Artikel vom 15. Nov 2012
© 2012 fhi
ISSN 1860-5605
Erstveröffentlichung
Zitiervorschlag/Citation:
http://www.forhistiur.de/zitat/1211testuzza.htm
1La crescente con-fusione tra born e made, che oggi fa parlare persino in termini di post-umano, ha in realtà messo a nudo ciò che non sfugge alla più attenta riflessione storico-giuridica: il carattere “artificiale” del soggetto-persona umana, in altri termini, il suo essere una “composita” astrazione, funzionale agli sforzi ordinamentali, versatile, multiforme e come tale difficile a decifrare1.
2I progressi della tecnologia sulla materia vivente, coi loro riflessi sulle scelte individuali e collettive che attengono al governo dei corpi, riescono a far percepire, in particolare modo nella sua drammatica ambiguità, la potenza di un dispositivo di lunghissimo periodo il cui effetto primario è stato la separazione di una zona umana fornita di altissimo valore, perché “animata”, razionale o volontaria, e un’altra, inferiore perché più vicina alla dimensione animale o a quella della cosa.
3Non stupisce perciò che nonostante l’originalità del nostro attuale scenario, i giuristi – più di altri chiamati ad interpretare e dirigere i difficili equilibri comunitari2 – insieme con gli storici, i filosofi e gli scienziati più inclini alla dialettica ed insofferenti ai pericolosi recinti degli “specialismi”, volgano anche sui modernissimi temi della c.d. bioetica lo sguardo al Passato. Non si tratta di una disperata resistenza al Presente, né tanto meno di cercare di rinvenirvi tout-court il titolo giustificativo di alcune aspettative odierne.
4La tradizione restituisce la proposizione, nel prolifico scambio tra medicina, teologia, legge e politica, sia pure talvolta in rapporto a ipotesi di scuola o poco frequenti nella pratica, di alcuni interrogativi che presentano una singolare vicinanza con quelli contemporanei3. Nel mondo occidentale, per lungo tempo segnato dalla strenua credenza e difesa di verità teoretiche certe – come tale lontano dal pluralismo morale, religioso, politico della nostra attuale società –, questioni, che una sbrigativa codificazione culturale potrebbe raffigurare come per allora chiuse, o non ancora nate, si presentano invece come problemi già sorti e suscettibili, almeno in qualche loro limitata parte ed entro ambiti e contesti storicamente definiti, di soluzioni “discutibili”.
5Affrontare i percorsi attraverso cui simili questioni sono emerse, mettere a confronto le diverse risposte, le procedure argomentative e lo sfondo etico entro cui esse si collocano, comprendere infine come tali logiche siano state assunte, imposte e trasformate nel complesso ventaglio di fonti normative, significa mettere – non strumentalmente – a disposizione della società contemporanea, assai complessa e “disciplinarmente” interconnessa, un consapevole e avvertito “progetto di lettura”. L’uomo moderno può del resto accettare che gli si rimproverino molte cose, ma – a voler utilizzare una boutade del sociologo canadese Jacques T. Godbout – non può certo accettare che gli si rimproveri di essere ingenuo4.
6Nel corso di questo breve studio ci si concentrerà sulla secolare disputa intorno all’“uso del matrimonio” nel caso di malattia. Nella società di antico regime, la ricorrenza del male, preesistente o sopravvenuto, spiegava importantissimi effetti su tale fondamentale “istituto giuridico-sacralizzante” di competenza esclusiva ecclesiastica, sia sul piano normativo sia su quello giurisdizionale. Come vedremo, oltre che sulla sorte degli sponsali, l’affezione faceva sorgere dubbi sulla validità delle nozze, sulla persistenza dell’obbligatorietà del c.d. debito coniugale e più in generale sull’ammissibilità e l’“utilità” di un’unione potenzialmente pericolosa.
7La patologia, per eccellenza esperienza soggettiva e collettiva, e il corpo malato, luogo privilegiato dei fantasmi individuali e della comunità politica, sono stati caratterizzati da sempre dai domini discorsivi di tipo religioso e di tipo sanitario. Le prossime pagine daranno conto di una fase in cui il rapporto di potere-sapere tra religione e scienza medica non si è ancora formalmente rotto a vantaggio di quest’ultima. Ad essere considerata sarà cioè quella lunga stagione europea che non conosce ancora il cambiamento profondo rappresentato dalla diffusione della diagnosi preventiva clinico-statistica. Le categorie utilizzate dalle decisioni giuridiche che investono il corpo e la vita individuale, in tale lungo arco cronologico, vengono perciò fornite, con un approccio tipicamente casistico, dai teologi e dai canonisti attraverso una riflessione che mostra però una significativa «porosità»5 al contributo della disciplina medica.
8Entro tali coordinate, il dibattito, che dalla sua prima enucleazione nel diritto comune ha un lunga proiezione sino alla piena età moderna, offre significative tematizzazioni. In tale composita trama è possibile cogliere infatti tentativi di “definizione” dello statuto ontologico-giuridico della persona; sforzi volti a regolare, rispetto ai corpi, la titolarità di poteri e doveri e considerazioni intorno agli interessi che la “gestione della vita” poteva o doveva soddisfare.
9La tradizione occidentale «ogni volta che deve riconoscersi» guarda all’esperienza canonistica medievale come al suo luogo originario6. Ed è in effetti tale esperienza ad organizzare – attraverso uno spregiudicato uso delle tecniche del diritto civile, ma confrontandosi con un universo che è prima di tutto religioso – «uno spettacolare ritorno» del corpo, e dei “diritti” sul corpo, «nel campo visivo dei giuristi»7. Lo suggeriva Filippo Vassalli nel suo aureo libretto scritto in uno dei periodi più drammatici del XX secolo8, ma è stato più di recente, sottolineato, con altri argomenti, da Jean Pierre Baud. Nel suo saggio L’affaire de la main volée, lo studioso francese, fortemente critico nei confronti della tradizionale ricostruzione di Michel Villey9, con l’insistere sulla non assimilabilità storica della nozione di persona con quella di individuo (pensato come unità naturale di corpo e anima), ha posto l’accento sul pragmatismo che avrebbe consentito ai giureconsulti romani di attribuire, almeno in via potenziale, ad ogni uomo, considerato come identità puramente civile, una forma più o meno sviluppata di personalità giuridica10. Nel modello romano il corpo, considerato quale res, sarebbe stato così distinguibile dalla “persona”. Una “cosa”, dunque, rientrante però, nel caso dell’uomo libero, nel regime delle sacralità, fuori dalla competenza del diritto civile11. A voler seguire la tesi di Baud, la lunga storia del diritto romano è così anche quella della «disincarnazione dei rapporti umani»12. Tuttavia a questa lunga tradizione giuridica guarderà, a distanza di secoli, la scienza canonistica medievale, e quella della prima età moderna, per trarre strumenti tecnici quando la disciplina “delle sacralità corporee” si porrà al centro dei suoi sforzi regolativi13. Sarà infatti tale scuola, come ha mostrato la più accorta storiografia, a riconoscere il requisito della realitas negli effetti di taluni patti. Si trattò di una forte tendenza volta a sottrarre dal campo delle obbligazioni tutti i rapporti di dipendenza stabili, per trasferirli ora in quello dello status personale, ora in quello dei diritti reali, ora addirittura in quello della norma consuetudinaria14. Il risultato fu quello di delineare, all’interno della visione cristiana e sul modello della servitù prediale, situazioni personali che, pur non limitando la formale libertà individuale, consentirono di configurare diritti su uomini, in tale concezione, necessariamente “incarnati”.
10Il rapporto tra malattia e relazioni matrimoniali come già anticipato offre un punto di osservazione privilegiato su alcuni aspetti di tali vicende15.
11La riflessione prende le mosse in relazione al vecchio flagello biblico: la lebbra. La deturpante affezione, a cui l’antropologia cristiana attribuiva tipicamente una forte e ambigua valenza morale, stigmatizzava anche socialmente le sue vittime16. La tendenza a considerare la malattia legata al divinum iudicium 17 e la paura del contagio legittimarono del resto una radicale profilassi che si espresse talvolta, soprattutto nella legislazione alto-medievale, in una formula capace di imprimersi sul lebbroso e nell’immaginario europeo per la forza evocativa e liturgica: «tamquam mortuus habetur» 18. Una serie di interdizioni, prevalentemente di ordine sanitario, volte nel loro complesso ad assicurare il contenimento dell’endemia e a tenere a margine della popolazione sana il malato, scandirono però, con differenze notevoli da luogo a luogo, la vita degli infetti. Può in tal senso essere improprio descrivere il lebbroso del medioevo in via generale come giuridicamente «mort quant au siècle»19. Intorno alla sua figura si andò infatti delineando, soprattutto nel corso dei secoli XII e XIII, una sorta di status deficitario, particolarmente “stimolante” per lo storico.
12Michel Foucault ha indicato come cruciale, per la comprensione della moderna razionalità politica, la sostituzione, realizzatasi nel corso del XVIII secolo, delle pratiche di “esclusione” riservate ai lebbrosi con quelle di “inclusione” destinate agli appestati20. Tuttavia può essere interessante soffermarsi sul modello teologico-canonistico costruito sul caso della lebbra, con specifico riferimento al legame matrimoniale, perché esso in effetti consente già di cogliere gli estremi di una osservazione che, fine e meticolosa, arriva a toccare in maniera sempre più vicina la vita dei singoli, sani e infermi, “normali” e “anormali”. Non a caso tale morbo, anche quando alla fine del Medioevo sarà divenuto per gli Europei prevalentemente un’infezione tropicale, continuerà a rappresentare la «Malattia per eccellenza»21. La sua disciplina, continuamene commentata e modificata, verrà considerata espressamente estendibile anche alle altre patologie contagiose e sarà essa stessa a fornire principi di trasformazione e di innovazione22.
13Due decretali (Pervenit ad nos e Quoniam nemini) di Alessandro III23, insieme ad una terza epistola di Urbano III (Litteras), prima inserite in una della più antiche compilazioni di diritto canonico e poi raccolte nel quarto libro del Liber Extra sotto il titolo De coniugio leprosorum 24, godranno di larghissima fortuna e verranno citate quali importanti auctoritates anche nel dibattito europeo dei secoli successivi. In questa sede degne di attenzione sono sopratutto le prime due25 perché è intorno a queste che si è sviluppata un’analisi dettagliata «sul corpo oggetto di diritti»26. Esse condensano infatti le principali e tradizionali linee di forza che faranno della singolarissima definizione dello jus in corpus l’asse portante del matrimonio canonico27 e, con progressivi assestamenti e significative precisazioni, il criterio risolutivo di alcune controversie a sfondo, diremmo oggi, bioetico e biogiuridico.
14Il pontificato di Alessandro III (1159-1181) si colloca in anni in cui lo slancio demografico e la ripresa degli scambi avevano favorito in tutto il continente una forte recrudescenza del male. I lebbrosari, testimonianza di «una società in cui la solidarietà delle comunità allargate» sostituisce progressivamente e parzialmente «quelle del gruppo familiare»28, iniziano a contraddistinguere il panorama dell’Europa occidentale già comunque profondamente segnato dalla prassi consuetudinaria («de consuetudine generali») di separare dalla “compagnia delle persone” («a communione hominum») il lebbroso29.
15Con queste due epistole, il papa si pronunciava perciò sul trattamento da riservare ai coniugi nel caso in cui uno dei due fosse stato colpito dalla sciagurata infezione e sulla sorte del loro matrimonio30. Consideriamo sinteticamente gli argomenti utilizzati dal grande pontefice-giurista, perché sono quelli su cui si svilupperà la fecondissima attività esegetica.
16Interrogato dall’arcivescovo di Canterbury, nella prima decretale, il papa richiamava innanzitutto il fondamentale tema genesiaco dell’unione dei due corpi, divenuti a seguito del matrimonio una sola carne (una caro)31. Per l’indissolubilità del legame che ne derivava, il coniuge sano doveva perciò esser restituito a quello infermo. La questione era affrontata più specificamente sotto il profilo della coniugalis affectio 32. A detta del papa, l’alto prelato avrebbe dovuto indurre, sollicitis exhortationibus, il coniuge sano a seguire quello malato e a continuare così a ministrare la coniugalis affectio. Diversamente, gli sposi, uniti comunque in matrimonio, avrebbero dovuto scegliere, a pena di scomunica, la continenza33.
17Nella seconda decretale indirizzata al vescovo di Bayonne sono offerti poi ulteriori dati normativi34. Non soltanto non si sarebbe dovuto allontanare il coniuge malato da quello sano, ma quest’ultimo non avrebbe potuto altresì dimittere l’altro a causa della grave infermità. Niente è più umano che condividere tra gli sposi la sorte avversa, commenterà Enrico da Susa35, ma Alessandro III applicava al riguardo, con una netta intonazione giuridica, il vessatissimo inciso di Matteo. La fornicazione costituiva «ex multis auctoritatibus et praecipue ex evangelica veritate»36 l’unico caso in cui una separazione poteva essere ammessa37.
18Nell’epistola il pontefice infine, oltre a riconoscere esplicitamente ai lebbrosi la libertà di contrarre matrimonio qualora non avessero voluto osservare una vita di continenza e avessero trovato qualcuno disposto a sposarli38, affrontava un’ultima importante questione. Nel caso in cui il malato avesse richiesto l’adempimento del carnale debitum, il coniuge sano avrebbe dovuto soddisfarlo. L’esortazione paolina che enunciava il potere reciproco di ciascun coniuge sul corpo dell’altro39, veniva indicata dal pontefice come generale precetto per il quale non poteva prevedersi alcuna eccezione.
19Come dicevamo, queste decretali non solo richiamano alcuni degli aspetti più tipici e originali, “juscorporalisti”, del matrimonio canonico, ma costituiscono anche il nucleo di una lunghissima elaborazione.
20Le annotazioni che verranno apportate dai decretalisti a queste statuizioni pontificie ben mostrano innanzitutto come fosse estranea alla realtà normativa e culturale dell’età intermedia la considerazione di una qualunque “primarietà” degli ordinamenti giuridici positivi. La consuetudine – altera lex, come la definirà ancora nel suo commentario della fine del secolo XV Antonio da Budrio40 – che voleva una separazione dei malati dal resto della comunità era senz’altro – si legge nella Glossa Ordinaria –, approvata dal diritto canonico, ma nella misura in cui avesse comportato la separazione dei due coniugi essa sarebbe diventava senz’altro una mala consuetudo 41 perché in violazione dei, ben più alti, principi evangelici42.
21È stato autorevolmente osservato che se si guarda al mondo medievale con l’intento di cogliere gli aspetti che più lo tipicizzano, a venire subito alla vista è questo fermo postulato della sotto-ordinazione “formale” di tutte le grandezze umane ad un assetto superiore43. Il primato dello ius divinum non rispondeva infatti solamente ad una esigenza fideistica, ma assolveva anche una funzione lato sensu pubblicistica e costituiva una realtà tangibile perfettamente rilevabile, sotto vari profili, dal giurista. Lo dimostra ad esempio l’Ostiense che, proprio in relazione all’adempimento del debito coniugale nel caso di malattia, osservava nella sua Lectura come non ci si dovesse limitare alla ricerca di un qualche diritto positivo espresso e speciale per imporne la prestazione. La legittimazione piuttosto poteva discendere ex praecepto apostoli et ex iuribus generalibus positivis 44
22La stessa facultas contrahendi matrimonium, riconosciuta – come appena visto – da Alessandro III ai lebbrosi, testimonia, per altri versi poi, la precocissima tendenza ad immaginare, sulla base di un diritto superiore (de iure divino), un articolato sistema di diritti individuali45. «A legally safeguarded zone of personal freedom», costituita da pretese individuali azionabili processualmente e opponibili, entro certi limiti, anche nei confronti delle diverse autorità mondane46.
23Se la logica intrinseca a tale universo culturale non consentiva dunque che gli ordini giuridici terreni, coesistenti e operanti l’uno accanto all’altro, potessero arrivare a contraddire i precetti divini, che li fondavano e legittimavano, questi ultimi tuttavia dovevano essere pur sempre interpretati. Anche per la disciplina del coniugium leprosorum si rendeva perciò necessaria una corretta intelligenza del debito coniugale. Il principio apostolico dal quale discendeva era infatti sì un precetto generale che generaliter est intelligendum, tuttavia – precisava Bernardo da Parma – il precetto indefinito poteva equivalere, regulariter, a precetto universale, a condizione che non fosse stato più specificamente, lege vel canone, determinato47.
24Fu questa la via attraverso cui si individuarono e svilupparono le questioni sottostanti.
25La regola generale, confermata dalle decretali pontificie, escludeva dunque che il coniuge sano potesse separarsi da quello malato, con conseguente invalidità di ogni statuto e consuetudine contraria48. La lebbra non scioglieva del resto le nozze legittimamente contratte49 e la pretesa del debito coniugale anche in questo caso avrebbe potuto ottenere una rigorosa tutela giudiziaria50.
26I canonisti, chiamati a discutere de executione matrimonii 51, si confrontavano, tuttavia, con una realtà, come accennato, largamente caratterizzata dalla segregazione degli infetti in apposite comunità (domus leprosorum) e dal convincimento che fosse proprio la convivenza abituale ad essere una delle principali cause di trasmissione del male52. Occorreva perciò ragionare su tale importante dato. Nello sforzo di contemperare l’assoluto rispetto della legge divina e gli interessi sanitari in gioco si osservava così ad esempio che ministrare l’affectio e il debitum non significava certamente mantenere il dovere della coabitazione53. Ciò valeva soprattutto in presenza di figli che avrebbero rischiato il contagio e che dunque avrebbero dovuto dimorare con il genitore in salute54. Il coniuge sano del resto non avrebbe potuto seguire sempre quello malato anche per la stessa organizzazione della domus leprosorum 55. Il fatto che molte comunità fossero ad esempio istituzioni religiose suggerì all’Ostiense di tollerare, in presenza di precisi presupposti che garantissero soprattutto la continenza, una separazione di fatto dei due coniugi, estendendo a tutte le ipotesi di ingresso in lebbrosario le condizioni previste per l’ingresso in religione56.
27Dal punto di vista teorico di difficile soluzione rimanevano comunque le questioni sollevate proprio dall’adempimento della prestazione sessuale, nell’ipotesi in cui il coniuge malato non avesse voluto essere “defraudato del suo debitum”, e non avesse accettato, spontaneamente o previa ammonizione ecclesiastica, la continenza. Alcuni talvolta – lo ricordano ad esempio sia Bernardo da Pavia57, sia Enrico da Susa58– distinguevano tra una forma di lebbra capace di trasmettersi con il contatto fisico e una meno contagiosa, e ritenevano legittimo il rifiuto della prestazione nel primo caso. Si trattava però, a detta dei celebri dottori, di una distinzione che non trovava alcun avallo nei canoni e che doveva essere rigettata come superstiziosa. Per altri versi appariva fermo sulla base dei testi paolini e della teoria agostiniana dei tre bona nuptialia il postulato secondo cui ciascun coniuge con il perfezionamento del matrimonio59, avesse definitivamente dismesso a favore dell’altro ogni potestas sul proprio corpo e a fronte di ciò acquisito il diritto di pretendere il debito coniugale, a fini procreativi o destinandolo a remedium fornicationis 60.
28Il nesso tra potestas e debitum, ricavato dai testi scritturistici e patristici, come è noto, legittimò però anche per il diritto coniugale il ricorso allo schema delle servitù prediali e della quasi possessio. Con il matrimonio ciascuno dei due coniugi avrebbe perciò dovuto sopportare in realtà solo un usus del diritto da parte dell’altro, usus che avrebbe mostrato tuttavia una peculiare natura di obbligazione personale61.
29Per il caso della malattia, nello sforzo pregevole di cogliere il vero e principale quid iuris, poteva così osservarsi dunque che l’orrore dell’infermità sarebbe stato in grado di rendere la prestazione effettivamente impossibile. A fronte di tale eccezione a nulla quindi sarebbe giovata la sentenza di scomunica, e se irrogata questa avrebbe dovuto essere relaxata 62.
30Ancora, l’altissimo rischio di contagio, – come chiariva Giovanni d’Andrea laico, professore di diritto canonico in tante università italiane – avrebbe sollevato l’uomo ethicus dal rendere il debito poiché «ordinata charitas est ut prius sibi consulat»63. L’utilizzo di questo celebre adagio64 ripreso anche da Antonio da Budrio65 e da Niccolò Tedeschi, suo allievo, tra i maggiori canonisti di tutto il medioevo tardivo66, faceva dunque sì che per il fondato pericolo dell’infezione il debitore potesse legittimamente – argomentano i nostri giuristi – con il rifiuto tutelare l’incolumità della propria persona.
31In un contesto in cui è completamente illogico legare il governo di sé all’idea stessa di una sovranità assoluta ed esclusiva sulla propria vita e sul proprio corpo, “l’ordine della carità” si spiegava, fuori da esigenze individuali, entro l’ambito del diritto naturale e di un’economia di salvezza. I grandi teologi consentono di chiarire meglio il quadro. Il matrimonio attraverso il quale è dato ad entrambi i coniugi una potestas in corpore alterius respectu carnalis copulae 67 – scrive Tommaso d’Aquino commentando le Sentenze di Pietro Lombardo –: «fu istituito come compito naturale, quindi nel suo atto bisogna considerare il moto della natura secondo il quale la facoltà nutritiva fornisce alla generativa solo ciò che sopravanza alla conservazione dell’individuo: poiché l’ordine naturale esige che uno completi se stesso, e successivamente trasmetta ad altri la propria perfezione»68. La conservazione di sé rappresentava dunque in tale ottica un limite esterno che il debitore avrebbe dovuto considerare nell’adempiere la propria prestazione69.
32Nella ricca trattazione scolastica emergevano però anche altre argomentazioni. Il lebbroso, come accennato, era destinatario di una serie di limitazioni della sua capacità giuridica fra cui vi era l’inabilità ad accedere agli ordini sacri e, per chi fosse stato già ordinato, l’inabilità a somministrare i sacramenti. Poteva dunque parlarsi nel caso di lepra superveniens di una inabilità ad debiti solutionem? Le due ipotesi non erano simili – si osservò – dal momento che, a differenza del caso di irregolarità, il malato, riguardo alle nozze, conservava una piena libertà di contrarre e il perfezionamento del vincolo matrimoniale, per la sua indissolubilità, faceva salvo il debito70.
33Di particolare nota in questa sede è poi la riflessione intorno all’interesse dei “non ancora concepiti”. Dal momento che la lebbra era ritenuta un morbus haereditarius, ci si chiese se costituisse un ostacolo legittimo all’adempimento del debito il rischio di procreare una prole deforme71.
34Tutti i grandi dottori – tanto Bonaventura, quanto l’Aquinate, così come Riccardo di Mediavilla72 e a distanza di qualche anno Pietro della Palude73 – rimasero concordi nell’escludere quale causa di rifiuto della prestazione la sola protezione dei nascituri (ad vitandum periculum prolis).
35A nulla sarebbe giovato fare riferimento a quanto previsto intorno all’uso del matrimonio durante il mestruo. Anche in questo caso l’atto avrebbe esposto, secondo un’antichissima tradizione, al pericolo di una prole lebbrosa, elefantiaca o mostruosa. In considerazione di ciò ai due sposi veniva raccomandata l’astinenza e giustificato, entro limitatissime circostanze, il rifiuto della prestazione74. I coniugi avrebbero del resto potuto bonam prolem procreare negli altri giorni.
36Questa situazione non era comune invece ai lebbrosi, il cui stato di infermità era continuo e non momentaneo. Per essi il rifiuto del debito avrebbe comportato un più alto rischio di incontinenza. Tanto più che secondo una credenza diffusa, a cui si rifarà con ben diversi esiti la scienza medica ufficiale ancora molti secoli dopo75, questo tipo di affezione provocava nei malati un’irresistibile tendenza per i piacere sessuali. Nel bilanciare gli interessi in gioco, si rilevò che nessun grave pregiudizio si avrebbe propriamente avuto sotto il profilo del bonum prolis. Sulla scia dell’ammonimento agostiano «Melium est esse miserum quam omnino non esse»76, si osservò infatti che anche se i figli fossero nati malati sarebbe stato comunque meglio per essi esistere così piuttosto che non esistere affatto. Un danno maggiore sarebbe derivato dalla non generazione (« [...] magis esset contra prolis bonum si leprosi nunquam generarent quam si proles nunquam nasceretur ex eis»). Ad essere utilizzato un tòpos che mostrerà nei secoli le sue molte valenze dogmatiche e che segnerà la tradizione giuridica occidentale anche quando questa si sarà ormai formalmente emancipata dall’accoglimento di specifici concetti teologici. Seguendo tale impostazione, nessun uomo, nessuna autorità umana, nessuna scienza avrebbe potuto esibire o dare un valido titolo per rendere illegittima un’unione dalla quale sarebbe potuto nascere un infermo.
37Le opere teologico-giuridiche della prima età moderna, per l’accentuato approccio insieme enciclopedico e casistico, offrono nuovi approfondimenti e differenti sviluppi.
38Nella nota Summa theologica di S. Antonino si citano così le autorità antiche, se ne sintetizzano le conclusioni, ma si approfondiscono anche nuovi dati. Nel valutare il rischio di contagio, bisogna accordare fiducia ai medici – si legge a testimonianza di una crescente attenzione per la medicina – e questi sostengono probabilità diverse di trasmissione tra uomo e donna77. Fuori dal grave pericolo di salute dei coniugi – aggiunge comunque l’arcivescovo fiorentino – a nessuno può essere proibito di esercitare un proprio diritto, anche a costo del concepimento di figli malati, e soprattutto quando si tratta di evitare un pericolo spirituale incombente78.
39Nella Summa Angelica, il diffusissimo manuale quattrocentesco per i confessori, con l’escludere in maniera decisa che la scelta di non procreare potesse giustificare il rifiuto della prestazione del debito coniugale, si sottolineava invece, citando l’autorità di Riccardo di Mediavilla, l’aspetto inverso: nessuno può essere tenuto ad esercitare un proprio diritto. Non si ha l’obbligo di chiedere a meno che – precisa Angelo Carletti – la mancata richiesta possa risolversi in un pregiudizio per l’altro coniuge esposto al rischio di cadere in fornicazione79.
40Ma al lettore moderno la Summa Angelica offre anche una singolarissima analisi sulla configurabilità di un’eventuale responsabilità dei genitori per la procreazione di figli malati. Ancora una volta lo spunto fu dato dai dubbi che nascevano intorno all’uso del matrimonio durante il periodo mestruale. In questo caso come già visto, la considerazione del bonum prolis assumeva una valenza centrale tanto da giustificare lo stesso rifiuto del debito nell’ipotesi in cui si trattava di un flusso naturale, e non patologico, che non esponesse dunque perpetuamente i coniugi alla fornicazione. L’autore della Summa tuttavia, concentrandosi massimamente sull’aspetto interiore del fatto, distingueva alcune ipotesi in cui il pericolo di generare una prole lebbrosa avrebbe potuto rilevare diversamente. Certamente i coniugi avrebbero peccato mortalmente se, prefigurandosi tale ulteriore evento, avessero esatto e reso il debito per pura libidine. Seppure Angelo Carletti non lo dica, c’è da credere, seguendo la logica da lui usata, che il peccato mortale sarebbe sorto comunque a prescindere dalla reale procreazione. Differente sarebbe stato il caso in cui i due, rappresentandosi il rischio della prole deforme, avessero esercitato il diritto sul corpo dell’altro per evitare di cadere in fornicazione. I coniugi non sarebbe incorsi in peccato né nel chiedere né nel rendere perchè si sarebbe trattato comunque di una condotta lecita: l’uomo deve preferire infatti la sua salute (spirituale) e quella del suo prossimo alla protezione del corpo altrui, chiosava Angelo Carletti.
41Nell’ipotesi in cui i due avessero agito invece trascurando inconsapevolmente il periculum prolis si sarebbe dovuto ulteriormente distinguere. Essi non avrebbero peccato mortalmente, anche se fosse nata una prole malata, qualora fossero ricorsi al debito per sfuggire alla fornicazione. Nonostante non si avesse utilizzato la dovuta cura, con il “chiedere e rendere” causa fornicationis vitanda si sarebbe rimasti pur sempre nell’ambito delle azioni consentite (quare tunc debet operam rei licite). Nel caso in cui i coniugi avessero agito invece per semplice diletto, il verificarsi dell’evento, ancorché non voluto né meramente immaginato, avrebbe fatto dipendere il sorgere della loro responsabilità. Trattandosi di un fatto-base illecito (la prestazione del debito per pura libidine), l’effettiva nascita dei figli malati li avrebbe fatti incorrere perciò in peccato mortale (quare dedit operam rei illicite 80).
42In una esperienza a cui era estraneo il confine rigido tra morale, diritto e teologia e tra delitto e peccato, accanto alla costruzione che ruotava intorno all’argomento del melius esse quam non esse, ne veniva dunque proposta anche una profondamente diversa che di fatto arrivava a contemplare anche una forma di responsabilità oggettiva riguardo alla generazione di soggetti infermi.
43Un riassestamento completo di tali questioni si ha tra i secoli XVI e il XVII soprattutto ad opera dei teologi-giuristi spagnoli. L’esperienza della Seconda Scolastica, e la successiva riflessione teologica tridentina e post-conciliare, sono infatti, anche su questi temi, gremite «di istanze e di presentimenti» e contrassegnate «da una intima modernità di discorso»81.
44Le osservazioni, quasi sempre proposte sotto forma di risposte a dubbi e difficoltà sollevate dai testi delle antiche autorità, hanno l’effetto di porre su un piano di attualità le tradizionali fonti. Ad essere seguita, sebbene si tratti di vicende che spesso non travalicano il foro interno del confessionale o quello della coscienza – «segreto intermedio tra il giudiziario e il sacramentale»82 – è, ancora una volta, una procedura argomentativa tipicamente giuridica che ha ad oggetto lo ius in corpus e il suo esercizio. La progressiva risistemazione dogmatica del matrimonio – in risposta alla posizione dei riformatori – come incontro inscindibile di sacramento e intenzione coniugale non impedisce infatti di continuare a ricorrere alla logica dei diritti patrimoniali insieme a quella contrattuale per spiegare l’accesso alla corporeità83.
45Su queste basi, col ragionare intorno alla vincolatività del debito coniugale, Domingo de Soto ad esempio ne confermava il carattere precettivo e si sforzava di chiarirne la natura. I coniugi erano tenuti ex necessitate praecepti a rendere il debito per i fini propri del matrimonio. Ciò si sarebbe tradotto – stando alle parole del domenicano – in una mutua corporum traditio finalizzata a tale uso. Essa faceva sorgere certamente una obligatio, nel senso che «in re gravi, sub reatu mortalis culpae genere suo utrumque coniugium perstringit», riconducibile però all’interno del genus quoddam servitutis 84 .
46Come negare dunque legittimamente l’uso del diritto sul corpo? Occorreva avvicinare i frutti di questa ingarbugliata elaborazione teorica alle circostanze della vita quotidiana. Non sempre – si sosteneva così – la richiesta dell’atto è avanzata sub intentione obligandi sub peccato mortale. Il rifiuto in tale evenienza non sarebbe stato causa di responsabilità, dal momento che il creditore non sempre esige pecuniam sibi debitam sub illa ratione. Ancora, ciascuno nell’esercitare il proprio diritto deve usare la giusta misura (modus adhiberi), perciò il coniuge non è tenuto a obbedire ad nutum alla richiesta dell’altro85.
47Si riproponeva con ciò la quaestio difficilis 86 della malattia, soprattutto quella grave, contagiosa ed ereditaria. L’argomento dell’orrore eventualmente provato dal coniuge sano, che poteva rendere, anche a pericolo di contagio scampato, impossibile e dunque nulla l’obbligazione87, continuava ad essere ricorrente, ma naturalmente fu il principio della “conservazione di sé” a costituire il fulcro dell’intera riflessione («neuter teneri alteri debitum reddere cum detrimento saluti conservatricis proprii individui»88). Giovava a tale scopo lo schema della condizione volontaria implicita, «nullus se obligat per matrimonii contractum, ad reddendum, nisi salva individui incolumitate»89, tuttavia, come spiegava diffusamente Tomás Sánchez nel celebre Libro IX delle sue Disputationes 90, sarebbe stato comunque illecito rendere il debito, quando vi fosse stato iudicio medicorum, un notabilis infectionis periculum 91. Nessuno ha il dominio sulla vita – scriveva il gesuita – e ciascuno è obbligato a salvaguardarla con una moderata cura e a non esporla se non a condizione di una urgentior causa 92. Ed invero esporsi ad una così invalidante malattia, osservava Miguel de Palacio, avrebbe comportato un molestissime vivere, equivalente in tutto e per tutto alla morte93.
48La medesima ratio sarebbe stata applicabile perciò anche all’ipotesi in cui la prestazione del debito potesse comportare un rischio di infermità solo per il richiedente. Non si consegna la spada ad un furioso, non si è tenuti d’altronde – affermano generazioni di dottori – a consegnarla nemmeno al proprio signore qualora questi voglia uccidersi94.
49La sacralità della vita, non rendeva dunque di per sè illegittimo disporre del proprio corpo, quasi come si trattasse di una res, così come non censurava il fatto che su di esso potessero gravare diritti contrapposti, poneva piuttosto dei fondamentali limiti al loro uso.
50Dubbia diventava così ad esempio l’ipotesi in cui il coniuge sano sapesse, già prima delle nozze, del morbo contagioso dell’altro. In ogni contratto il vizio conosciuto è di per sé accettato – osservano alcuni – e come tale obbliga i contraenti alle loro prestazioni, come se questo non esistesse95. Non manca però chi fa notare che i due casi non sono equiparabili. Chi compra una cosa che sappia essere viziata, col fare ciò rinuncia ad un diritto che bene può essere rinunciato, per il coniuge invece viene in considerazione la salute, un bene di cui non è signore96.
51La questione tuttavia cominciava ad essere esaminata sempre più specificamente sotto il profilo dei rapporti tra interesse privato e bene pubblico. La reddizione del debito sarebbe diventata dovuta, anche a scapito dell’incolumità fisica, osservava Sánchez, se ciò avesse giovato ad bonum commune totius universi, sive regni, sive communitatis ad sui conservationem. Il giurista di Cordova poneva l’esempio, che dichiarava meramente metafisico, del rischio di estinzione della specie umana, e, quello, assai più legato all’esperienza pratica ed ad una nuova e forte ragione politica, del pericolo di compromettere la potenza del regno97. L’indisponibilità del corpo alle ragioni individuali avrebbe dunque potuto cedere di fronte alla giurisdizione dispositiva dello Stato.
52Qualche decennio dopo l’austriaco Paul Laymann, confessore di Ferdinando II, su queste stesse basi, rovescerà ormai l’antico schema di orientamento medievale: il diniego del debito è dovuto quando ciò lo impongano le consuetudini locali che proibiscono, per evitare il contagio pubblico, l’accesso ai lebbrosi98.
53Si trattava dunque di un’analisi complessa che, nel cogliere la presenza del potere politico, del potere medico e del potere individuale, disegnava un più ampio campo di forze e indicava già i diversi itinerari che verranno solcati per secoli in tutta Europa.
54La riflessione della Seconda Scolastica investe anch’essa, con importanti approfondimenti e fornendo spunti innovativi, il problema della legittimità del rifiuto della prestazione sessuale sotto il profilo del bonum prolis. Lo sguardo, in tale particolare orizzonte etico, cade nuovamente su figure limite della soggettività, che non si muovono ancora nella scena della realtà, ma che sono tuttavia considerate in quella del discorso teologico-giuridico99. Non solo i concepti dunque, per i quali si moltiplicano ormai i casi di conflitto con la madre100, ma anche i meramente concipiendi.
55La problematizzazione nasceva, come è ovvio attendersi, in considerazione delle due tradizionali ipotesi di copula implicante un rischio di infermità per i nascituri: quella richiesta durante il mestruo e quella richiesta in presenza di un male contagioso ed ereditario.
56Con riferimento al primo caso, se si guarda ancora una volta al massimo monumento della matrimonialistica controriformistica, l’opera di Tomàs Sànchez, sono due ormai le tesi principali che si contendono la scena. Secondo una prima ricostruzione sarebbe stato certamente responsabile il coniuge che avesse richiesto il debito durante il periodo mestruale cum prolis detrimento 101. È vero che a ciascuno è consentito di esercitare il proprio diritto anche quando ne possa derivare praeter intentionem un danno per un terzo, ma ad un più attento sguardo (re oculatius inspecta) – scrive Sánchez nel riferire tale opinione – il diritto all’accesso coniugale è subordinato al bonum prolis, e a quest’ultimo deve essere rivolta dunque una primaria attenzione. Dal momento che il flusso mestruale dura solo pochi giorni il coniuge, che non aspetta il decorso di questo breve lasso temporale, dunque sicuramente delinque mortalmente, salvo che egli sia mosso dalla volontà di fuggire l’incontinenza102. Questo composito orientamento, non era tuttavia accolto dall’autore del De Sancto matrimonii Sacramento. A stranizzarlo soprattutto l’opinione di Angelo Carletti che, come abbiamo visto, a determinate condizioni, aveva previsto una sorta di responsabilità oggettiva dei genitori, facendo dipendere il sorgere del peccato mortale dalla effettiva procreazione di figli gravemente deformi. «Non so come questo si possa validamente sostenere» dichiarava il gesuita spagnolo «quia qualitas culpae ex causa data consurgens, ex meritis causae, quae volita fuit, et non ex futuro eventu omnino iam involuntario pendet»103.
57Tomàs Sànchez aderiva piuttosto alla diversa tesi, anch’essa raccolta nella sua opera, secondo la quale non si sarebbe potuto parlare di peccato mortale. Una tale responsabilità del genitore sarebbe stata da escludere affrontando la questione proprio sotto il profilo del danno ai nascituri. La colpa mortale era infatti da rifiutare non soltanto perché il concepimento in questi casi sarebbe stato estremamente raro (ratione incertitudinis damni), ma soprattutto perché per la prole sarebbe stato meglio comunque nascere «cum tali morbo, quam non esse [...]». Non gli sfuggiva del resto che la nozione di danno dovesse coincidere con quella di privazione o di diminuzione: nei confronti dei figli si sarebbe dovuto parlare perciò, piuttosto che di un nocumento, di un beneficium 104.
58A meno che, quindi, si fosse agito per evitare il pericolo di fornicazione, evenienza che avrebbe escluso definitamente ogni colpa, in capo al genitore richiedente sarebbe sorto, ratione turpitudinis et indecentiae, solo un peccato veniale per avere avuto un rapporto sessuale durante il periodo in cui la donna era da considerare “immonda”105.
59Per il coniuge a cui era stata rivolta la richiesta, stando a tale impostazione, il debito non sarebbe stato solo dunque consentito, ma addirittura sempre dovuto. È ancora una volta Sánchez a prevedere però, con una sensibilità incredibilmente vicina a quella contemporanea, un’ipotesi di rifiuto legittimo. Andando per astrazioni, egli proponeva di mettere da parte ogni preoccupazione circa il pericolo di fornicazione dell’altro coniuge, ipotesi che dichiarava però moraliter impossibile, e si chiedeva come si sarebbe dovuta comportare la moglie a fronte della domanda di un amplesso che avrebbe portato molto probabilmente al concepimento di un monstrum. Secondo il gesuita spagnolo questa sarebbe stata l’unica occasione in cui la donna ben avrebbe potuto negare il debito, non nell’interesse dei figli nascituri, dal momento che per costoro non vi era danno, ma nel proprio esclusivo interesse. Come sempre accade in questa lunga tradizione, mettendo in rilievo la sottile superficie di contatto dell’anima con il corpo, egli infatti osservava: quale danno è maggiore che avere una prole così tanto sofferente, quale dolore è equiparabile a quello di una madre che per sempre ha dinnanzi agli occhi un figlio così tanto malato?106
60La logica del melius esse quam non esse poteva ricevere una chiara applicazione anche nel caso del coniugium leprosorum. In presenza di una malattia contagiosa ed ereditaria il debito sarebbe stato, come mostrava ormai la secolare elaborazione, certamente dovuto. Con il solo limite di far salva la propria vita, il coniuge avrebbe infatti dovuto rendere la prestazione, primariamente per evitare il pericolo di fornicazione dell’altro. A tale scopo ben avrebbe potuto sopportate un più modesto nocumento fisico per se stesso107 e accettare un’infermità grave per i figli. A nulla invece sarebbe giovato fare riferimento ad una iniuria prolis dal momento che «consequitur enim vitam ex eo concubitu, ac melius illi est leprosa exsistere, quam omnino non esse»108.
61In questa lunga e attenta disamina l’argomento fu opposto anche ad altre eccezioni.
62Come considerare ad esempio la condotta di chi, sposato ad una persona di origine giudaica o saracena, avesse negato la prestazione per evitare di concepire figli ex maculato sanguine? L’interrogativo era diventato di grande momento per i professori spagnoli impegnati ormai nelle Indie109. Tale rifiuto sarebbe stato causa di peccato mortale110: il matrimonio è perfettamente valido, – affermano i giuristi-teologi – e il diritto all’amplesso può sicuramente considerarsi acquisito111. Non si sarebbe potuto del resto immaginare per il figlio nessun danno: meglio infatti essere «maculado que no tener ser ninguno»112.
63Come valutare invece il motivo della indigenza familiare? La questione se fosse o meno legittimo il rifiuto del debito in considerazione della povertà a cui sarebbero stati destinati i figli, non fu risolta nel consueto modo, per lo meno non sempre113. Domingo de Soto, ammise non soltanto che tale ragione potesse giustificare, col consenso di entrambi i coniugi, una scelta di astinenza, ma che anche il singolo, ancorché si trattasse di un’ipotesi assai dubbia, potesse validamente rifiutarsi per il timore di non poter alimentare la prole, quando non vi fosse periculum alterius pollutionis 114. Alla stessa condizione, lo stesso Sánchez, invocando una regola del diritto delle obbligazioni («ab aliis iustitiae debitis persolvendis excusat magna incommoditas»), ammise la recusatio alterius 115 . Con tale soluzione si componevano però interessi diversi. Sarebbe stato inadeguato introdurre per fictio l’interesse dei non ancora concepiti, dal momento che si trattava infatti di tutelare in questo caso la posizione dei figli già nati o, come ha sottolineato John T. Noonan, di salvaguardare la reputazione socio-economica del nucleo familiare116.
64Nel più rigoroso ancoraggio alla tradizione, il riferimento al danno alla prole non concepta e l’argomento del melius esse quam non esse, venivano perciò utilizzati come strumenti di individuazione di interessi collettivi o generali che il discorso teologico-giuridico tendeva a perseguire attraverso la regolazione del comportamento dei coniugi.
65Come è noto, il dibattito intorno al pregiudizio sofferto dal nondum conceptum tornerà, con una singolare somiglianza di argomenti, nella scena contemporanea. Al diritto moderno si chiederà però di più: e cioè chiamare la madre o i genitori a rispondere effettivamente, nei confronti del figlio, del danno per non averlo abortito, o, più semplicemente, per avergli consegnato una vita segnata da gravi menomazioni. Proposta nei termini di un risarcimento per la nascita e in quelli di un “diritto di non nascere” o “di non esistere”, la questione ha senza dubbio prodotto fraintendimenti ed equivoci, ed in parte celato le reali intenzioni di tale rimedio giuridico117. Ma questa è comunque un’altra storia, testimonianza di una sensibilità nuova nata sotto cieli che hanno ormai abbandonato la certezza assoluta del melius esse quam non esse.