité de l’une des parties, soit qu’elle ait pour objet leur utilité commune, soumet celui qui en est chargé à y apporter tous les soins d’un bon père de famille». Ma il secondo comma confonde le idee dicendo che «Cette obligation est plus ou moins étendue relativement à certains contrats, dont les effects, à cet égard, sont expliqués sous les titres qui les concernent», a causa della graduazione della diligenza ivi suggerita («obligation … plus ou moins étendue»). Per i motivi della rinuncia legislativa alla tripartizione della colpa «plus ingénieuse qu’utile dans la pratique», cfr. M. Bigot-Préameneu, Exposé de Motifs, in Locré, Législation civile, commerciale et criminelle ou commentaire et complément des codes français, VI, Bruxelles, 1836, p. 153 s. Sulle ragioni storiche di tali formulazioni, C.A. Cannata, Dai giuristi ai codici, dai codici ai giuristi (Le regole sulla responsabilità contrattuale da Pothier al codice civile italiano del 1942), in «Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura civile», XXXV, 1981, p. 993 ss. (= Leggi, codici, giuristi, cur. L. Vacca, Milano, 1982, p. 227 ss.). Fra i commentatori del codice civile si sviluppò sul punto un ampio dibattito fra chi riteneva abrogati i principii tradizionali e chi li considerava ancora vigenti: ampio sul tema il commento di Troplong all’art.1624 in tema di vendita (Le droit civil expliqué suivant l’ordre des articles du Code. De la vente ou commentaire du titre VI du livre III du Code Napoléon5, Paris, 1856, I, p. 465 ss. nt. 361 ss), all’art. 1850 in tema di società (Le droit civil expliqué suivant l’ordre du Code. Du contrat de société ou commentaire des titres IX et X du code civil, Bruxelles, 1846, p. 205 ss.), all’art. 1732 in tema di locazione (Le droit civil expliqué suivant l’ordre du Code. De l’échange et du louage ou commentaire des titres VII et VIII du code civil, Bruxelles, 1845, p. 203). Si vedano. anche C.B.M. Touillier, Le droit civil français, suivant l’ordre du code4, VI, Bruxelles, 1824, liv. III tit. III, Chap. III De l’effet des obligations, Sec. IV, §I Des causes et des fautes pour lesquelles sont dus les dommages et intéréts, n. 230 ss., 201 ss., C. Demolombe, Traité des contrats ou des obligations conventionnelles en général, I, Paris, 1868, livre III titre III Chap. III B. De l’obligation de conserver la chose jusqu’à la livraison, n. 405 ss., F. Laurent, Principes de droit civil, XVI, Bruxelles-Paris, 1878, § IV, De l’inexécution des obligations, n. 1 de la faute, n. 213 ss., p. 273 ss., L. Larombière, Theorie et pratique des obligations ou commentaire des titres III et IV, livre III du code civil art. 1101 a 1386, I, Paris, 1885, art. 1137, p. 413 ss., M. Duranton, Cours de droit civil, suivant le code français4, VI, Bruxelles, 1841, livre III, titre III, Section II de l’obligation de donner, n. 397 ss., p. 138 ss., e C. Aubry, C. Rau, Cours de droit civil français d’après la méthode de Zachariae6, IV, Paris, 1942, § 308 p. 145 ss. n. 26. 155 Per il § MCCXCV dell’ «ABGB.» ciascuno ha il diritto di esigere dal danneggiante la riparazione del danno arrecato con colpa, sia che questo sia derivato dall’inadempimento di un obbligo nascente da contratto, sia indipendentemente da esso. Per il § MCCXCVII chiunque abbia l’uso della ragione si presume capace di usare quel grado di diligenza e di attenzione che suole impiegarsi da chi non manca di queste facoltà e, se non le usa, è considerato in colpa (cfr. H.-J. Hoffmann, Die Abstufung der Fahrlässigkeit, cit., p.159 ss.). Le ragioni dell’abbandono dei principii tradizionali sono spiegate dal von Zeiller (relatore della revisione finale del codice) nel «Commentario sul codice civile universale per tutti gli stati ereditari tedeschi della monarchia austriaca», V, Milano, 1816, § MCCXCV ss., p. 297 ss.: l’uniformità del concetto di colpa e diligenza è – secondo l’autore – più conforme sia al diritto naturale (infatti «ciascuno ha facoltà di esigere dall’altro che lesi non vengano i di lui diritti, tanto ne’ rapporti di contratto, che fuori di essi»: p. 300), sia alla vera teoria del diritto romano, alterata in seguito dagli interpreti (p. 299). 156 Art. 1224: «La diligenza che si deve impiegare nell’adempimento dell’obbligazione, abbia questa per oggetto l’utilità di una delle parti o d’ambedue, è sempre quella di un buon padre di famiglia, salvo il caso di deposito accennato all’art. 1843. Questa regola per altro si deve applicare con maggiore o minor rigore, secondo le norme contenute in questo codice». Per un interessante studio comparato «d’epoca» fra l’art 1224 del Codice Pisanelli e la corrispondente disciplina del diritto romano, della codificazione francese e del Codice Civile albertino, T. Ferrarotti, Commentario teorico pratico comparato al Codice Civile italiano, VIII, Torino, s.d., p. 259 ss. 157 Diversamente il «BGB.» sassone del 1865, pur eliminando la culpa levissima, mantiene in certa misura la gradazione della colpa e il principio dell’utilitas: per il § 728 («Bürgerliches Gesetzbuch für das königreich Sachsen», Aalen, 1973, p. 88) la responsabilità, di solito estesa al dolo, alla colpa grave e a quella lieve, si riduce al dolo e alla colpa grave per chi non tragga alcun vantaggio dal rapporto. Cfr. H.-J. Hoffmann, Die Abstufung der Fahrlässigkeit, cit., p. 160 ss. 158 La disciplina del contratto di deposito è così consolidata nella tradizione dottrinale e codicistica che ad essa, ad esempio, si rinvia senza commenti nei lavori preparatori del Codice Civile italiano del 1865: «Raccolta dei lavori preparatori del Codice Civile del Regno d’Italia», I, Palermo-Napoli, 1866, p. 133 e 353. 159 Praticamente identiche nel contenuto alle citate norme francesi sono le norme corrispondenti dei codici italiani preunitari (in «Collezione completa dei moderni Codici Civili degli Stati d’Italia», Torino, 1845): Codice pel Regno delle Due Sicilie (1819), art. 1799-1800; Codice Civile per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla (1820), art. 1988-1989; Codice Civile della Repubblica e del Cantone del Ticino (1837), art. 1046, 1047; Codice Civile per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna (1838), art. 1961-1962; Codice Civile per gli Stati Estensi (1852), art. 1972, 1973. Per altre norme codicistiche europee ed extra-europee esemplate su quelle francesi, cfr. H. Hausmaninger, Rechtsvergleichende Notizen, cit., p. 283 ss. e Diligentia quam in suis, cit., p. 179 ss. 160 Sull’applicazione della diligentia quam suis o della comune diligenza del buon padre di famiglia ci fu, nella seduta del 28 nevoso anno XII, una discussione fra Defermon e Portalis (Discours, rapports et travaux inédits sur le Code Civil par Jean-Étienne-Marie Portalis, publ. par F. Portalis, Paris, 1844, p. 417): alla critica del primo per cui «cet article n’est pas assez clair et ne paraît pas soumettre le dépositaire à des soins assez étendus envers le depôt qu’il a reçu», il secondo rispose che «un dépositaire qui rend un service d’ami ne doit pas être soumis à une responsabilité aussi étendue» e che se il depositante «place mal sa confiance, il commet une faute qui compense et qui couvre dans une certaine mesure la négligence du dépositaire»: così la diligentia quam suis nel contratto di deposito fu mantenuta. 161 V. Simoncelli, Contributo alla teoria della custodia nel diritto civile italiano, in «RISG.», XIV, 1892, p. 3 ss., S. Perozzi, La culpa in concreto nel diritto civile. A proposito di una recente pubblicazione, in «Temi Veneta», XVII, 1894, ora in Scritti Giuridici (cur. U. Brasiello), II, Servitù e obbligazioni, Milano, 1948, p. 639 ss., e F. Ricci, Corso teorico-pratico di diritto civile3, IX, Dei contratti in specie (continuazione e fine), rist. Roma-Torino-Napoli, 1923, p. 376 ss. 162 V. Polacco, La culpa in concreto nel vigente diritto civile italiano, Padova, 1894, passim, G.P. Chironi, La colpa nel diritto civile odierno2, Colpa contrattuale, Torino, 1897, p. 86 s. nt. 2, G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano7, II, rist. Firenze, 1924, p. 33 ss., e L. Sertorio, La «culpa in concreto» nel diritto romano e nel diritto odierno, Torino, 1914, soprattutto p. 263 ss. 163 Sul tema R. Cavallaro, Dalla diligentia quam suis alla culpa in abstracto nel contratto di deposito. Saggio sul diritto romano nella giurisprudenza dei tribunali italiani moderni, tesi di laurea discussa nell’aa. 1991-1992 nell’Università Cattolica di Milano, Relatore il prof. Giovanni Negri. 164 Ad esempio H. Mazeaud, L. Mazeaud, A. Tunc, Traité théorique et pratique de la responsabilité civile délictuelle et contractuelle6, I, Paris, 1965, p. 826, N.D. De la Batie, Appréciation in abstracto et appréciation in concreto en droit civil français, Paris, 1965, p. 74 s., M. Planiol, G. Ripert, Traité pratique de droit civil français, XI, Paris, 1954, rist. Bad Feilnbach, 1995, p. 509 ss., e J. Huet, Les principaux contrats spéciaux, in «Traité de droit civil» (sous la direction de Jacques Ghestin), Paris, 1996, p. 1440 ss. 165 Commentario sul Codice Civile Universale, cit., V, comm. al § MCCXCVIII, p. 304. La diligentia quam suis viene eliminata anche dalla disciplina del contratto di deposito: il § CMLXI impone al depositario la custodia diligente e la restituzione della cosa, e il § CMLXIV afferma la sua responsabilità per mancanza della dovuta custodia, ma lo scagiona dal caso fortuito, anche quando avrebbe potuto salvare la cosa depositata, ancorché più preziosa, sacrificando la propria. Nel commento al § CMLXI il von Zeiller rinvia, per la determinazione della diligenza richiesta al depositario, ai §§ MCCXCV ss. 166 «Bürgerliches Gesetzbuch für das königreich Sachsen», cit. Cfr. Hoffmann, Die Abstufung der Fahrlässigkeit cit., p. 160 ss 167 Secondo il § 730, chi per specifica disposizione di legge deve osservare soltanto la diligenza che è solito avere nei propri affari, gode di una responsabilità per colpa lieve attenuata, ma non può difendersi dall’accusa di colpa grave con l’argomento che egli non era solito agire diversamente nei propri affari. 168 Tradizionalmente la diligentia quam suis non era applicata in tema di dote e di tutela, nonostante che le fonti romane presentassero appigli in questo senso. La previsione normativa del Codice sassone dipende, come si vedrà, direttamente dalla rivisitazione pandettistica delle fonti romane. 169 Ma non bisogna tralasciare Egid von Lohr, Die Theorie der culpa. Eine civilistische Abhandlung (I), Gießen, 1806 e Beiträge zu der Theorie der Culpa (II), Gießen und Darmstadt, 1808, ove le novità sono già in parte anticipate. Cfr. anche l’acuta esegesi di D. 16.3.32 di C.F. Glück, Ausfürliche Erläuterung der Pandekten nach Hellfeld, trad. it. – Commentario alle Pandette –, XVI (trad e ann. da L. Busatti, T. Trincheri, C. Longo, T. Preda), Milano, s.d., p. 317 ss. 170 Die Culpa des römischen Recht. Eine Civilistische Abhandlung (Zweite vermehrte Ausgabe besorgt von D.A. Bethmann-Hollweg), Bonn, 1838, p. 169. 171 B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts9, trad. it. – Diritto delle Pandette (cur. C. Fadda, P.E. Bensa) –, I, Torino, 1925, p. 347: ma nella nota 10b l’autore precisa che «dalle fonti non si può ricavare una regola fissa sui limiti, entro i quali ciò è effettivamente avvenuto nel diritto romano. Può riguardarsi come sicuro che la culpa lata vien pareggiata al dolus, se si tratta di cosa, che urti contro un rapporto di obbligo esistente». 172 Op. cit., p. 202 ss.: «Aller Zweifel konnte hier nur daher kommen, daß Einige hier den dolus, welcher im Edict genannt war, in dem engern Sinn verstanden, in welchem er ausschließlich auf animus nocendi (Schaden mit dem vollen Bewußtsein, man schade) geht; dies war falsch, denn indem der Prätor hier den dolus ausschließen wollte, wollte er alle mala fides, alles handeln aus arger, niedriger Gesinnung, also auch, da man mit Kenntnis der Gefahr es zum Schaden eines Andern darauf ankommen ließ, oder, auf eine heillose Art die Gefahr verkennend, Anderen schadete, also auch, da man selbst das kleinste Versehen aus einer in eignen Geschäften seltenen Nachlässigkeit beging, verbannen. Alle culpa lata, alle culpa in concreto, war also im weitern Sinn dolus, und dieser weitere Sinn war gerade der rechte, welcher dem Edict unterlegt werden mußte». 173 Op. cit., p. 196 ss. 174 Nella società, nella comunione e nella dote la ragione del beneficio sarebbe, secondo Hasse, il particolare legame esistente fra i soggetti e l’amministrazione di beni comuni (op. cit., p. 247, 377 e 530); nella tutela il beneficio serviva a ripagare almeno in parte il grave onere imposto al tutore: tuttavia era raro che il tutore se ne servisse eccependo in giudizio la propria negligenza abituale, in quanto normalmente erano scelte come tutori, o dal testatore o dai magistrati dietro istruttoria, persone diligenti (p. 272-273 e 371). 175 Op. cit., p. 177-178. 176 Seguono Hasse, ad esempio, C.F. Mühlenbruch, Doctrina Pandectarum Scholarum in usum, Bruxellis, 1838, p. 340 ss., L. Arndts, Lehrbuch dee Pandekten, I3, München, 1859, trad. it. – Trattato delle Pandette (cur. F. Serafini) –, I3, Bologna, 1877, p. 163 ss., A. Brinz, Lehrbuch der Pandekten2, II.1, Erlangen, 1879, p. 255 s., e C. Tannert, Theorie der diligentia quam suis, Inaugural-Dissertation, Breslau, 1919, passim.; B. Windscheid accoglie in genere la ricostruzione di Hasse (Diritto delle Pandette, cit., I, p. 345 ss., e II, p. 65 ss.), salvo specificare che le fonti non autorizzano a parlare di culpa lata con riferimento all’omissione di diligentia quam suis di cui in D. 16.3.32: op. cit., I, p. 347 nt. 10a. 177 Cfr. ad esempio la recensione al volume di Hasse uscita poco dopo la sua pubblicazione a cura di A.F.J. Thibaut, in «Heidelbergische Jahrbucher der Litteratur», LX, 1815, p. 945 ss. Altra letteratura infra, in nota. 178 Una critica radicale si trova, ad esempio, in J.P. Molitor, Les obligations en droit romain avec l’indication des rapports entre la législation romaine et de droit français2, Paris, 1866, p. 240 ss. L’autore propose una soluzione alternativa che non ebbe, tuttavia, seguito in dottrina: nei rapporti come la società, la comunione, la dote e la tutela, che prevedono sia l’obbligo alla conservazione della cosa che l’obbligo alla sua gestione ed amministrazione, l’obbligato, nell’adempimento del primo, sarebbe tenuto alla diligenza del buon pater familias, nell’adempimento del secondo, alla più ridotta diligenza quam suis: l’attenuazione di responsabilità dipenderebbe dal fatto che si tratta di un impegno più oneroso e impegnativo. Su D. 16.3.32 Molitor criticò la soluzione di Hasse e ripropose la lettura tradizionale (p. 253 ss.). 179 Così, ad esempio, F. Mommsen, Die Lehre von der Mora nebst Beiträgen zur Lehre von der Culpa, in Beiträge zum Obligationenrecht, III, Braunschweig, 1855, p. 374 ss., e A. Hesse, Zur Lehre von dolus und culpa, in «Archiv für civilistische Praxis», LXI, 1878, p. 222 ss. Hesse si discosta dall’opinione dominante che, sin da Hasse, considerava la diligentia quam suis soltanto come un beneficio per l’obbligato: secondo l’autore, invece, essa può anche aggravare la responsabilità se il soggetto è in suis più diligente della media (p. 220 ss.). Alla sola culpa levis riferiscono la diligentia quam suis anche A.F.J. Thibaut, System des Pandekten-Rechts8, I, Jena, 1834, p. 127 ss., H. Dernburg, System des Römischen Rechts, Der Pandekten achte, umgearbeitete Auflage, I, Berlin, 1911, p. 150 e nt. 13, R. von Jhering, Das Schuldmoment im römischen Privatrecht, Giessen, 1867, trad. it. – Il momento della colpa nel diritto privato romano (cur. F. Fusillo) –, Napoli, 1990, p. 50, F. Regelsberger, Pandekten, I, Leipzig, 1893, p. 651 ss., Perozzi, La culpa in concreto, cit., p. 641 ss., A. Pernice, Labeo. Römisches Privatrecht im ersten Jahrhundert der Kaiserzeit, B.I.4, Halle, 1878, rist. Aalen, 1963, p. 360 ss., K. von Mutzenbecher, Beiträge zur Lehre von der culpa in concreto innerhalb obligatorischer Rechtsverhältnisse, Inaugural-Dissertation, Berlin, 1896, p. 32, G.F. Puchta, System und Geschichte des römischen Privatrechts10, Leipzig, 1893, p. 375, E. Sander, Ein Beitrag zur Lehre von der diligentia quam suis, Inaugural-Dissertation, Berlin, 1898, passim, e Sertorio, La «culpa in concreto», cit., passim. 180 Si veda la letteratura citata nella nota precedente. 181 Sulle motivazioni del beneficio della diligentia quam suis nei singoli rapporti, Pernice, Labeo, cit., B.I.4, p. 360 ss., Von Mutzenbecher, Beiträge, cit., p. 68, Sander, Ein Beitrag, cit., p. 25 ss., e Sertorio, La «culpa in concreto», cit., p. 151 ss. 182 D.C.F. Elvers, Doctrinae juris civilis romani de culpa prima lineamenta, Gottingae, MDCCCXXII, p. 10 ss., Pernice, Labeo, cit., B.I.4, p. 366 ss, Brinz, Lehrbuch der Pandekten, cit., II.1, p. 255 s., Windscheid, Diritto delle Pandette, cit., I, p. 347 nt. 10, e II, p. 67 nt. 9, Dernburg, System, cit., p. 150 nt. 13, Arndts, Pandette, cit., p. 164 e nt. 4, Regelsberger, Pandekten, cit., p. 651 nt. 11, F. Mommsen, Die Lehre von der Mora, cit., p. 354 ss., K. Binding, Die Normen und ihre Übertretung. Eine Untersuchung über die rechtmässige Handlung und die Arten des Delikts2, II, Schuld und Vorsatz, 2, Der Rechtswidrige Vorsatz, Leipzig, 1916, p. 740 ss., Hesse, Zur Lehre von dolus und culpa, cit., p. 224, Perozzi, La culpa in concreto, cit., p. 651, Mutzenbecher, Beiträge, cit., p. 18, Puchta, System, cit., p. 374 e nt. d, Tannert, Theorie der diligentia quam suis, cit., p. 16, Polacco, La culpa in concreto, cit., p. 21, e Sertorio, La «culpa in concreto», cit., p.71 ss. 183 Per Hesse, Zur Lehre von dolus und culpa, cit., p. 203 ss., sia in D. 16.3.32 che in D. 9.2.39, D. 26.7.13.1, D. 13.6.5.4, si parla non di diligentia quam suis, ma di culpa lata intesa come consapevolezza e previsione del pericolo e conoscenza da parte del danneggiante dei mezzi per evitarlo. 184 Binding, Die Normen, cit., p. 740 ss.: secondo l’autore il fatto di trascurare arbitrariamente, premeditatamente, ma non dolosamente, le cose altrui a vantaggio delle proprie fonda la culpa lata. Infatti – propongo qui la traduzione di parte del testo per la sua particolare chiarezza ed eleganza – «se, in una situazione d’emergenza, l’obbligato salva le proprie cose e abbandona quelle altrui, ciò suscita contro di lui il forte sospetto che, malgrado il pericolo, egli abbia mantenuto ancora abbastanza freddezza di spirito per separare prudentemente le proprie cose da quelle altrui e posporre volutamente le seconde a vantaggio delle prime. Ciò che a questa condotta manca del dolus malus è il fatto che il motivo egoistico che ha spinto l’autore a salvare la propria cosa è considerato in tale situazione agli occhi del diritto del tutto naturale, e manca inoltre la volontà di danneggiare l’altro». Un esempio chiaro di ciò si trova, secondo l’autore, in D. 16.3.32, che descrive un depositario nella seguente situazione: «egli non può restituire perché la cosa è perita o ne ha perso la detenzione. Se avesse tenuto nella custodia l’accuratezza che usa nelle sue cose, il bene non sarebbe andato perso: se la cosa fosse stata propria del depositario, essa sarebbe ancora in suo possesso. La deviazione dal tipo di sollecitudine che usa nelle proprie cose deriva soltanto dalla consapevolezza di detenerla come cosa altrui. La cosa è persa, consapevolmente, perché è quella altrui. Soltanto allora è chiaro che il giurista parla di una frode, di una non salva fides del depositario. Ma il depositario con consapevolezza e volontà ha assunto l’obbligo della restituzione della cosa e con ciò l’obbligo di non posporla alle proprie cose». Il concetto di culpa lata proposto dal Binding fu ampiamente criticato da O. Lenel nel saggio Culpa lata und culpa levis, in «ZSS.», XXXVIII, 1917, p. 263 ss. 185 F. Mommsen, Die Lehre von der Mora nebst Beiträgen zur Lehre von der Culpa, cit., p. 347 ss. Per l’autore la culpa lata si fonda su «un’indifferenza priva di scrupoli nei confronti dell’interesse altrui o almeno di tal natura che l’accusa di dolo può essere evitata soltanto richiamandosi ad una crassa ignoranza (un errore inescusabile)» (p. 354): a sostegno di questa definizione l’autore cita D. 16.3.32 (p. 355). 186 Dernburg, System des Römischen Rechts, cit., p. 150 nt. 13: «Celsus hat hier, wie er dies auch sonst oft tut, seine eigenen Wege eingeschlagen. Es ist dies um so weniger befremdlich, als zu seiner Zeit die Doktrin der culpa noch im Fluß, die Auffassung von diligentia quam in suis rebus als Unterart der culpa levis noch nicht allgemein anerkannt war». Concorde Tannert, Theorie der diligentia quam suis, cit., p. 16. 187 Regelsberger, Pandekten, I, cit., p. 651 e nt. 11: il testo è già di per sè incerto e, dunque, non può essere interpretato estensivamente. 188 Perozzi, La culpa in concreto, cit., p. 651: «Sarebbe ora, io dico, una gran bella cosa se ci decidessimo a lasciar da parte questo testo … Esso contraddice pel concetto di culpa lata e per la responsabilità del depositario a tutte le altre fonti. Per ciò stesso esso non è parte del diritto romano, ma esprime un’opinione personale di Celso, che nessun antico ha accettato»; cfr. Id., Istituzioni di diritto romano, II, Firenze, 1908, p. 129 nt. 1. 189 Motive zu den Entwurfe eines Bürgerlichen Gesetzbuches für das Deutsche Reich, II, Recht der Schuldverhältnisse2, Berlin, 1896, p. 573. 190 Sulla polemica antiromanistica dell’epoca, con particolare riferimento ai criteri di responsabilità e ai gradi di diligenza richiesti nei singoli rapporti, C. Fadda, Il buon padre di famiglia nella teoria della colpa, in «Atti della Reale Accademia di Scienze Morali e Politiche», XXXII, 1901, p. 143 ss., Sertorio, La «culpa in concreto», cit., p. 216 s., e Hausmaninger, Rechtsvergleichende Notizen, cit., p. 286 ss., e Diligentia quam in suis, cit., p. 188 ss. 191 Protokolle der Kommission für die zweite Lesung des Entwurfs des Bürgerlichen Gesetzbuchs, II, Recht der Schuldverhältnisse, Berlin, 1898, p. 393. Sul tema Sertorio, La «culpa in concreto», cit., p. 215 ss., e Hausmaninger, Rechtsvergleichende Notizen, cit., p. 286 ss., e Diligentia quam in suis: a standard of contractual liability, cit., p. 188 ss. 192 La diligentia quam suis, prevista nel I progetto in soli due casi, fu nel secondo estesa ad altri tre casi. § 708 contratto di società: qui la diligentia quam suis era prevista sin dal I Progetto sulla base dell’autorità del diritto romano e dei precedenti legislativi (Motive, cit., II, p. 601s.) e fu mantenuta, nonostante qualche dissenso, nella versione definitiva (Protokolle, cit., II, 418 ss.); la culpa in concreto fu invece esclusa sin dall’inizio (a favore della comune responsabilità per culpa levis) nella comunione (Motive, II, p. 678). § 1359 responsabilità dei coniugi nell’adempimento degli obblighi derivanti dal vincolo matrimoniale: anche qui la diligentia quam suis era prevista sin dal I Progetto (Motive, cit., IV, p. 121) e fu mantenuta (Protokolle, cit., IV, p. 108). § 1664 responsabilità dei genitori nella prestazione al figlio delle cure loro proprie: non si trovava nel I Progetto (Motive, cit., IV, p. 745-746) e fu introdotta nel II (Protokolle, cit., IV, p. 561); diversamente la diligentia quam suis fu esclusa fin dall’inizio per il tutore (Motive, cit., IV, p. 1175-1176). § 2131 responsabilità dell’erede primo chiamato rispetto all’erede secondo chiamato in rapporto all’amministrazione dei beni ereditari: non si trovava nel I Progetto (Motive, cit., V, p. 101-102) e fu introdotta nel II (Protokolle, cit., V, p. 96). La diligentia quam suis è poi disciplinata in generale nel § 277, che stabilisce che chi gode del beneficio, non è mai dispensato dalla responsabilità per colpa grave. Ora la diligentia quam suis è anche richiamata dal § 346 c.2 n. 3 in tema di recesso dal contratto. La diligentia quam suis è anche prevista dal Codice delle obbligazioni svizzero del 1911, limitatamente alla responsabilità dei soci, all’art. 538. 193 A favore, ad esempio, A. Wacke, Diligentia quam in suis rebus adhibere solet, in «Juristische Arbeitsblätter», XIII, 1981, p. 400 ss. Ma la dottrina maggioritaria vede con sfavore questa figura, che spesso conduce a risultati inopportuni perché avvantaggia i negligenti e pone pesanti problemi probatori: cfr. E. Deutsch, Haftungsrecht, I, Allgemeine Lehren, Köln-Berlin-Bonn-München, 1976, p. 291 s., Id., Fahrlässigkeit und erforderliche Sorgfalt. Eine privatrechtliche Untersuchung, Köln-Berlin-Bonn-München, 1963, p. 9 ss. (sullo sviluppo storico-giuridico della dottrina della colpa in Germania), 151 ss. (sulla culpa in concreto), e Id., Abschied von der culpa in concreto? BGH, VersR 1960, 802 und BGHZ 43, 313, in «Juristische Schulung», VII, 1967, p. 496 ss. Cfr. anche, fra gli altri, N.C. Dannhorn, Ansprüche von Kindern gegen ihre Eltern im falle der Verletzung von Pflichten der elterlichen Verantwortung, 2003 (Diss.), passim, P.C. Müller-Graf, Haftungsrecht und Gesellschaftsrecht: Der Maßstab der «diligentia quam suis» für Geschäftsführer in Personengesellschaften, in «Archiv für civilistische Praxis», CXCI, 1991, p. 475-494, O. Tatzel, Die diligentia quam in suis im ehelichen Verhältnis. Eine Untersuchung des § 1359 BGB, Inaugural-Dissertation, Tübingen, 1970, passim, H.-J. Hoffmann, Die Fragwürdigkeit der Haftung für diligentia quam suis, in «Neue Juristische Wochenschrift», XXVII-LI, 1967, p. 1207 ss., W. Rother, Haftungsbeschränkung im Schadensrecht, München-Berlin, 1965, p. 185 ss., e W. von Hagen, Die sogenannte Culpa in concreto nach bürgerlichem Gesetzbuch, Inaugural Dissertation, Berlin, 1901. Per A. Ehrhardt, Diligentia quam in suis, in Mnemosyna Pappulias, Athenai, 1934, p. 102, queste norme sono il frutto di un malinteso trascinatosi per secoli. Comunque, sin dagli anni settanta, l’orientamento giurisprudenziale è nel senso di escludere l’attenuazione di responsabilità nei casi di incidente stradale: infatti, nel caso di incidente intervenuto su automobile noleggiata da più soggetti, quando alla guida ci fosse uno di loro (cfr., ad esempio, «BGHZ.» 46, 313 = «NJW.» 1967, p. 558s. = «JZ.» 1967, 225) o su auto del marito guidata dalla moglie (ad esempio «BGHZ.» 53, p.352 = «NJW.» 1970, p.1271 = «Fam.RZ.» 1970, p. 386 con l’integrazione delle «Entscheidungen des Bundesgerichtshofes in Zivilsachen», 61, 1974, p. 101 ss.), le assicurazioni del danneggiante rifiutavano di rispondere dei danni, accampando la «diligenza abitualmente inferiore alla media» del guidatore. Il deutsche Bundesgerichtshof («BGH») giustamente si oppose a questi tentativi di interpretazione tendenziosa della lettera della legge, rispondendo che una «guida normalmente negligente», fonte per tutti di possibile rischio, non poteva mai essere scusata: sul tema Hausmaninger, Rechtsvergleichende Notizen, cit., p. 289 ss., e Diligentia quam in suis, cit., p. 192 ss., nonché la letteratura civilistica citata supra. 194 Notizie specifiche sul tema in Hausmaninger, Diligentia quam in suis, cit., p. 179 ss., e Rechtsvergleichende Notizen, cit., p. 283 ss. 195 Sulla storia della metodologia romanistica post-pandettistica, con specifico riferimento al tema della responsabilità contrattuale, utilissimo ad inquadrare dal punto di vista dogmatico e storico quanto nel testo si dirà, è C.A. Cannata, Ricerche sulla responsabilità contrattuale in diritto romano, I, Milano, 1966, p. 3 ss., Una casistica della colpa contrattuale, in «SDHI.», LVIII, 1992, p. 413 ss. e Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano. Materiali per un corso di diritto romano, Catania, 1996, p. 1 ss. 196 Viceversa compaiono ampie e dettagliate trattazioni storico-giuridiche, fra tutte quella di Hoffmann, Die Abstufung der Fahrlässigkeit, cit., passim, più volte richiamata, a cui rinvio per l’anteriore bibliografia, quella di H. Dilcher, Die Theorie der Leistungsstörungen bei Glossatoren, Kommentatoren und Kanonisten, Frankfurt a.M., 1960, passim, quella di D. Maffei, Caso fortuito e responsabilità contrattuale nell’età dei glossatori: saggi, Milano, 1957, passim, e quella più risalente di W. Engelmann, Die Schuldlehre der Postglossatoren und ihre Fortentwickelung, Leipzig, 1895, passim. Nella stessa prospettiva R. Zimmermann, The law of Obligations. Roman Foundations of the Civilian Tradition, Cape Town-Wetton-Johannesburg, 1990, specie p. 208 ss. Di recente è apparso un volume di atti dal titolo «La responsabilidad civil. De Roma al derecho moderno, IV Congreso Internacional y VII Congreso Iberoamericano de derecho romano» (cur. A. Murillo Villar), Burgos, 2001: qui accenni alla disciplina della responsabilità del depositario nella tradizione romanistica, con particolare riferimento all’ambiente spagnolo, compaiono in J.A. Obarrio Moreno, La responsabilidad del depositario y su receptión en las fuentes y en la doctrina medieval, specie p. 596 ss. Si vedano anche M. Talamanca, ‘Colpa. I.- Colpa civile. Diritto romano e intermedio’, in «ED.», VII, Milano, 1960, p. 517 ss., M. Bellomo, ‘Diligenza (Diritto intermedio)’, ivi, XII, Milano, 1964, p. 528 ss., Id., ‘Dolo (Diritto intermedio)’, ivi, XIII, Milano, 1964, p. 725 ss., I. Birocchi, U. Petronio, ‘Responsabilità contrattuale (Diritto intermedio)’, ivi, XXXIX, Milano, 1988, p. 1060 ss., e C.A. Cannata, ‘Responsabilità contrattuale nel diritto romano, medievale e moderno’, in «Digesto4. Discipline privatistiche. Sezione civile», XVII, Torino, 1998, p. 66 ss. Sul contratto di deposito, nella stessa prospettiva, G.P. Massetto, Ricerche sul deposito necessario nella dottrina del diritto comune, in «SDHI.», XLIV, 1978, p. 219s., F. Mastropaolo, I singoli contratti, VII, I contratti reali, in «Trattato di diritto civile» (dir. R. Sacco), Torino, 1999, p. 184 ss.; G. Negri, ‘Il deposito nel diritto romano, medievale e moderno’, in «Digesto4. Discipline privatistiche. Sezione civile», V, Torino, 1989, p. 219 ss., e G. Astuti, ‘Deposito. Diritto romano e intermedio’, in «ED.», XII, Milano, 1964, p. 212 ss. (= Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, III, Napoli, 1984, p. 1955 ss.). 197 Ma l’interesse si sta attualmente risvegliando: oltre ai contributi citati nella nota precedente, cfr. ad esempio, da ultimi, «Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti reali», Napoli, 2003, e L. Capogrossi Colognesi, Remissio mercedis, Napoli, 2005. 198 Accade così in molti saggi dell’epoca, per altri versi assai pregevoli: cfr. L. Lusignani, Studi sulla responsabilità per custodia secondo il diritto romano, II (L’emptio-venditio), Parma, 1903, p. 108 ss., De Medio, Studi sulla «culpa lata», cit., p. 27 ss., F. Litten, Ueber «Lo Codi» und seine Stellung in der Entwicklungs-Geschichte des Culpa-Problems, in «Mélanges Fitting», II, Montpellier, 1908, p. 610, B. Kübler, Das Utilitätsprinzip als Grund der Abstufung bei der Vertragshaftung im klassischen römischen Recht, in «Festgabe O. Gierke», II, Breslau, 1910, p. 247 ss. (dapprima l’autore interpreta correttamente il testo, poi lo giudica completamente alterato per ragioni meramente formali), G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen (I), Tübingen, 1910, p. 48 s. (è interpolata l’espressione ‘culpa carere’), Id., Unklassische Wörter, in «ZSS.», LVII, 1937, p. 30 (è interpolato il verbo ‘desiderare’), Id., Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, VI, in «ZSS.», LXVI, 1948, 281 (è interpolato il verbo ‘displicere’), Lenel, Culpa lata und culpa levis, cit., p. 277 ss., W. Kunkel, Diligentia, in «ZSS.». XLV, 1925, p. 297 ss. (che considera il testo non giustinianeo, ma post-classico), E. Sachers, Die Verschuldenshaftung des Depositars, in «Festschrift P. Koschaker», II, Weimar, 1939, p. 81 nt. 3; H. Krüger, M. Kaser, Fraus, in «ZSS.», LXIII, 1943, p. 167, Arangio-Ruiz, Responsabilità contrattuale in diritto romano, cit., p. 259 ss., e G. Gandolfi, Il deposito nella problematica della giurisprudenza romana, Milano, 1976, p. 15. Il testo viene ad esempio giudicato «contraddittorio nelle sue stesse parti costitutive e in antitesi con quanto le fonti generalmente insegnano circa la responsabilità del depositario» (Lusignani, op. cit., p. 108), infelice e mal espresso (De Medio, op. cit., p. 27, Lenel, op. ult. cit., p. 277 s.), contorto, incomprensibile e stonato (Kunkel, op. cit., p.298) etc. Per altra letteratura interpolazionistica cfr. l’elenco dell’ «Index Interpolationum», I, Weimar, 1929, c. 279, ad h.l. 199 Labeo. Römisches Privatrecht im ersten Jahrhunderte der Kaiserzeit2, II.1, Halle, 1895, p. 202 e 215. Già il Cujacio aveva notato tale peculiare collocazione palingenetica (cfr. supra, § 5). 200 Lenel, Palingenesia, cit., I, c. 142 nt. 2 (Cels. n. 91), F. Litten, Ueber «Lo Codi», cit., p. 610, F. Stella Maranca, Intorno ai frammenti di Celso, Roma, 1915, p. 69 s., C. Longo, Corso di diritto romano. Il deposito, Milano, 1933, p. 43 ss., E. Betti, Istituzioni di diritto romano, II.1, Padova, 1932, p. 294, p. 302 nt. 24 e p. 389 s.; Id., Imputabilità dell’inadempimento dell’obbligazione in diritto romano, Roma, corso a.a. 1957-1958, p. 74 ss. e 176 ss., Ehrhardt, Diligentia quam in suis, cit., p. 125 ss., H.H. Pflüger, Zur Lehre von der Haftung des Schuldners nach römischen Recht, in «ZSS.», LXV, 1947, p. 167, M. Lauria, ‘Periculum tutoris’, in «Studi S. Riccobono», III, Palermo, 1936, rist. Aalen, 1974, p. 312 nt. 130, e P. Bonfante, Corso di diritto romano, I, Diritto di famiglia, Roma, 1925, rist. (cur. G. Bonfante e G. Crifò), Milano, 1963, p. 630 ss. (l’autore ritiene tuttavia anche possibile un riferimento incidentale al deposito nella sezione relativa alla tutela). Secondo un’altra opinione, peraltro poco seguita, la ‘lex quod Nerva’ riguardava, invece, la fiducia cum amico: Heck, Die fiducia cum amico contracta, ein Pfandgeschäft mit Salmann, in «ZSS.», X, 1889, p. 130, e B. Kübler, Der Einfluß der greichischen Philosophie auf die Entwicklung der Lehre von den Verschuldensgraden im römischen Recht, in «Rechtsidee und Staatsgedanke. Beiträge zur Rechtsphilosophie und zur politischen Ideengeschichte, Festagabe J. Binder», Berlin, 1930, p. 73 ss. 201 F.M. De Robertis, La responsabilità del tutore nel diritto romano, Bari, 1960, p. 51 nt. 114, Id., Culpa tutoris. Studio sulla responsabilità del tutore nel sistema della compilazione giustinianea, Bari, 1960, p. 48 ss., Id., La responsabilità contrattuale nel sistema della grande compilazione, cit., I, p. 298 e nt. 9 (da ultimo l’autore ha sostenuto che, al posto di ‘latiorem culpam’, il testo potesse in origine presentare l’espressione ‘laxiorem curam’: La responsabilità contrattuale nel diritto romano dalle origini a tutta l’età postclassica, Bari, 1996, p. 65 nt. 33), G. Crifò, ‘Illecito. Diritto romano’, in «NNDI.», VIII, Torino, 1962, p. 159 s., W. ?itewski, Depositary’s liability in roman law, in «AG.», CXC, 1976, p. 46 ss., Cannata, La responsabilità contrattuale, cit., p. 162 nt. 84, Id., Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano, cit., p. 46 nt. 116, R. Panero, El Depósito, in «Derecho romano de obligaciones. Homenaje J.L. Murga Gener», Madrid, 1994, p. 278 nt. 135; J.M. Coma Fort, El derecho de obligaciones en las Res Cottidianae, Madrid, 1996, p. 70 nt. 156, e Mastropaolo, I contratti reali, cit., p. 185. 202 Già così lo stesso Lenel, Culpa lata und culpa levis, cit., p. 277 nt. 2, benché in Palingenesia, cit., I, c. 142 nt. 2 (Cels. n. 91) riferisca il testo alla tutela. Così anche, ad esempio, G. Rotondi, La misura della responsabilità nell’actio depositi, in «AG.», LXXXIII, 1909, ora in Scritti Giuridici, II, Studii sul diritto romano delle obbligazioni, Milano, 1922, p. 110, C.A. Maschi, La categoria dei contratti reali. Corso di diritto romano, Milano, 1973, p. 172 s., P. Voci, ‘Diligentia’, ‘custodia’, ‘culpa’. I dati fondamentali, in «SDHI.», LVI, 1990, p. 53 s., e R. Cardilli, L’obbligazione di «praestare» e la responsabilità contrattuale in diritto romano (II sec. A.C. - II sec. D.C.), Milano, 1995, p. 436. 203 Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, I, Grundbegriffe und Lehre von den juristischen Personen, Leipzig, 1908, p. 331 ss. 204 Così anche Arangio-Ruiz, Responsabilità contrattuale, cit., p. 38 ss. 205 Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, cit., I, p. 333. 206 Ma l’autore è più propenso all’idea dell’interpolazione: Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, cit., I, p. 333. 207 Sin da quello di Kübler, Das Utilitätsprinzip, cit., p. 271 s. Sul tema cfr. ora G. Santucci, Il socio d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabilità, Padova, 1997 p. 193 ss., con la letteratura citata. 208 La tesi è di H. Hausmaninger, Diligentia quam in suis: a standard of contractual liability, cit., p. 179 ss., Rechtsvergleichende Notizen, cit., p. 283 ss. e Diligentia quam in suis, in «Festschrift M. Kaser», München, 1976, p. 265 ss. La tesi è accolta da Zimmermann, The law of Obligations, cit., p. 210 s. Di «dolo relativo» in un senso un po’ diverso parla W. Selb, Das Problem des relativen «dolus» in D. 16.3.32, in «Synteleia V. Arangio-Ruiz», II, Napoli, 1964, p. 1173 ss., secondo cui dalla ‘lex quod Nerva’ risulta che, per Nerva e Celso, una grave negligenza del depositario rientrava nel dolo, a meno che quest’ultimo non dimostrasse di essere parimenti negligente in suis. Concorda col Selb Sitzia, Sulla responsabilità del depositario, cit., p. 191 ss. 209 Sertorio, La «culpa in concreto», cit., 71 ss., Rotondi, La misura della responsabilità nell’actio depositi, cit., p. 102 ss., S.B. Thayer, Report de culpa lata et diligentia in iure romano, in «BIDR.», XLV, 1938, p. 388 s., G. Marton, Un essai de reconstruction du développement probabile du système classique romain de responsabilité civile, in «RIDA.», II, 1949, p. 185, H.J. Wolff, Zur Geschichte der diligentia quam suis, in «Iura», VI, 1955, p.152 ss., G. Cian, Lata culpa dolo aequiparatur, in «Rivista di Diritto Civile», IX, 1963, p. 168 s., M. Kaser, Römisches Privatrecht2, I, München, 1971, p. 510, Maschi, La categoria dei contratti reali, cit., p. 170 ss., ?itewski, Depositary’s liability, cit., p. 46 ss., V. Scarano Ussani, Valori e storia nella cultura giuridica fra Nerva e Adriano. Studi su Nerazio e Celso, Napoli, 1979, p. 172 ss., Id., Empiria e dogmi. La scuola proculiana fra Nerva e Adriano, Torino, 1989, p. 108, S. Tafaro, Regula e ius antiquum in D. 50.17.23. Ricerche sulla responsabilità contrattuale, Bari, 1984, p. 248 s., P. Cerami, La concezione celsina del ius. Presupposti culturali ed implicazioni metodologiche, in «AUPA.», XXXVIII, 1985, p. 200 nt. 397 (riprendendo un’osservazione del Cannata, Per lo studio della responsabilità per colpa, cit., p. 319 n. 1: l’autore pensa che Celso intenda qui «affermare non già che la colpa lata equivale al dolo, sebbene che il dolo è culpa latior»), Negri, Deposito, cit., p. 231, Talamanca, Colpa civile, cit., p. 521 e 523, e Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, p. 550 e 668, J. Mauel, Die Sorgfalt in eigenen Angelegenheiten. Ursprung, Zweck und Grenzen des Haftungsprivilegs, Köln, 1985, p. 23 ss., R. Panero Gutiérrez, Deponere y reddere en la actio depositi in factum, Barcelona, 1989, p. 103 ss., Voci, ‘Diligentia’, ‘custodia’, ‘culpa’, cit., p. 53 ss., F. Mercogliano, «Diligentia quam in suis» per i giuristi romani classici, in «Index», XIX, 1991, p. 384 ss., N. Benke, F.-S. Meissel, Übungsrecht zum römischen Schuldrecht2, Wien, 1993, p. 54, Cardilli, L’obbligazione di «praestare», cit., p. 433 ss., L. Manna, Spunti per una indagine dei criteri della responsabilità contrattuale in diritto postclassico, in «Atti del II Convegno sulla problematica contrattuale in diritto romano, Milano, 11-12 maggio 1995», Milano, 1998, p. 479 ss., e F. Scotti, Antologia del Digesto giustinianeo. Testi tradotti e annotati, Milano, 2005, p. 104 s. Nello stesso senso anche la letteratura citata sopra, che riferisce tale conclusione al tema della responsabilità del tutore. 210 Questa era anche l’interpretazione degli scoliasti bizantini: cfr. lo sch. Shme…wsai di Stefano a Bas. 13.1.5 (= D. 13.6.5.2) in tema di comodato, in cui, richiamando la ‘lex quod Nerva’, si precisa che è dolo anche non usare per le cose depositate la stessa cura delle proprie: sul tema e in generale sulla reinterpretazione bizantina della diligentia quam suis, ampiamente, Nörr, Die Fahrlässigkeit, cit., p. 17 ss. (cfr. supra, § 1). 211 Molte volte ciò è accaduto nel corso della tradizione romanistica, sin dalle legislazioni barbariche (cfr. supra, § 2) e dalla glossa (§ 3). Nel secolo XX la stessa lettura è stata data, ad esempio, da Kübler, Der Einfluß der griechischen Philosophie, cit., p. 73 ss. (l’autore, sulla base degli studi di P. Koschaker sulla legislazione di Hammurabi in tema di deposito [Rechtsvergleichende Studien zur Gesetzgebung Hammurapis, Leipzig, 1917, p. 27 ss.], individua nella regola un principio comune a molte legislazioni antiche), Thayer, Report de culpa lata et diligentia, cit., p. 388 s., Pflüger, Zur Lehre von der Haftung des Schuldners, cit., p. 167, e da F.M. De Robertis, Culpa tutoris. Studio sulla responsabilità del tutore nel sistema della compilazione giustinianea, cit., p. 48 ss., La disciplina della responsabilità contrattuale nel sistema della compilazione giustinianea, Bari, 1962, p. 33 ss., La disciplina della responsabilità contrattuale nel sistema della compilazione giustinianea, II, I singoli rapporti, Bari, 1964, 386 ss., e La responsabilità contrattuale nel sistema della grande compilazione, cit., I, p. 298 e p. 301 nt. 21. Ma è evidente che si tratta di due ipotesi radicalmente diverse, la prima (D. 16.3.32) basata sul confronto fra l’atteggiamento attuale dell’obbligato nei confronti della cosa affidata e quello abituale in suis, la seconda (D. 13.6.5.4) basata sul confronto fra la differente sorte subìta, in un caso fortuito, dai beni propri e da quelli affidati. 212 Così, oltre a tutti gli autori già richiamati che ritengono la diligentia quam suis tout court bizantina, Mitteis, Römisches Privatrecht, cit., I, p. 323 r 331 ss., Betti, Istituzioni, cit., II, p. 403 s., Talamanca, Colpa civile, cit., p. 520 ss., Voci, ‘Diligentia’, cit., p. 57 ss. (su D. 17.2.72 in tema di società), p. 97 (su D. 27.3.1.pr. in tema di tutela) e p. 100s. (su D. 23.3.17.pr. in tema di dote). Per Hausmaninger (Diligentia quam in suis, cit., p. 265 ss., specie p. 276 ss, Rechtsvergleichende Notizen, cit., p. 283 ss., e Diligentia quam in suis: a standard of contractual liability, cit., p. 179 ss.), seguito, ad esempio, da Zimmermann, The law of obligations, cit., 210 ss., sono classici D. 16.3.32 e D. 17.2.72 (qui Gaio avrebbe trasformato il concetto di «dolo relativo» elaborato da Celso su base casistica, in standard tecnico di responsabilità contrattuale), postclassici tutti gli altri casi di diligentia quam suis ove essa compare come attenuazione di responsabilità per colpa. E’ interpolata o postclassica la diligentia quam suis nella società per F. Wieacker, Haftungsformen des römischen Gesellschaftsrecht, in «ZSS.», LIV, 1934, p. 67 ss., G.I. Luzzatto, Caso fortuito e forza maggiore come limite alla responsabilità contrattuale, I, La responsabilità per custodia, Milano, 1938, p. 184 s., Kaser, Römisches Privatrecht, cit., I, p. 576 nt. 48, M. Talamanca, ‘Società (Diritto romano)’, in «ED.», XLII, Milano, 1990, p. 855 s., J.H. Lera, El contrato de sociedad. La casistica jurisprudencial clasica, Madrid, 1992, p. 59, e F.F. De Buján, Sistema Contractual Romano, Madrid, 2003, p. 406 ss.; nella tutela, ad esempio, per Lauria, ‘Periculum tutoris’, cit., p. 293 nt. 49, Bonfante, Responsabilità del tutore, cit., p. 623 ss., De Robertis, La responsabilità del tutore, cit., specie p. 11 ss., e Culpa tutoris, cit., specie p. 13 ss., e F. Cancelli, ‘Diligenza (Diritto romano)’, in «ED.», XII, Milano, 1964, p. 520. 213 La responsabilità contrattuale, in «Derecho romano de obligaciones», cit., p. 162 nt. 84, Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano, cit., p. 46 nt. 116, e Responsabilità contrattuale, cit., p. 73 nt. 20. 214 Il testo originario si sarebbe dunque limitato a queste parole: ‘Quod Nerva diceret latiorem culpam dolum esse, Proculo displicebat, mihi verissimum videtur. Nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens est, fraude non caret’. 215 Addirittura, in Per lo studio della responsabilità per colpa nel diritto romano classico. Corso di diritto romano (Cagliari, a.a. 1967-1968), Milano, s.d., p. 319 nt. 1, l’autore afferma di considerare il testo pienamente genuino soltanto nella generica affermazione iniziale ‘Quod Nerva … videtur’. 216 Responsabilità contrattuale, cit., p. 72. 217 Così già Mercogliano, «Diligentia quam in suis», cit., p. 379 ss. 218 Arnoldi Vinnii in quatuor libros Institutionum Imperialium Commentarius, cit., II, p. 170 (cfr. supra, § 5). 219 Essai, cit., § XIII, p. 525 (cfr. supra, § 6). 220 Commentario alle Pandette, XVI, cit., p. 317 s. 221 Die Theorie der Culpa, cit., p. 30 ss. 222 La «culpa in concreto», cit., 71 ss. 223 La misura della responsabilità, cit., p. 102 ss. 224 Lata culpa dolo aequiparatur, cit., p. 168 s. 225 Die Abstufung der Fahrlässigkeit, cit., p. 8. 226 Diligentia quam in suis, cit., p. 265 ss., Rechtsvergleichende Notizen, cit., p.284 ss., e Diligentia quam in suis: a standard of contractual liability, cit., p. 183 ss. 227 In questo contesto la ‘natura hominum’ è, secondo Cerami, La concezione celsina del ius, cit., p. 47 nt. 92, la «coscienza morale di ciascun uomo», secondo F. Camacho Evangelista, «Ius naturale» en las fuentes juridicas romanas. I. «Ius naturale» en Ulpiano (D. 1.1.1.3) (Inst. 1.2.pr.), in «Estudios Jurídicos U. Alvarez Suárez», Madrid, 1978, p. 49, la «regla de la normalidad moral». 228 ‘… nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens est, nisi tamen ad suum modum curam in deposito praestat, fraude non caret’. 229 Sulla insospettabilità del principio – che, tuttavia, non si fonda su una regola dogmatica unitaria – Th. Mayer-Maly, De se queri debere, officia erga se und Verschulden gegen sich selbst, in «Festschrift M. Kaser», München, 1976, p. 229 ss., e J. Triantaphyllopoulos, «De se queri» = Eauton Aitiasqai, in «Estudios J. Iglesias», II, Madrid, 1988, p. 1065 ss. 230 La misura della responsabilità, cit., p. 108-109. 231 La «culpa in concreto», cit., p. 78. 232 Cfr. supra, § 8. 233 Così li intende oggi la letteratura dominante, con un’inversione di tendenza rispetto al fuoco della critica interpolazionistica a cui in passato questi testi sono stati sottoposti (cfr. Sachers, Die Verschuldenshaftung, cit., 109 s., con la letteratura citata). Cfr. Manna, Una indagine dei criteri della responsabilità contrattuale, cit., p. 481 ss., Tafaro, Regula e ius antiquum, cit., p. 246 ss., R. Herrera, La custodia como obligacion singular del depositario en el contrato de deposito, in «Estudios J. Iglesias», III, Madrid, 1988, p. 1420 s., ?itewski, Depositary’s liability, cit., p. 18 ss., Maschi, La categoria dei contratti reali, cit., p. 166 ss., e Arangio-Ruiz, Responsabilità contrattuale, cit., p. 35. 234 In un caso analogo i giuristi escludono espressamente il dolo (D. 4.3.7.7 Ulp. 11 ad ed.): ‘Idem Labeo quaerit, si compeditum servum meum ut fugeret solveris, an de dolo actio danda sit? Et ait Quintus apud eum notans: si non misericordia ductus fecisti, furti teneris: si misericordia, in factum actionem dari debere’. 235 Non è dunque il caso di considerare l’inciso ‘si sine dolo omni reddat, hoc est, ut nec culpae quidem suspicio sit’ come una glossa post-classica: così Sitzia, Sulla responsabilità del depositario, cit., p. 202 ss., De Robertis, La disciplina della responsabilità contrattuale nel sistema della compilazione giustinianea, cit., II, p. 384 s., Id., La responsabilità contrattuale nel sistema della grande compilazione, cit., I, p. 162 ss., e Longo, Corso, cit., p. 43; contro questa ipotesi, invece, Tafaro, Regula e ius antiquum, cit., specie p. 252 s. (con altra letteratura). Acuta l’esegesi di R. Martini, Di un discusso riferimento alla «culpa» in tema di deposito, in «Atti del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano, Milano, 7-9-aprile 1987», I, Milano, 1988, p. 205 ss., che ritiene che il passo non ponga un problema di responsabilità contrattuale, ma di considerazione della suspicio culpae ai fini dell’effetto non liberatorio dell’adempimento: infatti alla presenza di cause oggettive tali da indurre a ritenere che «l’adempimento nelle mani dello schiavo non era voluto dal dominus», l’adempimento stesso non avrebbe potuto essere liberatorio (p. 212). 236 Sulla datazione delle azioni in factum e in ius e sui dibattiti alto-imperiali in ordine alla loro operatività ed estensione applicativa, che rivelano una coincidenza cronologica con l’epoca della ‘lex quod Nerva’, da ultimo, A. Castro Saénz, Responsabilidad y duplicidad formularia: los casos del depósito y el comodato en época clásica, in «La responsabilidad civil. De Roma al derecho moderno, IV Congreso Internacional y VII Congreso Iberoamericano de derecho romano», Burgos, 2001, p. 187 ss., Panero Gutiérrez, Deponere y reddere, cit., p.75 ss., Negri, Deposito, cit., p. 228 ss., Maschi, La categoria dei contratti reali, cit., p. 218 ss., e J. Burillo, Las formulas de la ‘actio depositi’, in «SDHI.», XXVIII, 1962, p. 233 ss. 237 Le dispute dipendono in larga misura dall’oscurità e contraddittorietà dei testi: «Storicamente non si riuscirà mai (temo)» – scriveva Lauria, ‘Periculum tutoris’, cit., p. 285 – «a sceverare nettamente le varie correnti di pensiero nelle diverse epoche». 238 Così Mitteis, Römisches Privatrecht, cit., I, p. 327 ss., Ehrhardt, Diligentia quam in suis, cit., p. 101 ss., Arangio-Ruiz, Responsabilità contrattuale, cit., p. 38 ss. e 55 ss., e Bonfante, Diritto di famiglia, cit., p. 623 ss. Altra lett. in Voci, ‘Diligentia’, cit., p. 86 ss. Sull’argomento fondamentale di questa tesi, cioè la natura infamante dell’azione, e la sua inattendibilità, cfr. le critiche già mosse nel § 8. 239 Così Lauria, ‘Periculum tutoris’, cit., p. 285, che pensava che, fino ad Ulpiano, la responsabilità del tutore non fosse «commisurata secondo criterii tecnici (dolo, culpa, custodia, ecc.) dai quali in genere si prescinde: si dichiara obbligato il tutore qualora risenta danno il pupillo, affermandosi che l’esistenza del danno è prova che il tutore non ha osservato la fides, non ha adempiuto ai doveri del suo officium». La tesi è ripresa e radicalizzata da De Robertis, La responsabilità del tutore, cit., p. 81 ss. Dello stesso autore cfr. anche Culpa tutoris, cit., passim, e ‘Exactissima diligentia’ (Contributo alla teoria della responsabilità contrattuale nel sistema della compilazione giustiniaea), in «SDHI.», XXIII, 1957, p. 119 ss. 240 Ad esempio G. MacCormack, The liability of the tutor in classical roman law, in «The Irish Jurist», V, 1970, 369 ss., Tafaro, Regula e ius antiquum, cit., p. 295 ss., e Voci, ‘Diligentia’, cit., p. 86 ss. 241 Le attestazioni dell’espressione, relativamente alla gestione pupillare, vanno da Cicerone ad Ulpiano: citazioni in Voci, ‘Diligentia’, cit., p. 87 nt. 3. Particolarmente significativa è l’attestazione di Gai., inst. 1.200 (= Iust. inst. 1.24.pr.), ma cfr. anche Quint., Inst. Orat. 7.4.35, D. 26.1.7-8, D. 26.5.21.5, D. 26.7.12.1, D. 27.4.3.7 e D. 27.5.4. A tal punto si pone in primo piano l’interesse del pupillo, che al magistrato è concesso di discostarsi dalla designazione paterna del tutore, se dubita della sua idoneità all’officium (perché ad esempio era bonae vitae et frugi all’epoca della nomina testamentaria, poi ha iniziato a male conversari: D. 26.7.3.3), ai tutori nominati dal padre possono essere aggiunti, se necessario, dei curatori (D. 26.7.3.4), l’officium del tutore, che risponde al pubblico interesse, non può mai essere sospeso, nemmeno per volontà paterna (D. 26.7.5.8: qui il padre aveva disposto che la tutela fosse gestita consilio matris), non si può disporre pattiziamente l’esonero da responsabilità del tutore (D. 26.7.5.7), è lecito ai tutori negligere il praeceptum patris se una soluzione diversa appare più favorevole al pupillo (D. 26.7.5.9 e D. 26.7.47.1). 242 ‘… reliqua sunt in cura, attentione animi, cogitatione, vigilantia, adsiduitate, labore; complectar uno verbo, quo saepe iam sumus usi, diligentia, qua una virtute omnes virtutes reliquae continentur’: sono parole di Cicerone, de orat. 2.35.150, che corrispondono esattamente all’accezione di diligentia individuata nel testo. Sulle diverse accezioni del termine e sulla sua classicità, a dispetto della radicale critica interpolazionistica del Kunkel (Diligentia, cit., p. 266 ss.), cfr. W.W. Buckland, Diligens paterfamilias, in «Studi P. Bonfante», II, Milano, 1930, p. 87 ss., Ehrhardt, Diligentia quam in suis, cit., p. 101 ss., Cancelli, Diligenza, cit., p. 517 ss. Tafaro, Regula e ius antiquum, cit., p. 295 ss., e Voci, ‘Diligentia’, cit., p. 33 ss. Cfr. anche I. De Falco, «Diligentiam prestare». Ricerche sull’emersione dell’inadempimento colposo delle «obligationes». Tesi di Dottorato, Napoli, 1991, passim, con l’ampia recensione di C.A. Cannata, Una casistica della colpa contrattuale, cit., p. 413 ss. 243 Sul tema, in particolare, Voci, ‘Diligentia’, cit., p. 87 ss. Cfr., ad esempio, D. 26.7.32.2, D. 26.7.39.3, D. 26.7.47.2, D. 27.3.1.pr., D. 27.5.1.9, C.I. 5.51.7 (responsabilità del tutore per azioni ed omissioni), D. 27.3.1.3 e 9.4 (obbligo di rendiconto della gestione), D. 26.7.7.pr., C.I. 5.37.24 (inventario iniziale dei beni), D. 26.7.7.1 (alienazione di cose deperibili), D. 26.7.7.2, 3, 7 (acquisto di fondi idonei), D. 26.7.7.3 ss., D. 26.7.15, 16 (investimento ad interessi del denaro pupillare, anche se è il tutore stesso a prendere il denaro a prestito), D. 26.7.12.3, 13.pr., D. 27.21.1 (il tutore è preposto non solo alla gestione del patrimonio, ma anche ai costumi ed educazione del pupillo), D. 26.7.15 (escussione dei debitori pupillari), D. 26.7.30 (difesa processuale), D. 26.7.32.1 (conservazione accurata delle cautiones di pagamento dei vectigalia), C.I. 5.37.4 (deposito del denaro ad interesse o sua conversione nell’acquisto di fondi), e C.I. 5.37.23 (cura del pagamento del vectigal enfiteutico). Significativa, al riguardo, è l’espressione ‘periculum tutelae’ che, come bene spiega il Betti (Istituzioni, cit., II.1, p. 296), «indica il rischio della gestione in quanto dipendente da un’apprezzamento del tutore» che così «assume … una responsabilità per l’esito non conforme agli interessi pupillari». 244 Sul punto cfr. supra, § 8. 245 Sono parole del Betti, Istituzioni, cit., II.1, p. 393. 246 Mette in luce la diffusione di tale accezione nella percezione dell’uomo comune dell’età alto-imperiale Wolff, Zur Geschichte der diligentia quam suis, cit., p. 152 ss., che porta l’esempio significativo di P. Mert. I.24, una lettera privata di origine incerta del 200 d.C. in cui, alle ll. 12-14, si domanda al destinatario una cura diligente e attenta come nelle proprie cose. Nello stesso ordine di idee rientra la famosa notazione del Vangelo di Giovanni (10.11 ss.). 247 Mercogliano, «Diligentia quam in suis», cit., p. 392. 248 The liability of the tutor, cit., p. 376. 249 Ad esempio dell’Eisele, III. Beiträge zur Erkenntniss der Digesteninterpolationen, in «ZSS.», XIII, 1892, p. 128 s.: «Dass Jemand rebus suis diligentiam praestare debet, ist ein Unsinn; das rebus suis ist interpolirt». L’osservazione è stata ripresa da Haumaninger, Diligentia quam in suis, cit., p. 279 nt. 43. Opportunamente il Buckland (Diligens paterfamilias cit., p. 104) opponeva che «there is nothing odd in speaking of the care which a man ought to shew in his own affairs». Peraltro l’espressione si ritrova, riferita a vari rapporti, in altri testi giuridici (D. 7.1.65.pr., D. 13.6.18.pr., D. 13.7.14, D. 18.1.35.4, Iust. inst. 3.24.5) e comunque è comune nelle fonti letterarie «la figura dell’uomo modello … nell’ambito dell’amministrazione della propria azienda agraria» (Cancelli, Diligenza, cit., p. 524). 250 Cfr. Nörr, Die Fahrlässigkeit, cit., p. 48 s. Analoghe osservazioni già in C. Fadda, Il buon padre di famiglia nella teoria della colpa, in «Atti della Reale Accademia di Scienze Morali e Politiche», XXXII, 1901, p. 141 ss., e in Sertorio, La ‘culpa in concreto’, cit., p. 15 ss. 251 Così anche MacCormack, The liability ot the tutor, cit., p. 373. 252 Analogo criterio si trova espresso in D. 26.7.12.2, Paul. 38 ad ed.: il testo non è, tuttavia, del tutto perspicuo. 253 La soluzione corrisponde a quella di un rescritto di Settimio Severo ambientato nell’Egitto romano e pubblicato negli «Apokrimata. Decisions of Septimius Severus on legal matters. Text, translation and historical analysis by W.L. Westermann, legal commentary by A.A. Schiller», New York, 1954, p. 79 s., ll.35-39: alla richiesta di esenzione dalle civiche liturgie per malattia di un tale Cronio, figlio di Eracleide, l’imperatore risponde che la malattia scusa soltanto se non si è in grado di curare nemmeno i propri affari. Richiama il testo contro la diffusa, e non sempre fondata, tendenza interpolazionistica E. Seidl, Papyrologie und Interpolationenkritik an den Digesten, in «Annales Universitatis Saraviensis», VIII, 1959, p. 25 s. Il testo prova lo stretto legame, già messo in luce con precisione dall’Ehrhardt (Diligentia quam in suis, cit., p. 101 ss.), esistente fra le norme sulla responsabilità dei magistrati e dei titolari di publica officia in genere, e quelle sulla responsabilità del tutore: l’autore dimostrò così, contro l’opinione del Kunkel (Diligentia, cit., p. 266 ss.), che in questo campo il concetto di ‘diligentia’ era applicato sin dalla prima età classica. Sull’accostamento fra tutela e curatela di diritto privato e curae publicae si veda anche A. Palma, Le ‘curae publicae’. Studi sulle strutture amministrative romane, Napoli, 1980, p. 15 ss. 254 Mentre la diligentia quam suis del marito aveva in epoca classica un significato competamente diverso: cfr. infra, nel testo. 255 Sulle riforme giustinianee delle azioni per la restituzione della dote, F. Goria, Azioni reali per la restituzione della dote in età giustinianea: profili processuali e sostanziali, in «Diritto e processo nell’esperienza romana. Atti del seminario torinese in memoria di G. Provera», Napoli, 1994, p. 205 ss. 256 Per Nörr, Die Fahrlässigkeit, cit., p. 50 nt. 1, al ‘dolus’ corrisponde nel testo la ‘malignitas’ (‘dolum … ne ex eius malignitate …’), alla ‘diligentia quam suis’ la ‘desidia’ (‘diligentiam … qualem circa suas res … desidia’): se ciò è vero, conferma che l’accezione data da Giustiniano nel contesto alla ‘diligentia quam suis’ del marito è proprio quella di diligenza attiva ed operosa, volta a migliorare le condizioni economiche della moglie, assimilabile a quella del tutore nei confronti del pupillo. 257 In questo senso hanno ragione coloro che negano che nella tutela sia mai stata applicata la diligentia quam suis nel senso comune del termine: così Fadda, Il buon padre di famiglia, cit., 173ss., e Sertorio, La ‘culpa in concreto’, cit., p. 15 ss. 258 Come già notato (§ 7) questi casi erano privilegiati nella ricostruzione pandettistica della diligentia quam suis, perché la figura era sempre intesa come attenuazione di culpa levis. 259 La proposta del Mommsen è recepita anche dagli editori italiani del Digesto «milanese». 260 Sul tema P. Panero Oria, D. 10,3,28 (Pap. 7 quaest.): responsabilidad por alteraciones en la cosa común, in «La responsabilidad civil», cit., p. 603 ss., e A. Murillo Villar, Disposición jurídica de la cuota y de la cosa común por uno de los condóminos, Madrid, 2000, passim. 261 Questa distinzione fra ‘pars pro diviso’ e ‘pars pro indiviso’ era già nota a Quinto Mucio: D. 50.16.25.1, Paul. 21 ad ed. Per ‘communio pro diviso’ si intende «quella situazione in cui una serie di partes pro diviso, oggetto di proprietà solitaria, configurano, sul piano sociale ed economico, un tutto: si pensi ai poderi risultanti dalla spartizione di un fondo di dimensioni maggiori, che si sentano ancora legati fra di loro dalla comune origine» (Talamanca, Istituzioni, cit., p. 410). 262 A tale consapevolezza di obbligare altri a sé per la concessione dell’actio negotiorum gestorum nella communio pro indiviso alludono anche D. 10.3.14.1, Paul. 3 ad Plaut., e D. 10.3.29, Paul. 2 quaest. 263 Un’assonanza con questo modo di vedere compare in una costituzione di età costantiniana (C.I. 4.35.21) in cui la pesante responsabilità per colpa del mandatario viene giustificata alla luce del principio che ciascuno in suis è ‘moderator atque arbiter’ e ‘pleraque ex proprio animo facit’, ma in alienis, una volta assunto l’incarico, non è esente da colpa, qualunque negligenza od omissione abbia commesso nell’amministrazione: Imp. Constantinus A. Volusiano pp. (a. 313-315 [?]): ‘In re mandata non pecuniae solum, cuius est certissimum mandati iudicium, verum etiam existimationis periculum est. Nam suae quidem quisque rei moderator atque arbiter non omnia negotia, sed pleraque ex proprio animo facit: aliena vero negotia exacto officio geruntur nec quicquam in eorum administratione neglectum ac declinatum culpa vacuum est’. Ciò è confermato dallo sch. Toutšstin di Taleleo al passo (Bas. 14.1.83 = C.I. 4.35.21, sch. 3), che richiama espressamente la diligentia quam suis: cfr. Nörr, Die Fahrlässigkeit, cit., p. 36. 264 D. 17.2.38.1, Ulp. 30 ad Sab.: ‘Si tecum societas mihi sit et res ex societate communes, quam impensam in eas fecero, quosve fructus ex his rebus ceperis, vel pro socio vel communi dividundo me consecuturum et altera actione alteram tolli Proculus ait’. 265 Cfr. per tutti Santucci, Il socio d’opera, cit., p. 289 ss., con la discussione della letteratura precedente: l’autore riferisce il principio al socio d’opera, in particolare nel caso di apporti personali di industria – «prestazioni d’opera … contrassegnate da particolare operosità e intraprendenza» – e gratia – «prestigio personale, credito, influenze e capacità di rapporti» (p. 294). Interpreta D. 17.2.72 secondo la tesi dominante anche De Buján, Sistema Contractual Romano, cit., p. 407. Da ultimo F.-S. Meissel, Societas. Struktur und Typenvielfalt des römischen Gesellschaftsvertrages, Frankfurt a.M., 2004, p. 291 ss., e Zur Konkurrenz von actio pro socio re und actio communi dividundo, in «Orbis Iuris Romani», V, 1999, p. 155 ss., individua correttamente un collegamento fra D. 10.2.25.16 e D. 17.2.72, ma poi non lo svolge ritendendo comunque il primo profondamente alterato. 266 Il primo a intendere così il frammento è stato, a quanto mi risulta, il Le Brun (cfr. supra, § 6). La spiegazione ritorna occasionalmente in qualche esponente della dottrina, ma non ha mai avuto grande seguito: così in A.F.J. Thibaut, sia nella recensione al volume di Hasse, Die Culpa des römischen Recht, pubblicata nel 1815 in Jahrbücher der Litteratur n. 60, p. 954, sia nel System des Pandekten-Rechts, cit., p. 130s.: chi cavalca su un cavallo comune – scrive Thibaut (rec. ad Hasse, cit., p. 954) – non può dire: puoi cavalcare alla morte la tua parte ideale, ma mantieni in salvo la parte ideale dell’altro … Del tutto naturale era allora la ricerca di una misura intermedia e nulla potrebbe essere più adatto della diligenza in concreto. La stessa spiegazione ritorna in Polacco, La culpa in concreto, cit., p. 19 s. 267 Tale prospettiva viene confermata dallo scolio Shme…wsai, Óti oÙ (n. 5) a Bas. 12.1.50 (= D. 17.2.52.1-2), ove si distingue fra il socio d’opera, che risponde per colpa omissiva se con la sua opera non avvantaggia la società, e il socio comproprietario della res communis, che risponde per colpa commissiva se reca danno al patrimonio comune: cfr. Nörr, Die Fahrlässigkeit, cit., p. 30 s. 268 Principio, peraltro, della cui classicità non si dubita: Mayer-Maly, De se queri debere, cit., p. 229 ss., e Triantaphyllopoulos, «De se queri», cit., p. 1065 ss. 269 Labeo, cit., B.2.1, p. 361; cfr. Mutzenbecher, Beiträge zur Lehre von der culpa in concreto, cit., p. 39 nt. 1 e p. 61, e Thibaut, che nella ricordata recesenzione al volume di Hasse, p. 953, precisa che il principio ‘de se queri debet’ non ha senso per la statuizione della culpa in concreto del socio, perché a) la limitazione vale anche nella communio incidens; b) anche negli altri contratti si sceglie un contraente; non è nemmeno possibile, per l’autore, richiamarsi alla particolare avvedutezza consigliata nella scelta del socio, perché allora lo stesso dovrebbe valere per locatio operis e mandato. La giustificazione del ‘de se queri debet’ è, invece, nel contesto, del tutto fondata per Mayer-Maly, De se queri debere, cit., p. 241 ss. e Triantaphyllopoulos, «De se queri», cit., p. 1065 ss. 270 Il titolo in cui il frammento è inserito tratta dell’actio rei uxoriae (cfr. Lenel, Palingenesia, cit., II, c. 642 ss., Ulp. n. 954): non c’è dunque ragione di riferire il passo all’actio legis Aquiliae, come sostenuto dal Glück (Commentario alle Pandette, cit., XXIII [cur. R. D’Ancona], Milano, 1898, p. 742). 271 Nel caso di fondato timore di prossima insolvibilità del marito, la moglie poteva anche agire con l’actio rei uxoriae constante matrimonio: D. 24.3.24.pr. 272 Sul tema, da ultimo, E.C. Silveira Marchi, «Periculum rei venditae» e «Periculum dotis aestimatae», in «Labeo», XLVII, 2001, specie p. 392 ss. 273 Ciò traspare anche dal finale del fr. 24.5. 274 Sul passo, la cui parte iniziale è riprodotta anche in D. 24.3.62, Ulp. 33 ad ed., e in generale sulla manomissione dello schiavo dotale, da ultimo, A.C. Fernández Cano, La manumisión del esclavo dotal, in «Labeo», L, 2004, specie p. 149 ss. 275 Così, ancora di recente, si è fatto da parte di De Buján, Sistema Contractual Romano, cit., p. 125, secondo cui il criterio della culpa in concreto si applicherebbe «a aquellas relaciones contractuales en las que las partes intervinienetes, en el momento de nacimiento, han contratado en atención a las concretas circunstancias personales de la otra parte contratante». |
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