1. Un antico stereotipo: le mère remariée et impudique
1Il 30 maggio del 1701, nel corso di un’udienza della Grand’Chambre, il Parlamento di Parigi rigettava la domanda formulata da Françoise Prevost di invalidare il matrimonio del figlio, Simon Florimond, fondata sulla duplice presunzione che questi fosse stato vittima di seduzione quando era ancora minorenne e che le nozze fossero state celebrate senza il legittimo curato.
2Nell’intersezione tra questioni giuridiche e vicende personali, questo caso piuttosto complesso mostra i segni di un forte contrasto familiare iniziato anni addietro con l’istanza di emancipazione del figlio allora ventitreenne. Nonostante le resistenze materne – che facevano leva sulla tendenza alla prodigalità del minore – ma forte del parere favorevole degli amici e dei parenti paterni, Simon Florimond in una prima fase riuscì a ottenere le lettres d’émancipation e, ormai maggiorenne, a sposarsi con Elisabeth Gautier, dando così avvio a un nuovo scontro che lo avrebbe condotto dinanzi alla suprema corte parigina1.
3Ciò che colpisce, al di là dell’annosa e complicata controversia – che per anni vide madre e figlio accusarsi l’un l’altra dei rispettivi comportamenti dissipatori, e che proseguì anche dopo la prematura morte di lui – non è tanto il suo esito, il mancato accoglimento delle pretese dell’appellante. È piuttosto la circostanza che, tra i motivi del rigetto, la sentenza facesse riferimento a due specifici elementi che non riguardavano in modo diretto i fatti oggetto della controversia, ma la persona di madame Prevost: l’attitudine allo sperpero e le sue seconde nozze. Di più: venivano elencati e messi in diretta relazione, come in una concatenazione prestabilita e inevitabile, il secondo matrimonio dell’appellante, la perdita di interesse per i figli e la dilapidazione del patrimonio familiare2. In altre parole, era lo stile di vita di quella donna, «beaucoup plus irréguliere que celle de ceux qu’elle attaque3», a rendere priva di valore ogni censura e ogni richiesta che potesse provenire da lei, tanto da apparire come il principale motivo di inaccettabilità del ricorso.
4A leggere le pagine del Journal desprincipalesaudiencesduParlement, che nel 1757 pubblicava il testo integrale della sentenza, si intuisce che le diverse questioni tecnico-giuridiche su cui erano fondate le pretese delle parti siano state collocate fin dal principio sullo sfondo di uno scenario diversamente articolato, che sottolineava invece la figura di primo piano di questa donna e le sue presunte debolezze. Un ruolo di sicuro rilievo nell’orientare il giudizio fu giocato dall’Avvocato Generale della controparte e dalla sapiente strategia retorica da lui elaborata, che il tribunale parigino recepì al punto da seguirne ogni più minuto passaggio nella sua autorevole decisione. Pare quasi che tutta la causa sia gravitata attorno alla contraddittoria formula mèreremariée et dissipatrice: lo si evince già dall’intestazione che, nel mettere in evidenza l’inconciliabile ossimoro tra il pregevole status di ‘madre’ e le qualità, intrinsecamente negative, di ‘risposata’e‘prodiga’, non lasciava spazio a dubbi circa il prevedibile epilogo del procedimento4.
5Emergono, nel caso che abbiamo preso in esame, alcuni profili di notevole interesse storico-giuridico. In primo luogo, è richiamato quel tradizionale stereotipo ‘di genere’, radicato nel comune sentire e in molti campi del sapere, dalla filosofia, alla medicina, alla letteratura, all’iconografia, che spingeva a considerare le donne tipicamente deboli, inesperte e raggirabili, e perciò incapaci di prendere in modo autonomo decisioni sensate in merito alla gestione del patrimonio familiare. Questa concezione di lunga durata aveva ispirato una normativa che affiancava rilevanti limiti alla capacità muliebre a una serie di misure di protezione, i cui complicati presupposti, ancora ben vivi nelle leggi e nelle consuetudini francesi sei-settecentesche, avrebbero continuato ad animare il dibattito della dottrina civilistica e penalistica almeno fino all’Ottocento5.
6È evocata, in secondo luogo, l’infamia con la quale veniva colpita la donna che decideva di risposarsi6; pur caduto in disuso in tutte le province della Francia7, quell’antico marchio mostrava, almeno lungo tutto il diciottesimo secolo, una straordinaria tendenza a sopravvivere sia nel dettato normativo che nella prassi giurisprudenziale. Bastava infatti che una donna progettasse un secondo matrimonio, per far cadere su di lei una serie di presunzioni, alle quali sarebbero conseguite delle sanzioni vere e proprie: era l’incontinenza a guidarla a compiere un passo che con ogni probabilità l’avrebbe condotta anche all’offuscamento della mente. Non onorando la memoria del precedente marito, avrebbe inoltre provato di essere indegna di mantenere quanto ricevuto da lui in dono o in eredità, di non amare più i figli di primo letto8, al punto da rischiare di mischiarne il sangue con quello di un’altra stirpe, e tanto meno di essere in grado di conservare e gestire saggiamente i loro averi. Avrebbe dimostrato, in altre parole, di essere una madre anaffettiva, una donna impudica e una dissipatrice sconsiderata. In un tale scenario, le sanzioni e i limiti normativi alla capacità della donna erano pienamente giustificati dal comune sentire.
7Seconde nozze, indegnità a succedere, potestà genitoriale, tutela, amministrazione patrimoniale, se considerati in una prospettiva orientata al soggetto femminile, si intrecciano dunque al punto da poter essere considerati elementi di una medesima trama. Attraverso questo contributo si intendono seguire alcuni percorsi individuali per verificare se, tra le pieghe di un diritto scritto, consuetudinario e giurisprudenziale che limitava fortemente la gestione femminile di risorse economiche e finanziarie, soprattutto nel caso di seconde nozze, sia esistito – e quale ampiezza abbia avuto – uno spazio entro il quale le donne potessero svolgere un ruolo in ambiti tradizionalmente considerati di competenza maschile.
2. L’infirmité du sexe nelle norme d’antico regime
8«Les femmes ont les mêmes honneurs, les mêmes qualités et les mêmes rangs que leurs maris pendant le mariage, et tant qu’elles restent en viduité»: così esordiva la voce Femme della Collection de décisions nouvelles et de notions relatives à la jurisprudence actuelle del procuratore presso lo Châtelet parigino, Jean-Baptiste Denisart, pubblicata per la prima volta tra il 1754 e il 17569. Nonostante tale proposizione intendesse rimarcare una forma di parità tra uomo e donna sia nel corso del matrimonio che nel caso di vedovanza, siamo naturalmente ben lontani dalle declamazioni rivoluzionarie – peraltro mai attuate in concreto – che qualche decennio più tardi avrebbero auspicato l’uguaglianza giuridica tra i due sessi10. In un’epoca come la seconda metà del Settecento, i riferimenti ancora cadevano su onore, qualità e rango, tipici profili della ‘società di corte’, e si limitavano dunque a formalizzare una condivisa etichetta e a cristallizzare la dipendenza muliebre dallo status dell’uomo.
9Quando infatti a entrare in gioco era la concreta capacità di stipulare contratti, assumere obblighi o stare in giudizio, l’effettiva disuguaglianza tra uomo e donna si palesava in tutta evidenza. Vengono in mente, tra le altre, le disposizioni che sottoponevano le donne sposate alla potestà maritale11, che vietavano loro di alienare o acquistare immobili o accettare donazioni senza una speciale autorizzazione12, che limitavano o attribuivano minor valore alla testimonianza resa da una donna13, «plus léger et plus sujet à variation» rispetto a quella dell’uomo14, o che le impedivano di allontanarsi dalla dimora del marito anche durante il procedimento di separazione, a pena di decadenza dalle convenzioni matrimoniali15.
10È utile ricordare che tale situazione si manterrà sostanzialmente inalterata anche dopo l’emanazione del code civil, del quale Xavier Martin ha rimarcato lo spirito misogino16: come si legge, infatti, nell’efficace sintesi di Philippe-Antoine Merlin, «les femmes, par la seuleraison de leursexe, sont inabile à plusiers sortes d’engagemens et de fonctions17».
11Un dato di tutta evidenza è inoltre che gli onori e i vantaggi enunciati dalla Collection di Denisart erano inscindibilmente connessi al legittimo legame con un uomo: pur permanendo in caso di vedovanza, tali prerogative venivano meno o erano fortemente ridotte quando la donna, a seguito della morte del primo marito, decideva di risposarsi.
12Se si guarda al quadro normativo che dominava il panorama francese dalla seconda metà del Cinquecento fino al Settecento inoltrato, si nota in effetti una decisa tendenza a limitare in vario modo la capacità contrattuale delle vedove che contraevano un secondo matrimonio. Basti pensare che il primo articolo dell’editto emanato da Francesco II nel luglio del 1560, comunemente noto come editdessecondesnoces18, era espressamente rivolto alle donne per limitarne le liberalità eccessive nei confronti del secondo marito. Ancora, l’ordinanza che Enrico III rese a Parigi nel maggio del 1579, nota come ordonnance de Blois19, all’art. 182 vietava alle vedove che si fossero risposate con uomini indegni della loro qualità di fare donazioni o alienazioni in loro favore20. Diverse Coutumes, poi, prevedevano che la madre perdesse la tutela naturale dei figli minori in caso di seconde nozze21.
13Se il fine ultimo delle norme che abbiamo citato – evitare che il secondo matrimonio potesse ledere i diritti patrimoniali dei figli di primo letto – era di solito affermato esplicitamente, le ragioni su cui esse si fondavano non sempre apparivano con altrettanta evidenza. Di sicuro, a essere presupposta era quella visione della donna, profondamente radicata anche nel dibattito medico e filosofico, che fin dall’antichità le aveva sempre attribuito «un’indole dominata dalle passioni ed una ridotta ed imperfetta capacità raziocinante22»: una fragilità innata, da cui derivava il rischio di esporsi a continui raggiri. Non sorprende che l’editto di Francesco II dichiarasse in apertura che le vedove invitate a seconde nozze «siccome […] non comprendono di essere richieste più in contemplazione de’ loro beni che delle loro persone, esse gli abbandonano a’ nuovi loro mariti sotto pretesto e contemplazione del matrimonio, e fanno loro immense donazioni23». Questa perniciosa e frequente attitudine era definita come un vero e proprio «disordine cui gl’imperatori vollero porre ostacolo con molte buone leggi e costituzioni su tal punto da essi promulgate; e perciò comprendendo noi pure la debolezza del sesso, abbiamo collaudate ed approvate siffatte leggi24».
14Il testo dell’ordonnance di Blois conteneva un’ulteriore giustificazione alle previsioni discriminatorie nei confronti delle donne: prendeva infatti atto della circostanza «que plusieurs femmes veuves, mêmes ayans enfans d’autres mariages, se remarient follement à personnes indignes de leur qualité, et qui pis est, les aucunes à leurs valets», e si proponeva di porre rimedio a tale ‘folle’ propensione25. La netta disuguaglianza con gli uomini, ai quali non sarebbe stato pensabile applicare un’analoga disposizione, era ancora ben presente nel pensiero di Pothier che faceva appello all’onore e al buon nome della famiglia per spiegare, più di un secolo dopo la sua emanazione, il contenuto di una norma dichiaratamente «fondata sopra ragioni che sono particolari alla donna26». Per il giurista orleanese, l’ordonnace di Blois si proponeva infatti di compiere «una riparazione […] dell’atroce ingiuria» che una madre faceva «alla memoria di suo marito, rinunziando al nome illustre, che ei le aveva dato ed alla nobiltà della famiglia, nella quale egli la aveva fatta entrare, per prendere il nome ed entrare nella famiglia di una persona indegna27». Nel caso inverso dell’uomo che si risposava a una donna di condizione inferiore, egli non acquisiva il nome né entrava nella famiglia della seconda moglie: questo faceva sì che il semplice «disonore, di cui egli si copre, non è affatto paragonabile alla ignominia, di cui si copre una donna unendosi in matrimonio ad un uomo indegno della sua nascita, al quale, sposandolo, ella si rende soggetta, ed alla condizione del quale ella si riduce28». Come si vedrà più avanti, la giurisprudenza fu compatta nell’applicare tali previsioni col massimo rigore, e in diversi casi giunse persino a estenderne la portata.
15Il quadro normativo fin qui abbozzato offre dunque uno scenario in generale limitativo della capacità muliebre, quando non apertamente ostile e legato ad antichi stereotipi. È tuttavia merito di un’avveduta storiografia, che ormai da diversi decenni è orientata in tale direzione, l’aver smentito quel comune pregiudizio che considerava il lavoro delle donne e la gestione femminile delle risorse economiche come una conquista recente. Vari e approfonditi studi hanno infatti consentito di aprire «uno spiraglio sulle molteplici risorse che le donne hanno avuto a disposizione nel corso dei secoli sia per garantire la propria o l’altrui sopravvivenza, sia per aumentare il benessere personale e quello della propria famiglia, sia per assicurare prestigio al proprio lignaggio o a quello del marito, sia per perseguire una ‘carriera’29».
16Non si tratta di negare che «i destini femminili sono stati segnati, fino a tempi molto recenti, da una legislazione discriminatoria30», sia sotto il profilo dell’accesso al lavoro e alla proprietà, sia, più in generale, sotto quello dello svolgimento di attività economiche. Pensiamo tuttavia di poter individuare, eleggendo a nostro punto d’osservazione la realtà francese di antico regime, degli spazi – a volte tutt’altro che marginali – che le donne riuscirono a ritagliare per sé nella gestione del patrimonio familiare. Carlos Petit rileva, già nel XVII secolo, la crescita di uno spazio professionale per la donna che, in quanto compagna di un mercante31, giunse a ricoprire ruoli di prestigio, mostrando un’attitudine e un intuito analoghi all’uomo esperto nell’arte della mercatura. Era naturale che tali prerogative venissero registrate anche dal diritto: nei confronti delle donne che operavano in tale settore iniziarono infatti ad applicarsi tutte quelle disposizioni che in via ordinaria erano destinate solo agli uomini. Un esempio, ce lo ricorda Philippe-Antoine Merlin, è rappresentato dalla contrainte par corps32.
17Ma ciò che a noi più interessa è verificare se, e in che modo, tra le pieghe di una normativa rigida e palesemente selettiva, si siano distinte alcune figure di donne che, per necessità, per caso o per virtù, sono riuscite a conquistare per via giurisprudenziale una posizione di ‘potere’, laddove le leggi e le consuetudini ne limitavano tipicamente le funzioni a causa della loro presunta sexusinfirmitas, o ad evitare, anche solo parzialmente, le sanzioni ad esse indirizzate. Alcuni casi emblematici, come si vedrà più avanti, rivelano infatti un’applicazione giudiziale contenuta – in certi casi la disapplicazione – delle pene previste dalla legge nel caso delle seconde nozze di una vedova, oppure l’attribuzione della tutela dei figli minori alla madre o del marito incapace alla moglie, con il conseguente affidamento alla donna della gestione di patrimoni di una certa consistenza.
18Tali ultime prerogative, pur essendo previste dalle leggi e dalle consuetudini, avevano tuttavia un carattere eccezionale, tanto più che la loro operatività era legata al venir meno della figura del marito, per morte o incapacità. Erano proprio queste ipotesi residuali che consentivano di aprire una piccola breccia nelle disposizioni normative, conducendo quindi a un inconsueto – ma non irrealizzabile – spostamento degli equilibri familiari e patrimoniali in favore della donna. Com’è facile intuire, si trattava di poteri che la madre o la moglie non acquisivano ipsoiure, ma solo in seguito a un’attenta valutazione – in sede giudiziale – delle loro effettive capacità, e sempre sotto l’occhio vigile dei membri più influenti della famiglia, che ne sorvegliavano lo svolgimento delle funzioni.
19Anche in tali evenienze, infatti, il diritto, quale espressione alta ma anche astratta della cultura e dei costumi, in linea di principio tendeva a limitare i poteri e le attribuzioni della donna. Il Dictionnaire de droit et de pratique di Claude-Josef de Ferriere non avrebbe potuto essere più eloquente in proposito: riferendosi appunto alla donna, dichiarava che «elle ne peuvent pas être tutrices, si ce n’est de leurs enfans33». Confermava, in sostanza, che la tutela del marito da parte della moglie rimaneva sempre un’ipotesi residuale e tutt’altro che consueta. Per spiegare le ragioni di tale limite era sufficiente richiamare l’antico adagio romano quia tutela quasi publicum et virile munus est; et suprafæmineisexusinfirmitatem, che in realtà, come ha osservato Gigliola Di Renzo Villata, si risolveva in un «pretesto per mascherare la condizione d’inferiorità riservata alle donne dal costume sociale34».
20Ancora sul finire del Settecento, dunque, il richiamo alla sexusinfirmitas era giustificazione e fondamento dei limiti normativi alla capacità femminile, così come stabilito oltre due secoli prima dall’editto di Francesco II. Il noto Dictionnaire proseguiva prendendo in considerazione l’eventualità che il marito fosse affetto da infermità mentale e fosse perciò dichiarato incapace, e spiegava che in tale caso «la femme peut être curatrice de son mari», ma solo «si elle est capable de cette charge». Si presumeva dunque un’incapacità in capo alla donna, che però poteva essere smentita dalle effettive attitudini e dal concreto comportamento che ella assumeva, e che, com’era logico, andavano attentamente verificati in sede giudiziale. Superata dunque questa presunzione, la legge giungeva ad ammettere che nessuno fosse «plus affectionné et plus attentif» della moglie per occuparsi del mantenimento e del marito e dei suoi beni. A riprova di ciò, nelle regioni francesi dove i tutori e i curatori erano obbligati a prestare una cauzione prima dell’assunzione dell’incarico, la moglie che fosse stata nominata curatrice del marito sarebbe stata esentata dall’effettuare tale versamento35.
21È interessante constatare come tale impostazione sia rimasta a lungo invariata nella legislazione francese, segnando una significativa e sostanziale continuità che si manterrà per molto tempo, oltre le soglie della codificazione. Per restare all’esempio della tutela del coniuge interdetto, da sempre attribuita di diritto al marito ma non alla moglie, si discostò da questa lunga tradizione il primo dei tre progetti di codice civile presentati da Jean-Jacques Régis de Cambacérès, che all’art. 8 poneva – per la prima volta in tale materia – uomo e donna sullo stesso piano36. Ma quella che potrebbe apparire come una decisiva rottura con il passato non fu altro che una breve ed effimera parentesi, indubbiamente influenzata dalle ispirazioni egualitarie della Rivoluzione, che sarebbe stata presto chiusa dal suo stesso autore. Con il code civil, a conclusione di un percorso che avrebbe gradualmente portato all’abbandono di buona parte delle nobili idee rivoluzionarie in favore di scelte più in linea con la tradizione, si giunse infatti al ripristino degli antichi principi. La tutela del marito nei confronti della moglie interdetta ritornò così, nelle previsioni codicistiche, a operare ipso iure, mentre mantenne carattere dativo quella esercitata nei confronti del marito interdetto da parte della moglie37: quest’ultima infattiavrebbe potuto essere nominata tutrice solo al ricorrere di determinate condizioni e in ogni caso avrebbe esercitato le sue funzioni sotto la costante vigilanza del consiglio di famiglia38. Non è forse privo di utilità rilevare già in questa sede che il Parlamento di Parigi fu tuttavia orientato a riconoscere in via generale la tutela alla donna, salvo il ricorrere di gravi motivi che ne avessero giustificato l’esclusione39.
22Per completare l’affresco, già brevemente tracciato, delle norme che nell’Ancien Régime regolavano e ponevano limiti alla capacità di gestione patrimoniale delle donne, con particolare riferimento all’ipotesi di seconde nozze, non si può prescindere dall’esame delle Coutumes in vigore nelle diverse parti della Francia settentrionale che, pur intrecciandosi inevitabilmente con i principi del diritto romano operanti nei pays de droitécrit, se ne distinguevano in più di una sfumatura.
23L’art. 279 della Coutume de Paris, contenuto nel titolo tredicesimo, Des donations et don mutuel, così disponeva: «Femme convolant en secondes ou autres nopces, ayant enfans ne peut advantager son second ou autre subsequent mary, de ses propres et acquests, plus que l’un de ses enfans: et quant aux conquests faits avec ses precedents maris, n’en peut disposer aucunement au preiudice des porrions, dont les enfans desdits premiers mariages pourroient amender de leur mere40». È evidente il richiamo all’editto di Francesco II, sotto il profilo lessicale oltre che contenutistico: il divieto di disporre in favore del secondo marito dei beni acquisiti con il primo matrimonio era infatti anche qui riferito espressamente alle donne che avessero già avuto in precedenza dei figli.
24Ma i giuristi che si confrontarono con questa prescrizione evidentemente discriminatoria compresero presto che gli uomini, come sottolineava François Bourjon, «sont aussi susceptibles de faiblesse que les femmes» e che anch’essi pertanto «en passant à de secondes nôces, […] se depouillent de l’attachement qu’ils doivent avoir pour les enfans du premier lit, que les enfans qu’ils ont de leur secondes femmes leur font bientôt oublier41». L’esperienza, dunque, non tardò a far venire allo scoperto la pari ‘debolezza’ delle donne e degli uomini, e impose in breve tempo di interpretare la norma in questione estendendo a questi il divieto in origine previsto solo nei confronti di quelle.
25Applicazioni significative di tale modus interpretandi sono offerte da Pothier, che riteneva ad esempio come l’art. 203 della Coutume d'Orléans, il cui testo faceva riferimento alla sola «femme qui se remarie», dovesse estendersi anche all’uomo42. Lo stesso valeva per l’editto delle seconde nozze, il cui capo primo, a differenza del secondo, era espressamente destinato soltanto alle donne. Va evidenziato che il giurista orleanese aveva ben presenti – e condivideva – i motivi in base ai quali la prima parte di quella norma avrebbe dovuto essere applicata solo a queste, tra cui l’intenzione del legislatore, che «con quei termini, comprendendo noi pure la debolezza del sesso, si fonda sopra una ragione che è particolare alle donne». Al contempo però egli non poteva non dar conto di una prassi ormai consolidata; ammetteva infatti che «malgrado coteste ragioni, le sentenze riferite da Chopin, Mornac e Baquet giudicarono, che il primo capitolo dell’editto aveva luogo tanto riguardo agli uomini che passano a seconde nozze, come rispetto alle donne, e ciò non è più revocato in dubbio43». Ancora, analogamente alla Coutume e all’editto citati, l’art. 279 dello Statuto di Parigi, quando vietava di disporre dei beni acquistati in comune dai coniugi nel corso dei precedenti matrimoni, si rivolgeva solo alla donna rimaritata. L’illustre giurista anche in questo caso riteneva ormai pacifica l’estensione del divieto in linea maschile; richiamava a tal proposito alcune sentenze che avevano posto fine alla «molto agitata questione, se la disposizione […] debba essere estesa all’uomo, il quale passa a seconde nozze», tanto da poter affermare che «più non si dubita oggi giorno che l’uomo il quale passa a seconde nozze, non possa nulla donare de’ suoi coacquisti alla seconda moglie44».
26È dato riscontrare un simile orientamento anche con riferimento al cosiddetto an dudeuil, il periodo di lutto di un anno prescritto dalla legge e dalle consuetudini. La sua osservanza, com’è noto, era imposta alle sole donne «après la mort de leurs maris, suos peine d’être déchues des avantages qu’ils leur ont faits45». Un obbligo equivalente non sussisteva in capo al marito, come spiegava chiaramente l’Encyclopedie: «pour ce qui est du mari, il n’est point obligé de porter le deuil de sa femme». Al contempo, il celebre testo registrava però la tendenza a ridurre, nella prassi, la differente considerazione tra marito e moglie. Riferiva infatti una pratica costantemente seguita, che faceva appello alla naturale benevolenza maritale: «de sorte que si le mari porte le deuil de sa femme, comme cela se pratique ordinairement parmi nous, c’est par bienséance, et sans y être obligé46».
27Se passiamo a indagare le altre consuetudini francesi, notiamo che nella maggior parte dei casi esse menzionavano esclusivamente le femmes remariées e ne limitavano gli atti di disposizione patrimoniale, affinché non venissero lesi i diritti dei figli nati dal primo matrimonio. Così le donazioni come le alienazioni al secondo marito erano di solito vietate; inoltre gravava sulla madre l’onere di custodire e mantenere i beni del coniuge defunto, sul presupposto che questi, in definitiva, appartenevano non a lei ma ai figli di primo letto. In questo senso si esprimevano le Coûtumes d’Amiens (art. 107), de Châlons(art. 35), de Laon (art. 29), de Rheims(art. 236), de Calais (art. 71), de Normandie (art. 405), d’Orleans(art. 203), espressamente dedicate alla «femme ayant enfans de son premier mari», laCoûtume de Sedan (art. 99), che si riferiva alle«veuves», e laCoûtume de Saint Server (§ 2),che invece era indirizzataalla «mere survivant à son mari47».
28Erano solo tre le Coutumes che si rivolgevano in prima battuta, indifferentemente, alle donne e agli uomini che si risposavano. Si tratta delle Coutumesd’Acs, de Bretagne e de la Rochelle: la prima prevedeva che chiunque si fosse risposato avrebbe potuto alienare liberamente fino alla metà dei beni aviti e avrebbe dovuto riservarne l’altra metà ai figli; la seconda limitava le donazioni tra il futuro marito e la futura moglie a un terzo dei beni ereditati, ma solo nell’ipotesi in cui il donante non avesse avuto figli dal precedente matrimonio48; la terza invece proibiva «toutes les donations des conjonts entr’eux, soit mutuelles soit simples, lorsqu’il y a des enfans49».
29La Coutumede Bourgogne, pur ponendo in primo piano, al pari delle altre consuetudini, gli interessi patrimoniali dei figli di primo letto, non si riferiva solo alle donne e inoltre limitava specificatamente i poteri di disposizione anche dell’uomo che si fosse risposato. Asseriva infatti che «ne voulant pas laisser la liberté aux peres qui ont des enfans d’un premier lît, et qui passent à un second mariage, de faire de grands avantages à leurs secondes femmes à la ruine des enfans de leur premier lît […] nôtre Coutume […] a ordonné avec justice, que le doûaire de la seconde ou troisième femme et autres, lorsqu’il y a des enfans du premier lît, seroit pris sur la portion de l’hoirie de son mari appartenant aux enfans qu’elle avoit de lui seulement, et non sur la part des autres enfans50».
30Una normativa ambivalente, dunque, dominava la materia. A partire da una decisa distinzione tra prerogative maschili e femminili, la capacità della donna nella gestione del patrimonio familiare risultava fortemente limitata in linea di principio; tuttavia, laddove la madre o la moglie fossero state riconosciute idonee a svolgere tali mansioni, sarebbe stato consentito loro di esercitare poteri anche piuttosto ampi. Analogamente, la vedovanza implicava obblighi precisi in capo alla moglie, e alle seconde nozze conseguivano, sempre con riferimento quasi esclusivo alla donna, pene determinate. Sebbene tali limitazioni non operassero in linea di principio rispetto all’uomo, esistevano, come abbiamo notato specie con riferimento al diritto consuetudinario, rilevanti eccezioni e ampi margini per un’interpretazione elastica delle norme giuridiche. Il giudice si trovava quindi a svolgere quel suo tipico fondamentale ruolo di mediazione e adeguamento delle molteplici e frammentarie previsioni, attraverso un’attenta valutazione del caso singolo; vedremo infatti come si giunse, per rispondere alle esigenze concrete, o a definire in modo restrittivo i poteri femminili o, al contrario, ad ampliarli significativamente.
3. Gli adattamenti della giurisprudenza
31Le leggi e le consuetudini francesi d’Ancien Règime – l’abbiamo già visto – prevedevano limiti rigorlla capacità delle donne di obbligarsi o di stare in giudizio, vietavano gli atti di disposizione patrimoniale in favore del secondo marito o dei suoi eredi e comminavano sanzioni nel caso in cui la vedova si fosse risposata prima che fosse trascorso il prescritto anno di lutto. Tra queste, la pena più risalente era l’infamia, che in origine non si applicava solo alla moglie, ma si estendeva anche al nuovo consorte, al padre e al suocero di lei. In età moderna, l’indirizzo seguito dalla maggioranza delle corti francesi era però di non applicare più quell’antica pena; persino il Parlamento di Grenoble, che si può annoverare tra i tribunali più tradizionalisti rispetto a tali condanne, fece un’espressa eccezione proprio riguardo all’infamia51.
32Esisteva, com’è noto, una distinzione tra il matrimonio contratto durante l’anno di lutto e quello successivo: benché alle seconde o ulteriori nozze conseguisse sempre una certa limitazione alla capacità di disposizione patrimoniale, nel primo caso il diritto prevedeva, soprattutto per le donne, sanzioni vere e proprie, le cosiddette peines de l’andudeuil. Oltre all’infamia, che non era più considerata in vigore, esse consistevano nella perdita dei beni nuziali e delle altre sostanze ricevute dal primo marito, nell’incapacità di succedere e di ricevere donazioni, di costituire una dote in favore del secondo marito o di lasciargli per testamento più della terza parte dei propri averi52.
33Approntate «contre les femmes qui préférent une prostitution honteuse à l’honneur du mariage53», queste pene venivano di solito giustificate da un dulpice ordine di ragioni. La prima, è facile intuirlo, era rappresentata dal pericolo della turbatiosanguinis. È appena il caso di menzionare la celebre causa della vedova che si sposò appena tre giorni dopo la morte del marito e, avendo dato alla luce un figlio 8 mesi e 25 giorni dopo, fu chiamata in giudizio dai parenti del primo marito, che contestavano che a quel bambino fosse stato dato il nome del loro congiunto, del quale ovviamente reclamavano l’eredità. La vicenda si concluse nel 1664 con una sentenza del Parlamento di Parigi che stabilì che il figlio fosse da attribuire al secondo marito e privò la donna di tutti i vantaggi patrimoniali acquisiti con le prime nozze, applicando quindi senza esitazione le pene previste per il matrimonio contratto nell’anno di lutto54. A prescindere da tali ipotesi estreme e inconsuete, i dubbi sull’effettiva paternità in determinate circostanze ponevano problemi concreti55 e portavano quindi, come del resto accade ancora oggi, ad avversare le nozze troppo avventate56.
34La seconda giustificazione delle peines de l’andudeuilera forse più intima e radicata: la vedova aveva il dovere di piangere il marito defunto e di rendere così onore alla sua memoria per un periodo non inferiore a un anno57. È qui importante ricordare che non si trattava di un obbligo reciproco; come precisava infatti il professore di diritto francese Luois Astruc, «les maris ne sont pas obligés de pleurer leurs femmes, c’est-a-dire d’en faire le deuil58». Non soltanto quindi, come si è visto prima, l’uomo non aveva il dovere di commemorare la moglie per almeno un anno, né naturalmente correva i rischi della turbatiosanguinis, ma era opinione comune che un eventuale secondo matrimonio non avrebbe compromesso l’honnêtetépublique. Per questi motivi erano diverse, già a livello di astratte previsioni, le conseguenze delle seconde nozze dell’uomo59. Anzitutto, non gli si applicavano le pene de l’andudeuil, ma solo quelle d’aprèsl’andudeuil; inoltre il marito non era tenuto a restituire gli incrementi dei beni di cui aveva perso la proprietà per effetto delle seconde nozze; manteneva l’amministrazione delle sostanze dei figli avuti dal precedente matrimonio, in aggiunta all’usufrutto sulle stesse acquisito in virtù della patria potestà; infine, gli era consentito esigere validamente, e senza autorizzazione giudiziale, le somme che erano dovute ai figli di primo letto. Ma c’è di più. I giudici, anche quando sentivano di dover comminare sanzioni agli uomini che si fossero risposati, avevano cura di scegliere quelle meno gravi, per non nuocere alla preminente «dignité du sexe viril60». Al più mite trattamento già previsto in sede normativa si aggiungevano, dunque, in sede giurisprudenziale, quelli che Astruc definiva «les adoucissemens introduits en faveur des peres61».
35È evidente quindi che le sanzioni che stiamo esaminando, rimaste in vigore nel corso dei secoli e mantenute lungo tutto l’antico regime, come anche le norme che limitavano la capacità femminile di esercitare la tutela di un congiunto o, più in generale, di gestire il patrimonio familiare, erano orientate in senso sfavorevole alle donne. Se però passiamo in rassegna alcune sentenze delle principali corti francesi sul tema, osserviamo che queste non sempre interpretarono le antiche previsioni con la dovuta severità, ma si trovarono piuttosto, in più di un’occasione, a mitigarne il rigore. Naturalmente questi adattamenti della frammentaria normativa ai casi concreti – che a volte si spingevano al punto di addolcire o addirittura disapplicare le sanzioni, oppure più in generale a estendere la capacità femminile oltre i limiti stabiliti – non misero tutti d’accordo. È dato infatti riscontrare una disomogeneità di vedute tra i diversi tribunali.
36Prendiamo ad esempio in considerazione il Parlamento di Parigi, che mostrò una precoce e significativa apertura nei confronti delle femmes remariées, quando dispose che la vedova non perdeva le liberalità ricevute dal defunto marito, nonostante ella fosse convolata a seconde nozze nell’anno di lutto e senza essersi curata di far nominare un tutore per i propri figli. Siamo nel 158462. Quarant’anni dopo, analogamente, il Parlamento di Rennes respinse la domanda che gli eredi del primo marito avevano intentato contro una vedova che si era risposata nell’an de deuil, perché venisse privata delle donazioni reciproche tra questa e il defunto63. In senso conforme ebbe modo di pronunciarsi, agli inizi del Settecento, anche il Parlamento di Bordeaux in due diverse occasioni64.
37Possiamo dunque affermare che, nel tempo, si era consolidato un orientamento autorevole e condiviso, che in certi casi escludeva le sanzioni previste dalla legge per le donne che avessero contratto seconde nozze prima dei termini previsti dalla legge. Tuttavia, com’è facile intuire, non tutti i tribunali vi si uniformarono: mentre a Dijon, infatti, le peines de l’andudeuil verso le donne venivano comminate solo parzialmente65, in seno alle corti di Toulose, Grenoble e Aix a prevalere invece era la tendenza più conservatrice ad applicarle in ogni caso66. Tale rigore era motivato, come spiegava il consigliere del re Simon d’Olive du Mesnil nelle sue Observationssurlesquestionsnotablesdudroit, dall’obbligo che si reputava esistesse in capo alla madre di far nominare un tutore ai figli di primo letto in data anteriore al secondo matrimonio: decidendo di risposarsi, a prescindere dal rispetto o meno del periodo di lutto prescritto, ella si rendeva infatti indegna del ruolo di tutrice della sua stessa prole67. Non ottemperare a tale obbligo – specificava inoltre il Parlamento di Toulouse in uno dei suoi arrêts68 – avrebbe comportato l’applicazione delle pene previste per le seconde nozze contratte nell’anno di lutto, vale a dire la perdita tanto della proprietà quanto dell’usufrutto delle donazioni, dei lasciti e delle altre liberalità ricevute dal primo marito.
38Il tema delle limitazioni della capacità femminile in caso di seconde nozze occupava le riflessioni dei giudici anche sotto altri profili, e mostrava quanto distanti potessero essere le posizioni delle singole corti francesi. Notiamo ad esempio che il Parlamento di Dijon, con sentenza del 28 giugno 1612, dispose la riduzione dei doni e dei benefici concessi dal monsieur Jean Bachet alla seconda moglie sia per contratto di matrimonio sia per testamento, affinché questi vantaggi venissero dati ai figli di primo letto che avevano ricevuto meno degli altri in occasione della successione69. Nel maggio del 1648 la stessa corte si trovò a precisare che tale riduzione non doveva aver luogo nel caso di donazioni reciproche fra persone che passavano a secondo o successivo matrimonio70; qualche anno più tardi, contraddicendo le precedenti decisioni, avrebbe statuito in due diverse occasioni che alle donazioni reciproche erano da estendersi le pene previste per le seconde nozze71. Con queste decisioni la corte di Dijon, che aveva mutato parere in un tempo relativamente breve, si uniformava così all’orientamento più rigoroso che su questo tema aveva invece mostrato il Parlamento di Parigi72.
39A fronte di variazioni anche sostanziali, come quelle appena ricordate, da tribunale a tribunale, è dato però riscontare un atteggiamento pressoché analogo e in perfetta sintonia con il quadro normativo di riferimento, quando si trattava invece di osteggiare le seconde nozze di donne nobili con uomini che non occupavano la medesima posizione sociale. Un esempio è dato da alcune sentenze conformi della corte bretone e di quella parigina, rese lungo un arco cronologico piuttosto esteso. Nel 1575 il Parlamento di Bretagna aveva fondato la pronuncia di interdizione di una donna sulle sue seconde nozze con un giovane meno abbiente di lei, così come disponeva l’art. 182 dell’ordonnance di Blois. La stessa corte ebbe occasione di precisare in seguito che il matrimonio con un uomo di rango inferiore fosse addirittura causa di interdizione della donna «di pieno diritto», senza che occorresse una sentenza in tal senso: i contratti da lei stipulati a partire dalla data delle nozze sarebbero stati quindi considerati nulli73. Con una sentenza del 1748, il Parlamento di Parigi aveva privato della tutela dei figli la vedova di un procuratore di quella stessa corte, per il solo fatto di aver progettato di sposare un suo domestico74. Il Parlamento di Toulouse si era spinto ancora oltre, quando, nel 1597, aveva dichiarato la nullità del lascito di 600 corone fatto da Marie Carbonniere, vedova di un consigliere del siniscalco di Tarbes, in favore di un calzettaio col quale si era fidanzata poco prima della sua morte e del suo testamento75. Attraverso la loro estensione anche al semplice fidanzamento, le previsioni dell’ordonnance di Blois, riferite al solo matrimonio delle vedove con «personnes indignes de leur qualité», venivano così ulteriormente irrigidite.
40Il Parlamento di Bourdeaux si distinse al contrario per la sua peculiare interpretazione delle norme sul tema, mostrando un chiaro indirizzo in favore delle donne: denunciò il rigore non solo dei precetti normativi, ma anche della prassi seguita da alcuni tribunali e ne evidenziò il carattere ingiustificatamente discriminatorio. Riteneva infatti iniquo privare «la femme qui prend un second mari dans l’an de deuil» della proprietà e dell’usufrutto di tutti i beni che aveva acquisito dal primo marito, tanto per contratto di matrimonio, quanto per donazione e testamento. In tal modo, asseriva la corte enfatizzando i tratti paradossali della normativa, «le sexe le plus foible est traité le plus durement». Una tale disparità di trattamento, inoltre, veniva solitamente fondata sul rispetto di una honnêtetépublique, intesa come monito rivolto soltanto alle donne, che non obbligava anche gli uomini «à conserver pour leurs femmes les mêmes sentiments que ceux qu’on exige des femmes pour leurs maris76». Se si fosse tenuto a mente poi che sia la Chiesa che le leggi civili autorizzavano le seconde nozze, si sarebbe facilmente colta un’altra evidente incongruenza: infliggere le cosiddette pene delle seconde nozze alle sole donne sarebbe infatti equivalso a condannarle per un reato immaginario che la legge però permetteva loro di commettere. La conclusione di questo ragionamento non poteva essere meglio argomentata: il Parlamento di Bourdeaux non riconosceva e non applicava le pene previste che la legge prescriveva in caso di secondo o ulteriore matrimonio. Poco importava che questo fosse celebrato nell’anno di lutto o in seguito: la vedova poteva risposarsi impunemente in qualunque momento.
41Diverso era invece il caso in cui la donna avesse condotto una vita dissoluta, proprio nel periodo in cui ella avrebbe dovuto ispirarsi ai nobili canoni dell’onestà e della purezza. Come spiegava Pierre Dupin, che esercitava la professione di avvocato presso il tribunale di Bourdeaux, «la débauche est infinement plus condamnable que les secondes noces», e imponeva per questo il massimo rigore da parte dei tribunali. In tal senso era orientato il Parlamento di Parigi, che puniva «les veuves qui avoit malversé dans l’année du deuil», come anche lo stesso moderato Parlamento di Bourdeaux, che non mostrava alcuna indulgenza nei confronti di coloro che conducevano «une vie impudique» e le privava quindi di tutti i vantaggi ricevuti dal primo marito, o il tribunale di Aydes, che privò nel dicembre 1631 una “vedova impudica” del privilegio maritale consistente nell’esenzione delle tasse77. I giudici della corte di Toulouse ritenevano di applicare tali sanzioni anche alla donna che avesse tenuto comportamenti inappropriati anche oltre l’anno di lutto e giunsero persino a privarla della successione dei figli di primo letto78. Il Parlamento d’Aix si spinse oltre, e nel 1674 si pronunciò positivamente sull’annosa questione se i parenti fossero ammessi o meno a provare in giudizio la scostumatezza della vedova nell’anno di lutto, al punto che estese tale facoltà agli stessi figli nei confronti della madre. Questa sentenza vinceva la remora, che aveva indotto molti giudici a escludere tale tipo di prova, e a non permettere al figlio di intentare un’azione che potesse arrecare infamia a colei che gli aveva dato la vita e alla quale dunque non erano dovuti che rispetto e deferenza79.
42Maggiore cautela bisognava adottare quando ciò che si contestava alla vedova era di tenere una condotta “troppo mondana”, consistente nel recarsi a feste e balli nell’anno di lutto. Sebbene anche in questo caso fosse in primo piano l’onore del marito defunto, la cui memoria non era celebrata come si sarebbe convenuto, i tribunali non giunsero mai a condannare la donna in tali circostanze e a privarla dei diritti successori: si sosteneva che per comminare la sanzione non fosse sufficiente allegare in giudizio «la simple mondanité» della vedova, ma occorresse piuttosto dimostrarne il malcostume in modo preciso e formale80.
4. Una provvida moglie: il caso della dame de Menars
43La giurisprudenza francese, dunque, pur costretta a fare i conti con un patrimonio normativo sotto molti aspetti discriminatorio nei confronti delle donne e legato a una tradizione lunga e radicata, non sempre ebbe un orientamento rigoroso, fedele alle leggi e alle consuetudini vigenti. Al contrario, alcune eminenti corti si trovarono in più di un’occasione ad apportare importanti correttivi alle previsioni più severe, con l’effetto di aprire, in casi particolari, una piccola breccia in favore della capacità femminile.
44Esemplare in tal senso è una vicenda che si svolse i primi anni del Settecento a Menars, nel dipartimento di Loir-et-Cher, sito in Francia, nella Regione di Centro. Protagonisti di questa storia furono Michel-Jean-Baptiste Charron, marchese di Menars e gouverneurduchâteaua Blois e Anne de Castras de la Rivière che, pur non vantando origini nobiliari, divenne la seconda moglie del marchese e, guadagnata in breve tempo la fiducia della famiglia di lui, riuscì a farsi affidare per via giudiziaria la gestione quasi esclusiva degli ingenti beni del marito81.
45Anche questo è un caso piuttosto complesso, che mostra alcuni interessanti profili in merito al tema che ci interessa; in particolare, mette in luce le sapienti manovre giudiziarie che resero possibile, in un contesto di forte discriminazione femminile in ambito normativo come quello francese di antico regime, conferire a una donna il potere di amministrare in modo totalmente autonomo il cospicuo patrimonio del marito incapace.
46Per comprendere lo svolgimento di questo celebre e travagliato processo, è utile risalire agli avvenimenti che lo hanno originato. La vita del marchese di Menars ebbe una data cruciale. Il 4 maggio 1700 una sentenza statuì infatti la sua interdizione e contestualmente gli vietò di assumere alcun impegno contrattuale di sua iniziativa. Da quel momento, qualunque atto di disposizione patrimoniale sarebbe dovuto passare al vaglio del padre di lui, e in seguito a quello della (prima) moglie. Il marchese avrebbe cercato più volte, ma invano, di sciogliere i nodi che gli impedivano di agire liberamente, specie durante la malattia della consorte che, nei pochi anni che le restarono da vivere, dimostrò di non essere più in grado di curare gli interessi di entrambi, in particolare quelli relativi ai beni che i due coniugi avevano in comunione. Egli non riuscì neanche ad opporsi utilmente alla nomina di un altro curatore, avvenuta dopo il decesso della moglie.
47Una decisiva svolta, in quella che sembrava ormai una situazione stagnante, giunse dalle seconde nozze del marchese rimasto vedovo con la damoiselle de la Rivière. La nuova signora di Menars si unì presto al marito nel reiterare la richiesta di revoca dell’interdizione, che continuava a essere fermamente osteggiata dalla famiglia di lui. Questa volta però l’esito del giudizio fu positivo, e il 22 febbraio 1729, quasi trent’anni dopo la prima pronuncia di interdizione, il marchese ritornò formalmente in possesso della sua piena libertà contrattuale.
48Ma la sentenza produsse ulteriori effetti, decisamente favorevoli per la dame de Menars, e tutt’altro che trascurabili: anzitutto, la revoca del curatore precedentemente nominato e, fatto ancor più significativo, l’assunzione in capo alla stessa moglie del potere di amministrare tutti gli affari del marito, compresa la gestione delle spese e delle rendite della casa. Ella si assumeva formalmente anche il compito di vegliare sul marchese, per impedire che egli abusasse di una libertà di certo funesta in un uomo dallo spirito particolarmente debole, considerata la sua propensione a concludere affari sbagliati, l’inettitudine a comprendere il reale valore delle cose e la leggerezza con cui egli aveva firmato tutte le carte che fino a quel momento gli erano state presentate.
49Questa provvida moglie non riuscì tuttavia a contenere le perniciose inclinazioni del marito, tanto da trovarsi costretta a consultare i personaggi più influenti della famiglia perché la aiutassero a prendere provvedimenti per tutelare sia la persona che il patrimonio di lui. In un primo momento ella assunse, su proposta dello stesso marchese, il potere assoluto e irrevocabile di governarne tutti i suoi beni: una sentenza del luogotenente civile del 27 marzo 1733 ratificò tale richiesta e dispose di conseguenza che ogni atto compiuto senza il suo consenso sarebbe stato dichiarato nullo82.
50Si trattava di gestire una ricchezza cospicua: l’uomo che ella aveva sposato, infatti, Michel-Jean-Baptiste Charron, non solo vantava nobili origini, ma aveva anche ricevuto una consistente eredità. Era figlio di Jean-Jacuqes Charon, che fu consigliere del Parlamento, poi maître desrequêtes, e infine presidente del Parlamento di Parigi. Questo padre così influente aveva ottenuto che Menars, che un tempo era stata una signoria, divenisse prima viscontea (con le Lettere del 24 aprile 1657) e poi marchesato (con le Lettere del settembre 1676)83. Per avere un’idea dell’entità del patrimonio del nostro marchese, basti pensare che le rendite delle diverse proprietà appartenenti alla signoria di Menars, che nel 1760 (21 anni dopo la morte del marchese) sarebbero state vendute alla celebre madame de Pompadour, furono stimate 40.000 livres84
51Era chiaro che la sentenza del luogotenente civile del 1733, col riconoscere ufficialmente un potere che le era stato concesso dal suo stesso marito, aveva posto la moglie nelle condizioni di dirigere in modo pressoché esclusivo l’immensa fortuna del marchese. Tuttavia non passò molto tempo perché ella si rendesse conto che quel potere, benché esteso, non fosse sufficiente a limitare i danni che potevano derivare dalla condotta sconsiderata dell’uomo. Se si pensa alle primissime fasi di questa lunga e travagliata vicenda, forse può stupire che l’intraprendente signora di Menars, la stessa che pochi anni prima si era battuta con successo per ottenerne la revoca, si sia trovata a un certo punto a domandare che fosse pronunciata nuovamente l’interdizione del marito. Stavolta la marchesa godeva dell’appoggio della maggior parte dei familiari, e non le fu difficile ottenere una sentenza conforme alle sue richieste. Ella veniva così nominata curatrice esclusiva del patrimonio del marito.
52Si chiudeva così una lunga vicenda giudiziaria. La rapida scalata della moglie del marchese di Menars verso l’amministrazione esclusiva dei beni del ricco e nobile marito può sicuramente essere vista come un fatto inconsueto, sia che si tenga conto del quadro d’insieme, sia che ci si soffermi sulle peculiarità del caso. La scarsa considerazione delle attitudini gestionali delle donne nella Francia d’antico regime e la normativa che, come si è ampiamente visto, in generale si rivelava fortemente discriminatoria nei loro confronti, vanno infatti unite alla duplice circostanza che la marchesa di Menars era di origini borghesi e che a tutto il procedimento parteciparono ed espressero di frequente il loro parere altri componenti autorevoli della famiglia del marchese. Questi ultimi avrebbero potuto benissimo occuparsi – come normalmente accadeva in casi analoghi, specie quando in gioco era un grande patrimonio nobiliare – dei compiti che invece furono affidati quasi subito a lei, per poi essere gradualmente accresciuti.
53Non è facile indagare i percorsi che hanno condotto a un esito tanto singolare del celebre caso, specie in un contesto ove si era portati a dubitare che la moglie fosse in grado di prendersi cura del marito interdetto attraverso l’istituto della tutela. Sarà sufficiente forse ricordare che, ancora nella seconda metà del Settecento, François Bourjon affermava che riconoscere un tale potere a una donna sarebbe equivalso a sovvertire l’ordine naturale, oltre che a contraddire apertamente la legge85, e addirittura che lo stesso parere della moglie per la nomina del tutore sarebbe stato del tutto inutile a causa della nota faiblessedusexe86.
54Se si volesse tentare di dare una spiegazione alla vicenda giudiziaria appena esaminata, si potrebbe ipotizzare un’astuta strategia della moglie, che riuscì non solo a liberarsi – attraverso la revoca dell’interdizione – del curatore nominato al marito, ma anche, in un lasso di tempo relativamente breve, a vincere le iniziali resistenze dei familiari acquisiti e dei giudici, per farsi affidare la gestione di un ingente patrimonio. Oppure potremmo pensare, più semplicemente, che la marchesa abbia mostrato, in quei lunghi e travagliati anni, una particolare abilità nella gestione dei beni del marito e una sincera devozione nei suoi confronti, e che furono proprio tale abilità e tale devozione a farle presto guadagnare una certa stima in seno alla famiglia acquisita. Erano tutti dati di cui giudici, dotati com’erano di grandi poteri d’apprezzamento, in quella circostanza di sicuro tennero sapientemente conto per fondare la loro decisione. In tal modo l’arbitrium, dispositivo «di alimentazione e gestione della correlazione tra ordinarietà e straordinarietà», continuava ad essere «meccanismo di base per l’ammodernamento del sistema» e contribuiva a superare un antico e radicato stereotipo87.
5. Considerazioni conclusive
55Il panorama normativo della Francia d’Ancien Régime era dominato da leggi e consuetudini apertamente restrittive della capacità di gestione patrimoniale della donna. Con riguardo all’ipotesi delle seconde nozze, non solo erano previsti limiti ulteriori, ma venivano anche comminate vere e proprie sanzioni, le cosiddette peines de l’andudeuil. Queste operavano quasi esclusivamente in linea femminile, con l’intento dichiarato di salvaguardare i figli di primo letto da una decisioni viziate ab origine dalla sexusinfirmitas, perché provenienti da persone per loro natura deboli e facilmente raggirabili. La vedova che si fosse risposata avrebbe così subìto pesanti limitazioni della capacità, sarebbe stata privata di quanto ricevuto in dono o per testamento dal precedente marito, mentre lo stesso non sarebbe avvenuto nel caso in cui fosse stato l’uomo a risposarsi.
56Si trattava di previsioni fondate su modelli profondamente radicati nella cultura del tempo, in continuità con il risalente e condiviso «concetto della inferiorità della donna rispetto all’uomo; quella inferiorità che fanciulla l’avea messa sotto la potestà dei parenti, e congiunta a uno sposo l’avea resa soggetta al suo dominio88». Convinzione diffusa anche nel dibattito medico-filosofico, che accomunava «senza evidenti divergenze, filosofi e poeti, pensatori politici e teologi, giuristi ed astronomi, Greci e Latini, Antichi e moderni89», la si rinviene nell’eredità antropologica dell’illuminismo, da Voltaire, a Montesquieu, a Rousseau90.
57Anche quanti affermavano la necessità del secondo matrimonio per la donna rimasta vedova, in realtà erano portatori di istanze non dissimili da quelle dei detrattori delle seconde nozze: i loro argomenti erano altrettanto forti e fondati sui medesimi presupposti. Ci si proponeva infatti di scongiurare – come affermava Pothier – «un sommo pregiudizio; come avviene allorquando una vedova, dopo la morte del marito, deve sostenere il peso di un grande lavoro, o di un esteso commercio, cui dessa non può accudire senza il soccorso di un secondo marito91». Entrambi i punti di vista mostravano, in definitiva, due facce della stessa medaglia, nel rafforzare l’idea di una presunta inettitudine della donna a svolgere attività lavorative al di fuori delle mura domestiche o a proseguire le attività commerciali del marito, salvo che in casi particolarissimi, da prendere in considerazione singolarmente.
58I parlamenti francesi sotto l’Ancien Régime si confrontarono con queste norme e con questi stereotipi. Per essere compresi, gli esempi fin qui presentati vanno messi in relazione alla legislazione frammentaria e lacunosa, che almeno fino alla fine del Settecento contribuì – non solo in Francia – a mantenere viva una concezione di netta inferiorità della donna rispetto all’uomo. Se a volte i giudici di quelle corti si limitarono a un’interpretazione rigorosa e asettica delle leggi e delle consuetudini, si è visto come in casi peculiari essi ne diedero invece una lettura più mite, adeguata alle circostanze concrete, e tentarono di superare le discriminazioni che reputavano eccessive e ingiustificate. Alcuni di questi giudizi si distinsero dunque per le aperture innovative, e fornirono ai giuristi del tempo lo spunto per una rilettura ‘elastica’ della norme vigenti. Si potrebbe dire in altre parole che nel corso dell’età moderna, grazie agli ampi poteri di apprezzamento di quelle corti e alle sapienti strategie familiari e individuali che interagirono con il diritto, si iniziarono a compiere alcuni passi, piccoli ma significativi, per una graduale maturazione – non ancora pienamente compiuta – di una cultura giuridica volta a riconoscere la capacità femminile oltre gli angusti limiti previsti dalla legge.