Zitiervorschlag / Citation:

Bernard Durand, Laurent Mayali, Antonio Padoa Schioppa, Dieter Simon (Hrsg.),

http://www.forhistiur.de/zitat/0606stronati.htm

Staatsanwaltschaft. Europäische und amerikanische Geschichten.


Frankfurt am Main, Klostermann, 2005, 421 S., ISBN: 3-465-03403-1, € 84,00.

 

Rezensiert von: Monica Stronati (Macerata)

 

L’istituto del pubblico ministero è analizzato, in questo volume, in una duplice prospettiva, storica e comparativa, preziosa per il giurista contemporaneo. Il tema, particolarmente congeniale al profilo della comparazione, mette in luce le distanze ma evidenzia parimenti la posizione cruciale dell’accusa pubblica, sia in relazione alle politiche penali e giudiziarie sia ad un quadro costituzionale fondato sul principio della divisione e dell’equilibrio tra i poteri.

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Il pubblico ministero gode, in origine, di un sostanziale sentimento di fiducia; come si legge nel saggio di Kiesow, il pubblico ministero è la “objektivste Behörde der Welt”. Un’immagine che però alla fine dell’Ottocento porterà su di sé i segni dei ripensamenti sulla funzione e sui limiti dell’istituto. L’esordio dell’ufficio in Germania, non è dei peggiori, anzi. Tra i primi ad esercitarlo è un capace avvocato tedesco/prussiano (Kirchmann); un uomo simbolo d’indipendenza, il cui allontanamento dall’ufficio è da mettere in relazione con la volontà di far posto ad un’idea diversa del pubblico ministero. Affinché si possa parlare effettivamente di una nuova era, è necessario che il giudice appaia imparziale, indipendente nella decisione e, di contro, che il pubblico ministero assuma il ruolo di “cattivo” duro e freddo. Più il pubblico ministero è böse, più il giudice sarà libero. Il pubblico ministero – con la sua presunta super obiettività che si rivela in fondo una chimera – incastrato nel suo ruolo rimarrà senza visibilità tanto rispetto al sistema giuridico che alla società civile.

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Un’altra forma d’invisibilità è quella descritta da Berkowitz a proposito della mancata rappresentazione eroica e positiva del pubblico ministero ad “Hollywood”. Certo, è anche questione d’esigenza narrativa ma soprattutto è questione di ruoli. Il pubblico ministero rappresenta la macchina statale, esercita cioè un potere enorme soggetto a corruzione, passioni e pregiudizi. La via per il successo del pubblico ministero è abbandonare il ruolo di “guardiano” della legge, per assumere quello di difensore delle vittime. Law other Order? Order: il pubblico ministero, come nel noto telefilm menzionato da Berkowitz, ha accesso al personaggio eroe-positivo nel momento in cui si presenta come difensore dell’ordine sociale. Quando, invece, rappresenta l’aspetto legalistico evidentemente rimane distante dall’idea di giustizia diffusa nella cultura popolare.

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La figura del pubblico ministero in qualche modo è condizionata dal potere politico, in questo senso risalta l’uomo investito dell’ufficio; la sua personalità più o meno indipendente infatti può orientare l’interpretazione delle leggi verso una concezione più o meno liberale dei diritti. Non è cosa di poco conto se è vero che la protezione di certi diritti può rappresentare determinate parti della società e la prevalenza delle une o delle altre può mutare gli equilibri di potere.

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Un esempio storico è offerto dal saggio di Vielfaure: Dupin è un procuratore generale che partecipa attivamente alla vita politica francese. Prima oppositore di Napoleone, poi eletto alla Camera dei deputati, fa parte dei 221 firmatari dell’Adresse contro la politica di Carlo X. Consigliere personale degli Orléans, Luigi Filippo lo nomina nel 1830 procuratore generale presso la Corte di cassazione. Un personaggio enigmatico, ambiguo, ma che ben rappresenta la dualità del ruolo conteso tra la difesa dell’ordine orleanista e quello delle libertà pubbliche e individuali. É un giurista che mantiene la propria posizione nonostante il contesto politico instabile e incerto, anche o soprattutto grazie alle proprie qualità di giurista che gli permettono un esercizio abile dell’ufficio. Dupin opta per la difesa delle libertà e piega la politica penale verso la protezione di queste. Così farà per esempio in occasione della riforma orleanista del 1832, difendendo i patronnés ma anche interpretando il testo della legge e rintracciando i principi generali da estendere oltre le specifiche previsioni.

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Il pubblico ministero ha pressoché sempre esercitato la doppia funzione di organo di giustizia sociale ed organo di sorveglianza sulla corretta interpretazione delle leggi. Il saggio di Barbara Dölemeyer testimonia che la dottrina ha affrontato la questione della genuina vocazione del pubblico ministero: organo del governo o guardiano delle leggi; difensore dell’ordine pubblico o delle libertà? In Germania il dibattito è decisamente fruttuoso perché si sviluppano esperienze diverse. Il modello francese, in fondo, non convince mai del tutto, e ciò è evidente proprio laddove lo scontro è tra chi vuole una fedele adozione del modello francese e chi invece spinge verso una riforma liberale del processo. Sebbene non si neghi il ruolo di potenziale garante delle libertà, il ministère public è esposto all’uso, fattone dal governo, per esercitare un forte controllo dello Stato.

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La questione della gerarchizzazione del pubblico ministero viene affrontata nel saggio di Bilon. Il Parquet si potrebbe rappresentare come una piramide che ha al vertice il ministro della Giustizia, e nella quale il pubblico ministero è sottoposto al controllo del potere politico che provvede alla nomina e sovrintende alla carriera. Tali caratteristiche farebbero legittimamente dubitare circa la sua indipendenza; tuttavia, spiega l’Autore, quest’immagine rischia d’essere riduttiva se non si tiene conto dei limiti posti al potere di controllo e dell’ambivalenza delle funzioni del pubblico ministero. Se, da un lato non è stato creato come istituto distinto dal potere esecutivo, d’altra parte è anche organo della legge, cioè chiamato ad applicarla valutando il caso concreto e tenendo conto delle circostanze di luogo e di tempo, sociali ed economiche. Il pubblico ministero non sarebbe quindi riducibile a semplice agente della Cancelleria, piuttosto è un magistrato incaricato d’interpretare la legge per difenderla ed applicarla. E, ci ricorda Bilon, quando si trovi costretto a perseguire contro la propria coscienza, può sempre contraddire la requisitoria scritta con quella orale. L’Autore arriva a considerare gli sviluppi del dibattito sulla riforma del pubblico ministero fino ai progetti di riforma del 2000, che sebbene formalmente falliti hanno trovato un’applicazione in via di fatto da parte del ministro della Giustizia.

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Sempre nel contesto francese si analizza la questione della separazione delle funzioni. Marrero mostra l’inadeguatezza del principio a dare conto della realtà dell’organizzazione giudiziaria, più che principio di legalità sembra essere infatti principio di convenienza politica. Sebbene sia sostenuto dalla dottrina, di fatto è un principio inadatto allo scopo di garantire le libertà individuali. La difesa del principio, della separazione fra istruzione ed esercizio dell’azione penale, può essere interpretata come la lotta dei magistrati du siège per non dissolvere la funzione istruttoria tra le competenze della polizia. Quest’ultima, con lo strumento dell’istruzione, ha una libertà d’azione pressoché illimitata e, conclude Marrero, il legislatore del 1957 che non ha avuto il coraggio d’abolire il principio, ha elevato l’indagine di polizia ad inchiesta preliminare.

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In Germania l’introduzione del pubblico ministero, sul modello francese, inizia nel 1832 in Baden e si conclude in Prussia nel 1845. Si legge nel saggio di Schulz, che per i Riformatori del XIX secolo, la divisione delle funzioni costituisce una svolta epocale, la vittoria della luce sulle tenebre del processo inquisitorio. Per i riformatori il procedimento inquisitorio sarebbe stato viziato al proprio interno, avrebbe cioè spinto il giudice in un doppio ruolo insostenibile: giudice ed accusa al tempo stesso. L’Autore respinge il “miope” giudizio storico dei riformatori, i quali non hanno considerato il procedimento inquisitorio nel suo complesso; questa prospettiva invece mostra che il giudice non è una figura unica, bensì congiunge nell’unità della persona/giudice una triade che corrisponde alle funzioni di accusa, difesa e giudizio. Tale tripartizione sarebbe legata al concetto di verità - scopo ultimo ma non da conseguire a qualunque costo del procedimento - che genera anche la progressiva differenziazione dell’autorità competente a giudicare. Piuttosto, osserva l’Autore, è l’introduzione del principio della divisione dei poteri che ha determinato l’emancipazione del potere giudiziario e indotto il tentativo da parte dell’esecutivo di non perdere tutte le prerogative giudiziarie. In tale contesto il giudice stesso avrebbe trovato conveniente cedere al pubblico ministero la valutazione circa l’opportunità del perseguimento e in una modalità che, paradossalmente, ricorda il procedimento inquisitorio, perché la prima fase processuale è segreta, senza partecipazione di terzi e vittime.

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Il saggio di Schoemaker affronta, invece, la particolarità dell’esperienza americana fin dalle oscure origini dell’istituto. L’opinione prevalente è che si formi al di fuori della tradizione inglese, perché le colonie americane praticavano la persecuzione pubblica prima della creazione d’un ufficio pubblico da parte dell’Inghilterra. Prevale così l’idea che si possa individuare una ascendenza dal modello francese. Tuttavia all’Autore sembra essere stata scartata troppo sbrigativamente l’ipotesi dell’origine inglese; anzitutto il modello continentale del pubblico ministero francese arriva dopo l’introduzione in America del public prosecutor; inoltre il conflitto tra America ed Inghilterra, e la conseguente francofilia, ha significato il rifiuto del governo inglese ma non della tradizione di common law. D’altra parte è vero che in Inghilterra i privati possono perseguire azioni criminali, mentre non è così in America dove l’esercizio dell’azione pubblica è attribuito al district o state’s attorney, ovvero al pubblico ministero. Schoemaker avanza l’ipotesi che il district attorney sia una estensione locale dell’Attorney General, ma la vera questione per l’Autore non è tanto definire le radici dell’istituto quanto capire perché solo nel tardo Ottocento il pubblico ministero monopolizzi l’esercizio dell’azione pubblica, tenendo conto che il fenomeno coincide con la creazione in Inghilterra del public prosecutor’s office. In ogni caso l’istituto pone il problema della sua compatibilità con il tradizionale principio della divisione dei poteri, è un istituto ambiguo, insieme giudiziario e politico: considerato ufficio giudiziario, ma eletto dal voto popolare ed esposto a pressioni politiche.

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Sul continente europeo si pone un’analoga questione. Gigliola di Renzo Villata, nel suo saggio, rileva una contraddizione nell’esperienza italiana: si sostiene d’aderire al principio liberale della divisione dei poteri e pertanto si opta per l’indipendenza del giudiziario dall’esecutivo . Ma l’introduzione dell’istituto del pubblico ministero sul modello francese mal si concilia con tale impianto. Il pubblico ministero, infatti, rappresenta il potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria. Unico correttivo è l’opzione, diversamente che in Francia, per l’obbligo dell’esercizio dell’azione penale, che dovrebbe fare del pubblico ministero un organo sottoposto solo alla legge, in questo modo si cerca di limitare il rapporto col potere politico. La stessa obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è tema fortemente dibattuto, tanto da provocare anche un mutamento legislativo: il c.p.p. del 1913 ribalta il ruolo del pubblico ministero, il legislatore opta per la discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, e fa del pubblico ministero una parte processuale. L’esperimento si mostra fallimentare, con il successivo codice si torna ai principi della procedura del 1865 , ovvero al ruolo di parte tecnica del pubblico ministero. La Costituzione repubblicana consacrerà la scelta originaria dell’obbligatorietà dell’azione penale e dichiarerà espressamente il principio dell’indipendenza esterna della magistratura (autonoma e indipendente da ogni altro potere) comprendendo anche il pubblico ministero. Dagli anni Ottanta del Novecento, si ricorda nel saggio, il dibattito è ripreso, sollecitato anche dall’Europa che al fine di semplificare la giustizia suggerisce l’adozione del principio d’opportunità nell’esercizio dell’azione penale. Il principio non viene accolto nel nuovo codice del 1988 che riconferma l’obbligatorietà, temperata da indicazioni sulle cause prioritarie; ma la questione è aperta e resa ancor più viva dal sempre ingente carico giudiziario.

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L’analisi dell’esperienza italiana si completa con il saggio di Claudia Storti Storchi sulle impugnazioni del pubblico ministero. Tra Otto e Novecento il legislatore deve affrontare il problema dell’eccessivo numero di impugnazioni in sede d’appello e cassazione. Nel lungo dibattito, di cui il saggio ripercorre puntualmente i momenti topici, in sostanza si mette in discussione la stessa attività del pubblico ministero. Per ridurre il numero di istanze d’appello pretestuose e temerarie si propone d’eliminare il divieto della reformatio in pejus. Dopo varie vicende, la soluzione viene dalla proposta di Mortara d’introdurre l’appello incidentale del pubblico ministero, proposta sostanzialmente accolta nel codice di rito del 1930, quando si statuisce che l’appello - del pubblico ministero come dell’imputato - attribuisce al giudice superiore la cognizione solo sui punti proposti. Nel lungo dibattito furono coinvolte molte questioni cruciali, dal diritto di difesa alla presunzione d’innocenza, dall’obbligatorietà dell’azione penale al principio del contraddittorio, ovvero i nodi della giustizia penale, tutti in qualche modo connessi all’istituto del pubblico ministero.

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La questione dell’indipendenza del pubblico ministero, si legge nel saggio di De Mari, in Francia è oggetto di riflessione fin dalla sua stessa istituzione. Alla fine dell’Ottocento, in particolare, alle già complesse attribuzioni dell’istituto viene aggiunta la difesa della politica sociale: si lega il pubblico ministero con l’ambigua nozione di “ordine pubblico”. Così si apre la via alla tendenza ad allargare sempre più le attribuzioni del pubblico ministero, fino al nuovo c.p.c. del 1975 nel quale si dispone all’art. 423 che il pubblico ministero possa agire d’ufficio per la difesa dell’ordine pubblico quando questo venga violato. Il pubblico ministero quindi si “statalizza” e resta libero da ogni preoccupazione riguardo agli interessi privati. Di fatto si spinge verso un rafforzamento della procedura inquisitoria con il favore delle Circolari e degli Ordini della Cancelleria orientati a tale svolta.

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Il saggio di Durand ci offre alcune riflessioni a proposito del laboratorio sperimentale nelle colonie della Terza Repubblica dove il pubblico ministero rimane un organo dello Stato, ma la straordinarietà della situazione giustifica l’ “eccezione” ad alcuni dei principi del diritto pubblico francese, suscitando persino il sospetto che le riforme possano retroagire sul territorio metropolitano. Nelle prime colonie i Governatori sostanzialmente esercitano i poteri del Ministro in Francia, fino a detenere un vero e proprio potere legislativo: determinano le procedure di nomina dei magistrati ad interim per mezzo di arrêtés. Il Governatore necessita di un pubblico ministero, il quale assomma in sé funzioni giudiziarie e amministrative. In sintesi: la magistratura coloniale non è indipendente. D’altra parte nelle colonie non vige il principio della separazione dei poteri e ciò è ancor più evidente a causa del fenomeno dell’ “assenteismo” ovvero il problema dell’interim d’una magistratura coloniale non permanente. In materia correzionale sussiste l’incompatibilità assoluta tra le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, tuttavia per ragioni d’economia nelle colonie più recenti si ipotizza di poter trarre i magistrati dal parquet a costo di qualche “irregolarità”. La questione dell’incompatibilità si pone espressamente in Oceania (1903), quando il Tribunale Superiore pronuncia la nullità del provvedimento di nomina d’un sostituto che aveva condotto il primo interrogatorio in un caso di oltraggio ad un magistrato. Il tribunale ritiene un principio ineludibile l’incompatibilità tra le funzioni di magistrato istruttore e giudice, nonostante la legge del dicembre 1897 non fosse stata recepita in Oceania, dove di fatto non esiste una distinzione tra istruzione ed indagine e le disposizioni non vengono assunte dal magistrato, ma dal pubblico ministero. Così, il ricorso in appello del procuratore può essere respinto solo con un escamotage, sostenendo che competente ad appellare nell’interesse della legge sia solo il procuratore generale presso la Corte di cassazione. L’assoluta incompatibilità tra le funzioni d’accusa e di giudizio potrà essere fissata in maniera chiara solo qualche anno dopo.

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In un’altra realtà d’origine coloniale, quella americana, si riscontra un atteggiamento parimenti pragmatico. Antaki, nel suo saggio, Prosecution and Punishment : American Prosecutorial Sentencing Discretion in the Twentieth Century , affronta la questione della discrezionalità nell’esercizio dell’ufficio del pubblico ministero. Il fenomeno ha origine nel tardo Ottocento, cioè quando s’introduce l’idea della sanzione come “cura” e della giustizia come trattamento individualizzato. In tale contesto il vertice e la base del sistema penale acquistano un enorme potere discrezionale: il giudice, all’interno di un range massimo e minimo, può pronunciare una indeterminate sentence. La data dell’effettivo rilascio sarà poi determinata dal Board of Prison Managers. Il modello delle “condanne indeterminate” – introdotto nello Stato di New York con la legge del 1877 - nel corso di quarantacinque anni viene adottato da ben 37 Stati con formule simili, ed altri 7 lo introducono indirettamente attraverso una formulazione del parole molto simile alla “condanna indeterminata”. Negli anni Venti e Trenta del Novecento le crime commissions scoprono le reali proporzioni della discrezionalità di cui gode il pubblico ministero vulnerabile alla corruzione della politica locale e della criminalità organizzata. Il dibattito s’arricchisce negli anni Sessanta e Settanta: nonostante il riconoscimento costituzionale della United Supreme Court della pratica del plea bargaining, nel 1973 la National Advisory Commission on Criminal Justice Standards and Goals ne raccomanda l’abolizione entro il 1978. La richiesta di certezza delle pene è inarrestabile; alla fine molti Stati mantengono il sistema delle condanne indeterminate ma lo integrano con leggi sulle condanne determinate nel minimo. La questione della discrezionalità del pubblico ministero di fatto non viene risolta, semplicemente si sposta il problema della diseguaglianza delle condanne alla diseguale discrezionalità del pubblico ministero. In definitiva la discrezionalità non è più condivisa tra pubblico ministero e giudice, ma solo responsabile è il primo al quale non rimane che affidarsi, osserva Antaki, sperando in un saggio esercizio del potere.

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Come si vede da questi bervi cenni, le riflessioni proposte nel presente volume, riguardano alcuni profili strategici: il rapporto/condizionamento tra potere politico e magistratura, la discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale o la faticosa combinazione tra ruolo di difesa delle libertà e tutela dell’ordine pubblico. Temi, a ben vedere, storicamente ricorrenti che coinvolgono la definizione stessa del pubblico ministero, la titolarità e i criteri d’esercizio dell’azione penale. Sebbene l’istituto sia di recente creazione, il punto di vista storico-giuridico, arricchito dall’approccio comparativo, apporta un contributo critico fondamentale su tali complesse questioni. Il volume dimostra quanto sia necessario ed utile rileggere l’istituto prendendo le distanze da una visione acritica dell’immagine ricorrente della mera recezione del modello francese. Tale ricostruzione, eccessivamente semplificatrice, rischia di mettere in ombra anzitutto la presenza di alternative che interagiscono con quel modello; con il rischio ulteriore di concentrare l’indagine sulla sola origine dell’istituto e sottostimare un altro punto d’osservazione, quello del “destinatario” che non solo interpreta il “modello” di riferimento per adattarlo ai propri scopi interni, ma lo ridefinisce adeguandolo alla costituzione vivente.

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Diese Seite ist vom 21. Juni 2006