journal Debates Conference

Pietro Costa

Nation-building e State-building nel ‘lungo’ Ottocento: miti identitari e strategie di dominio

1. Cenni introduttivi

1È un dato acquisito che il diritto internazionale si è venuto formando come disciplina scientifica nel corso del XIX secolo sulla base di due assiomi, talvolta ampiamente argomentati, ma spesso assunti come impliciti o evidenti: da un lato, l’idea che gli Stati non si limitino a coesistere e a confliggere in uno spazio giuridicamente amorfo, ma vengano a comporre una ‘comunità’ organizzata secondo regole che gli Stati stessi, in quanto membri egualmente sovrani di quella comunità, adottano concordemente; dall’altro lato, la convinzione che quella comunità (e i membri che la compongono) condividano, al di là delle differenze e dei conflitti, una ‘forma di vita’ segnata da due elementi che li distinguono dal resto del mondo: l’appartenenza alla civiltà e l’appartenenza alla cristianità1.

2La genesi e il senso di questi assiomi sono stati accuratamente studiati dalla recente storiografia, che ha variamente illustrato il carattere ‘eurocentrico’ del diritto internazionale ottocentesco. Ovviamente, entrambi gli assiomi dipendono da una premessa logicamente antecedente: l’idea dello Stato come attore sovrano; un’idea che coincide con uno dei più accidentati percorsi della modernità occidentale ed è stata oggetto di una riflessione giuridica e storiografica tanto imponente da essere ormai difficilmente dominabile nella sua interezza. Non può però essere escluso che qualche spunto interessante possa ancora essere offerto dall’analisi delle ‘zone di confine’, dalla ricognizione del crinale che separa, ma anche mette in contatto, da un lato, gli interessi, i conflitti, i progetti, i simboli politici, e, dall’altro, l’elaborazione giuridica della ‘forma Stato’. Sappiamo ormai molto su ciò che è successo nell’uno e nell’altro versante. Conviene però riflettere ancora sui punti di congiunzione e sulle modalità di miscelazione fra i simboli ‘politici’, le immagini e le aspettative socialmente diffuse, e le forme, apparentemente disincarnate e asettiche, della statualità.

3In questa prospettiva, un’indubbia rilevanza deve essere riconosciuta al processo di formazione delle grandi ‘identità collettive’, che nel corso dell’Ottocento dominano l’immaginario delle società europee. Fra queste, la ‘nazione’ svolge un ruolo privilegiato, tanto da giustificare la denominazione del secolo diciannovesimo come il ‘secolo del nazionalismo’2. Al contempo, tuttavia, termini quali ‘nazione’ e ‘nazionalismo’ appaiono complessi e sfuggenti non soltanto per la politologia (che da tempo si divide sugli elementi capaci di definire concettualmente il proprium di una ‘nazione’3), ma anche per la storiografia che, lavorando su contesti specifici, su società profondamente diverse (pur entro la koinè europea), non può non rilevare una molteplicità di sensi e impieghi del termine ‘nazione’, che rendono difficile l’uso del singolare e suggeriscono il ricorso al plurale. Che sia possibile parlare di ‘nazione’ e di ‘nazionalismo’, al singolare, allora, lungi dall’essere un pacifico punto di partenza, può essere un problematico punto di arrivo, per raggiungere il quale occorre mostrare, pur nella varietà dei tanti ‘nazionalismi’ ottocenteschi, qualche tratto ricorrente in ciascuno di essi, qualche simbolo e valore condiviso, insomma, una qualche ‘aria di famiglia’ che li accomuni tutti4.

4Se questa ‘aria di famiglia’ fosse ravvisabile, potremmo allora parlare di un ‘discorso’ relativamente unitario che, facendo leva sul lemma ‘nazione’, da un lato, contribuisce alla formazione di un’identità collettiva determinante per numerosi paesi europei, pur nella varietà delle loro storie ‘regionali’, e, dall’altro lato, incide a fondo sulle argomentazioni di una cultura giuridica che sta facendo della costruzione del concetto di Stato il proprio fiore all’occhiello.

5Vaste programme, è il caso di dire; e, in ogni caso, un programma incompatibile con il breve spazio di un saggio. Dovrò quindi propormi un obiettivo più modesto: della ‘zona di confine’ che sarebbe interessante esplorare richiamerò soltanto qualche profilo di carattere generale e indicherò (ma non potrò ripercorrere compiutamente) alcuni itinerari euristici fra i tanti possibili.

2. La nazione come storia e l’‘eccezionalismo’ dell’Occidente

6Che cosa intendere per ‘nazionalismo’? Quali sono il suo senso e la sua funzione nel discorso pubblico dell’Ottocento? Una risposta molto netta proviene da Gellner. Per Gellner il nazionalismo è «a political principle, which holds that the political and the national unit should be congruent»5. Gellner ci invita a confrontare due entità – la nazione e lo Stato – e ci dice che il nazionalismo è una dottrina che reclama la loro perfetta coincidenza. La definizione è limpida e sembra perfettamente riferibile a due importanti processi di State-building ottocenteschi: ai processi che in Germania e in Italia portarono alla costruzione di un nuovo Stato unitario, a distanza di pochi anni l’uno dall’altro6.

7La nazione viene a proporsi come il fondamento di legittimità dell’ordine politico. Certo, già la Rivoluzione francese aveva trovato nella nazione un insostituibile mythomoteur, ma il suo messaggio non poteva essere meccanicamente trapiantato nella Germania e nell’Italia del primo Ottocento. Lo impedivano non soltanto le reazioni di rigetto provocate (soprattutto in Germania) dall’espansionismo napoleonico, ma anche e soprattutto i profondi mutamenti culturali intervenuti: il paradigma contrattualistico, dominante nella cultura settecentesca e ancora presente nei dibattiti rivoluzionari nella Francia di fine Settecento, era ormai soppiantato dal dilagante paradigma storicistico; ed è a esso che attinge il nazionalismo ottocentesco.

8Consideriamo il caso, emblematico, di Giuseppe Mazzini. Il nation-building italiano (il ‘Risorgimento’) è impensabile senza Mazzini, che esprime con esemplare chiarezza la necessità di fare della nazione l’elemento fondante di un nuovo ordine politico che possa dirsi finalmente italiano. Mazzini ha un rapporto complesso con la Rivoluzione francese: prende le distanze da ciò che ai suoi occhi sono le componenti edonistiche, individualistiche, materialistiche della cultura settecentesca e rivoluzionaria, ma ne accoglie il messaggio egualitario e repubblicano e il volontarismo prometeico: la convinzione che il futuro è nelle mani degli uomini che fermamente lo vogliano. A muovere la storia sono il senso del dovere, la coscienza, la volontà: la volontà dei singoli e la volontà di un popolo. Dalla vicenda rivoluzionaria Mazzini raccoglie anche l’idea del potere costituente. Già prima dei movimenti rivoluzionari del ’48-49, Mazzini lancia l’idea di un’assemblea costituente che raccolga i rappresentanti dell’intera nazione, organizzi la lotta al nemico e detti la forma del futuro Stato7.

9La nazione è il determinante soggetto collettivo e attore politico: è la sostanza messa in forma dallo Stato, che quindi è potere nudo e illegittimo se privato del corpo della nazione. È questa la tesi illustrata da Pasquale Stanislao Mancini nelle sue famose prolusioni: una tesi che ottiene una notevole risonanza non perché sorprende per la sua originalità, ma perché conferma ed esprime con efficacia una convinzione ampiamente diffusa8.

10Non esiste una nazione che, una volta divenuta consapevole di se stessa, non agisca per darsi una forma, un’esistenza, una visibilità politica. La nazione chiede di farsi Stato e, viceversa, lo Stato non vive se non come la forma istituzionale di una soggiacente collettività nazionale. Nation-building e State-building si implicano a vicenda: la definizione che Gellner dà del ‘nazionalismo’ rispecchia perfettamente l’idea-guida che, sia pure attraverso itinerari e modelli culturali diversi, sorregge il movimento per l’unificazione politica in Italia e in Germania.

11Nazione, volontà nazionale e (per Mazzini) potere costituente: la Rivoluzione francese sembra ancora vicina. In realtà, non lo è perché entra in gioco il paradigma storicistico dominante nel nation-building tanto tedesco quanto italiano: la nazione non è la risultante di una decisione contrattuale dei soggetti, ma ha una precisa consistenza ontologica. La nazione (come il Volk, per i tedeschi9) è una collettività plasmata da una storia millenaria, che ha attribuito a essa caratteri inconfondibili, confermati di generazione in generazione10. La nazione è il ricettacolo di un’identità da sempre e per sempre esistente. Questa identità non può essere cancellata, ma può essere dimenticata. Da ciò la parola che connota il nazionalismo ottocentesco in Italia: il ‘risorgimento’. Ciò che è chiamato a risorgere11, a prendere nuova vita, a essere strappato dall’oblio è appunto il senso dell’identità nazionale.

12Quali sono i tratti attribuiti, in Germania e in Italia, alla nazione? La risposta a questa domanda non è affidata a pochi e isolati filosofi, ma promana dall’intera cultura del periodo, dalla novellistica alla poesia, alla musica, al teatro, all’iconografia. Le principali élites sociali e culturali concorrono nel fare della nazione la parola del momento12. Gli elementi che la definiscono sono molteplici: dalla lingua alla religione, alla morale, al diritto, fino all’appartenenza a una medesima stirpe, alla condivisione dei legami di sangue che si rinnovano di generazione in generazione

13Ogni popolo ha una sua inconfondibile fisionomia che si imprime indelebilmente su ciascuno dei suoi membri. Possiamo dimenticare o riscoprire la nostra identità, ma non possiamo sceglierla. Certo, se l’oblio o il recupero dell’identità collettiva sono affidati alla responsabilità di ciascuno e di tutti, resta decisivo il momento della coscienza e della volontà, su cui Mazzini e Mancini insistono. ‘Coscienza’ però significa essenzialmente consapevolezza delle nostre radici e del nostro destino. Possiamo scoprire chi siamo, ma non possiamo cambiare il nostro stesso essere. L’identità nazionale è plasmata da una storia immemoriale che la strappa alla casualità e alla contingenza e imprime a essa il senso di un percorso provvidenziale e fatale.

14La nazione è storia e la storia della nazione è una storia sacra: è la storia di un processo salvifico, una storia segnata da tradimenti ed eroismi, da cedimenti e da successi, ma comunque orientata al riscatto finale. L’identità nazionale è circonfusa da un’aura sacrale e il senso dell’appartenenza alla nazione è rafforzato da simboli religiosi valorizzati dall’epica nazionalistica, in Germania e in Italia.

15Il pathos religioso investe i più diversi aspetti dell’identità nazionale, ma trova un momento privilegiato in una componente fondamentale della nazione: il territorio. Il territorio, in quanto luogo di insediamento di un popolo consapevole della sua identità, non ha una valenza meramente politica. Sono i legami di sangue, la catena ininterrotta delle generazioni a tenere unito un popolo e a legarlo a un determinato territorio; e, di conseguenza, il territorio sul quale da tempo immemorabile un popolo è insediato non è un luogo fisico, ma è uno spazio identitario; e se è uno spazio identitario è uno spazio sacro. La pubblicistica italiana, per riferirsi ai territori rimasti sotto l’impero austriaco dopo la terza guerra d’indipendenza del 1866 (il Trentino-Alto Adige, la Venezia Giulia, Fiume, la Dalmazia), parla di terre ‘irredente’; strapparle allo straniero è ‘redimerle’: ricongiungerle al corpo sacro della nazione.

16L’appartenenza alla nazione ha una dimensione etica e religiosa, indica un destino, è impressa sul volto, sul soma, sulla psiche del soggetto e solo in ultima istanza ha anche una valenza giuridica e politica. L’identità individuale trae senso dall’identità collettiva e, se necessario, deve essere sacrificata sull’altare della comunità nazionale. La nazione è una madre (la «sublime madre nostra», come recita il titolo di un libro di Alberto Banti13): una madre esigente, che dà la vita, ma anche la chiede.

17Circonfusa da un’aura sacrale, l’identità nazionale valorizza l’etica del sacrificio. L’eroe dell’epica nazionalistica è votato, prima che al trionfo, alla morte sacrificale. Anche in questo caso, tanto l’iconografia quanto il teatro (e in particolare il teatro d’opera14) offrono le testimonianze più probanti, in linea con la generale presa di distanza dall’edonismo e dall’individualismo settecenteschi.

18La coscienza della nazione come missione e come destino esige la disponibilità al sacrificio di sé, all’immolazione, ma a sua volta la disponibilità alla propria morte è l’altra faccia di una lotta che ha come posta in gioco la morte del nemico. L’epica nazionalistica è intimamente legata alla guerra. La nazione risorge nella misura in cui scopre la sua condizione di minorità, di avvilimento: in esilio a casa propria, la nazione prende coscienza di sé individuando un nemico; e il nemico è lo straniero che calpesta il sacro suolo della patria.

19Sacrificio e guerra sono le due facce di un ethos che fa leva sull’identità nazionale per reclamare l’unità politica del paese e progettare il nuovo Stato. Quale dovrà essere la forma di questo Stato sarà un difficile problema che si porrà al centro del dibattito politico e giuridico. Quale che sia la struttura istituzionale che lo Stato assumerà, il suo fondamento di legittimità così come i fini della sua azione restano comunque predeterminati dal senso di un’identità collettiva che trova nella nazione la sua più forte espressione simbolica. È la nazione, la sintesi vivente di una storia millenaria, la sostanza dello Stato e lo Stato a sua volta trae da essa, sua linfa vitale, la determinazione della sua missione storica. Forgiato dal simbolo dell’identità nazionale, lo Stato, in Germania e in Italia, è intimamente legato alla guerra (e peraltro una lunga e robusta tradizione, in particolare nella cultura tedesca, aveva sottolineato la vocazione guerriera dello Stato – si pensi emblematicamente a Hegel15).

20Se ciò è vero, conviene ridimensionare le differenze, abitualmente sottolineate, fra il nazionalismo del primo Ottocento e il nazionalismo di fine secolo. In primo luogo, viene fatto notare che il nazionalismo ‘risorgimentale’ è caratterizzato dal paradigma della volontà e della coscienza, di contro al naturalismo imperante alla fine del secolo. Ora, è vero che a fine secolo, con l’affermarsi dell’antropologia darwiniana, il naturalismo domina il campo (e incide sull’elaborazione delle ideologie razziali), mentre si indebolisce o svanisce il richiamo alla coscienza e alla volontà, prevalente negli anni Quaranta e Cinquanta. Nemmeno nel primo Ottocento però, come ho ricordato, la nazione ha una dimensione soltanto etico-politica: non coincide con le convergenti volontà di individui decisi a far parte della medesima comunità, ma ha una sua oggettiva e indisponibile consistenza, si impone ai singoli con la forza irresistibile della tradizione e dei legami di sangue.

21 In secondo luogo, è vero – come spesso si ripete – che nell’età dell’imperialismo la nazione vede aumentare esponenzialmente la sua dimensione espansionistica e aggressiva (basti pensare, per una conferma, al programma politico-ideologico del movimento, e poi partito, nazionalista di Alfredo Rocco e di Enrico Corradini). Ed è indubbio che Giuseppe Mazzini, nel momento in cu i rivendicava il diritto all’autodeterminazione (se vogliamo impiegare un’espressione anacronistica) di ogni singola nazione e combatteva per una ‘nuova Italia’, al contempo progettava anche una ‘nuova Europa’, un’Europa di nazioni rispettose delle rispettive autonomie Ciò però non deve nemmeno indurci a trascurare qualche elemento di continuità fra il ‘primo’ e il ‘secondo’ nazionalismo, quale l’insistenza sulla vocazione guerriera della nazione e sulla ‘sacrificabilità’ dei singoli sull’altare delle superiori esigenze della comunità.

22Esiste dunque, nella Germania e nell’Italia del ‘lungo’ Ottocento, un simbolo – il ‘Volk’, la ‘nazione’ – che, se pure sottoposto a molteplici interpretazioni e a rilevanti trasformazioni, tuttavia non cessa di svolgere un ruolo decisivo nel processo di formazione di un’identità collettiva che opera come l’orizzonte di senso entro il quale procedere alla fondazione di un nuovo assetto politico. In questo contesto, ‘pensare’ lo Stato (non meno che progettarlo, costruirlo e infine legittimarlo) e ‘pensare’ la nazione sono due facce della stessa moneta: lo Stato non è la nazione (perché vi sia lo ‘Stato’ occorre creare un plesso istituzionale e un sistema normativo e occorre ‘costruire’ un nuovo e impegnativo concetto giuridico), ma al contempo lo Stato, se non traesse senso e legittimità dalla nazione, resterebbe un involucro vuoto e un concetto astratto.

23‘Pensare’ lo Stato, nella Germania e nell’Italia dell’Ottocento, non è un compito che i giuristi possano svolgere isolandosi dal contesto. Lo Stato non è soltanto un’asettica ‘persona giuridica’, ma è anche il frutto di una mitopoiesi che trova nella nazione uno dei suoi principali vettori. È la nazione che proietta sulla sovranità statale la sua aura religiosa, la sacralizzazione del territorio, la logica del sacrificio, la vocazione guerriera.

24Lo Stato si rende ‘pensabile’ in stretta connessione con i miti e i simboli di un’identità collettiva che si sviluppa intorno alla nazione (o al Volk). A sua volta però la nazione, anzi, la nazione-Stato (se si prende per buona l’immagine della moneta e delle sue inseparabili facce), è immaginata attraverso il dominante paradigma storicistico che non soltanto induce a far leva sulla ‘tradizione’ e sulla catena delle generazioni, ma anche rinvia a una ‘filosofia della storia’ che si viene diffusamente affermando nel corso dell’Ottocento.

25In una siffatta prospettiva (lato sensu) storicistica, se l’intera esperienza umana deve essere compresa come un processo, come una serie ininterrotta di cambiamenti e di acquisizioni successive, è possibile, da un lato, delineare una storia ‘universale’, individuando gli snodi principali del complessivo divenire della condizione umana e, dall’altro lato, cogliere, di questo processo, la direzione di senso. La storia non procede casualmente e disordinatamente, ma è animata da un’interna teleologia: dalla graduale estensione delle capacità umane, dall’incremento della civiltà, in una parola, dal ‘progresso’.

26 Il movimento storico ha un carattere ascendente e procede dalla barbarie alla civiltà, dall’arretratezza allo sviluppo, ma i tempi, i ritmi e i luoghi del suo svolgimento sono diversi: il ‘progresso’ è rapido e impetuoso in Occidente ed è più lento o addirittura pressoché bloccato in altre zone del mondo. Dall’ultimo Condorcet a John Stuart Mill, a Herbert Spencer (e in genere all’intera cultura vittoriana16), per non parlare di Hegel e della sua idea della compiuta realizzazione dello Spirito in Europa e nel mondo cristiano-germanico17, le pur diverse (e per molti aspetti irriconciliabili) visioni della storia che si accavallano nel XIX secolo condividono una visione ‘ascendente’ e ‘progressiva’ della storia stessa e la convinzione che è l’Occidente l’area nella quale il ‘progresso’ raggiunge il suo culmine. Ciò che è temporalmente separato dal moderno e spazialmente distante dell’Occidente viene presentato come uno stadio ‘primitivo’ o ‘barbaro’ di un processo destinato a trovare la sua acme nella modernità occidentale.

27The west and the rest: è nell’Occidente, e non nel resto del mondo, che la storia si avvia a raggiungere il proprio compimento; e un tramite essenziale di questo percorso è precisamente il nesso fra nazione, Stato e sovranità. ‘Pensare’ lo Stato, nell’Ottocento, anche in Italia e in Germania, è dunque, da un lato, collegarlo con i miti identitari dell’appartenenza nazionale e, dall’altro lato, assumerlo come tramite e riprova dell’‘eccezionalismo’ dell’Occidente. Non esiste la civiltà moderna senza lo Stato-nazione e, viceversa, è lo Stato-nazione che detta all’Occidente la sua missione storica.

28Proprio perché Occidente, modernità, civiltà, nazione e Stato si implicano a vicenda, il rapporto fra l’Occidente e il resto del mondo non può che essere asimmetrico. In effetti, una siffatta autocomprensione dell’Occidente non è, da un punto di vista antropologico-culturale, particolarmente sorprendente: sono numerose le culture che si sono interpretate e narrate ponendosi al centro del mondo e colpendo i soggetti ‘esterni’ con lo stigma di un’insuperabile inferiorità18. Il punto è però che la visione ottocentesca della storia, della modernità e della civiltà ha funzionato come un potente dispositivo di legittimazione di un gigantesco processo di espansione politica ed economica: un’espansione che, nella sua fase più antica, ha trovato (secondo la celebre ricostruzione schmittiana19) la propria parola d’ordine nella ‘cristianizzazione’ dei popoli, per essere tendenzialmente sostituita, nel corso dell’Ottocento, dal mandato della ‘civilizzazione’ di popoli ‘barbari’ e incapaci di ‘progredire’ con le loro sole forze. In realtà, la ‘cristianizzazione’ e la ‘civilizzazione’, come dispositivi di legittimazione, hanno operato non tanto secondo una rigida successione cronologica, quanto in un costante rapporto di sinergia, entro il quale è andato cambiando semmai, nel corso del tempo, il peso specifico dell’una e dell’altra espressione.

29In ogni caso, è nella cornice di un’incontenibile espansione coloniale e di una connessa koinè politico-culturale di dimensione europea che il nation-building e lo state-building tedesco e italiano si sono sviluppati. Pensare la nazione-Stato, anche nell’Italia e nella Germania ‘preunitarie’, è assumerla come la forma più alta della modernità occidentale, come un’‘eccezione’ ancora ignota ai ‘barbari’ d’oltremare.

30Certo, in Germania come in Italia, dal primo Ottocento fino al conseguimento dell’agognata unità politica, tutte le energie sono concentrate sul ‘risorgimento’ della nazione e sulla costruzione di un nuovo Stato, che della nazione sia la forma visibile e il braccio armato. Le preoccupazioni coloniali non potevano emergere in questa precisa contingenza storica. Quando però anche gli Stati di più recente formazione decidono di voler partecipare alla spartizione delle terre extra-europee in competizione con gli Stati europei di più antica formazione, le retoriche capaci di illustrare e di legittimare una siffatta politica sono già pronte e sperimentate.

31 Una piccola, ma eloquente, conferma di ciò è offerta da un episodio dell’attività politica di uno dei più noti apostoli dello Stato-nazione: Pasquale Stanislao Mancini. Mancini aveva raggiunto la fama sostenendo il nesso obbligato fra nazione e Stato e rivendicando per ogni popolo il diritto di darsi un’autonoma organizzazione politica, di divenire uno Stato sovrano. Compiuta l’unificazione politica dell’Italia, però, lo stesso Mancini, al governo, spezza una lancia a favore dell’espansione coloniale, rifiutando ai popoli ‘colonizzandi’ quel diritto (diremmo noi) all’autodeterminazione in nome del quale egli aveva perorato la causa dell’indipendenza italiana. Potremmo ingenuamente pensare che siamo di fronte a una cinica palinodia, a un’interessata inversione di rotta, ma non è così. Mancini si limita a rendere esplicita una convinzione che restava al fondo del paradigma ‘storicistico-nazionalistico’ che egli aveva contribuito a sviluppare: la convinzione cioè che l’autocoscienza e l’autodeterminazione ‘nazionale’ e la costruzione di un corrispondente assetto politico-istituzionale, proprio in quanto espressioni di una storia ‘universale’ che raggiunge il punto più alto in Occidente, fossero appannaggio delle ‘civiltà superiori’ e fossero improponibili per i ‘barbari’.

32Se la nazione-Stato che presiede alla costruzione dell’unità nazionale, da un lato, è concepita in modo da sottolineare la vocazione dello Stato alla guerra e, dall’altro lato, è assunta come un’espressione idiomatica della modernità occidentale, non serve mutare alcunché del paradigma ‘nazional-storicistico’ quando gli Stati (i ‘vecchi’ come i ‘nuovi’ Stati) decidano di accollarsi il kiplinghiano ‘fardello dell’uomo bianco’.

3. Fra dottrine ‘assimilazionistiche’ ed «État imperial»

33In Germania e in Italia pensare e progettare il nuovo Stato passano attraverso la formazione di un’identità collettiva (la nazione, il Volk) che proietta sullo Stato la sua vocazione guerriera ed espansionistica, la sua istanza sacrificale, la sua dimensione sacrale, il suo ‘occidentalismo’. Certo, tanto in Germania quanto in Italia, l’immaginario e la retorica nazionalistici appartengono a un processo che conduce alla creazione di un nuovo ordinamento politico. Conviene quindi chiedersi se il nesso fra miti identitari e strategie di dominio, caratteristico di quel processo, appartenga esclusivamente a esso oppure ricorra anche (e, in questo caso, con quali caratteristiche) in paesi già da tempo politicamente uniti intorno a un ‘centro’ sovrano.

34La Francia è, da questo punto di vista, un caso esemplare. Da un lato, infatti, ha luogo in Francia, fra le soglie dell’età moderna e la rivoluzione di fine Settecento, quel processo di accentramento dei poteri che viene usualmente fatto coincidere con la formazione della moderna statualità; e, dall’altro lato, circola in Francia, già prima della rivoluzione, il termine ‘nazione’, usualmente impiegato per riferirsi al sistema sociopolitico esistente e alla sua organizzazione gerarchica, culminante nel monarca. La ‘nazione’ peraltro non aveva solo un significato descrittivo, ma prendeva a essere investita, nel corso del Settecento, di una forte carica emotiva in quanto associata a ‘patria’ e all’amore che la patria esige, tanto da divenire, soprattutto nella guerra dei Sette anni (la prima guerra ‘globale’, come sosteneva Winston Churchill), un simbolo di identificazione e di mobilitazione contro il nemico20.

35È nei confronti di questa idea di nazione, ancora tipicamente gerarchica e cetuale, che Joseph-Emmanuel Sieyès, alla vigilia della rivoluzione, sferra un’offensiva di portata epocale. Ricordiamo il ragionamento svolto da Sieyès nei due sue celebri saggi del 1788 e del 178921. Sappiamo dalla tradizione contrattualistica e giusnaturalistica – ci dice Sieyès – che, nella condizione ‘originaria’ dell’umanità, l’ordine politico è creato dalla decisione concorde degli individui liberi ed eguali. Che cosa è dunque la nazione francese e che rapporto deve intercorrere fra essa e un ordine politico legittimo? Occorre ripensare alla radice la nazione, liberandosi dalla logica della diseguaglianza e della gerarchia che la ha dominata sinora. Se sono gli individui eguali che contrattualmente ‘inventano’ il sovrano, chi sono gli individui che, nella Francia del 1789, appaiono investiti del potere di fondare o rifondare l’ordine politico? Sono i soggetti giuridicamente eguali: i membri del Terzo Stato, i venticinque milioni di francesi, e non i duecentomila ‘privilegiati’, che proprio in ragione del loro ‘privilegio’ non possono far parte di una nazione di ‘eguali’. La nazione coincide dunque con il Terzo Stato ed è questo nuovo soggetto collettivo – la nazione rivoluzionaria, la nazione degli eguali – il detentore, in generale, della sovranità e quindi il titolare di uno specifico ed esplosivo potere: il potere costituente.

36Con questi rapidi ed essenziali passaggi argomentativi Sieyès ha fatto della nazione un vero e proprio simbolo di fondazione del processo rivoluzionario, la condizione stessa della sua legittimità. La nazione di Sieyès non fa leva sulla storia o sulla tradizione. È ancora il modello giusnaturalistico che, dietro le quinte, ispira Sieyès e lo induce a presentare la nazione come un insieme di soggetti che, senza vincoli nei confronti del passato, decidono in sovrana libertà di creare l’ordine futuro. È appunto un’immagine ‘volontaristica’ della nazione a circolare nei dibattiti rivoluzionari (e a scatenare le ire di Edmund Burke, che già nel 1790 attacca frontalmente la rivoluzione e contrappone al ‘decisionismo’ della nazione costituente lo sviluppo continuo e graduale di una costituzione – la costituzione inglese – non già ‘decisa’ da un atto di volontà, ma sostenuta da una tradizione plurisecolare).

37Imperniata sulla convergente volontà di un insieme di soggetti liberi ed eguali, la nazione continua a corrispondere, nei dibattiti rivoluzionari, al modello ‘volontaristico’ e ‘contrattualistico’ delineato da Sieyès. Ed è questo modello che si presta ad audaci interpretazioni ‘cosmopolitiche’: per Marie-Joseph Chénier, per Anacharsis Cloots, a essere idealmente membri della nazione francese sono tutti gli amici della libertà, quale che sia il loro paese d’origine. Certo, anche nella Francia rivoluzionaria, di fronte all’accerchiamento del nemico, il cosmopolitismo cede rapidamente il posto alla criminalizzazione del nemico e alla celebrazione della nazione in armi. E infine, con l’esaurimento della rivoluzione e soprattutto con l’epopea napoleonica, cambia la rappresentazione della nazione: viene messa in sordina la condanna rivoluzionaria della ‘guerra di conquista’, avanza il mito della Francia come ‘Grande Nation’ e le aperture cosmopolitiche si convertono nell’attribuzione alla Francia di una missione ‘civilizzatrice’ affidata ai successi militari dell’esercito francese.

38In realtà, proprio l’espansionismo napoleonico e la sua ‘esportazione’ coattiva del messaggio rivoluzionario contribuiscono (soprattutto nei paesi di lingua tedesca) a provocare il rigetto del ‘modello francese’ e a favorire la messa a punto di quel paradigma ‘storicistico’ che avrebbe presieduto al nation-building in Germania e poi anche in Italia. Trionfa lo storicismo, mentre dovunque in Europa va incontro a una rapida eclisse il paradigma giusnaturalistico (con le sue implicazioni contrattualistiche). È però anche vero che in Francia la lunga onda della rivoluzione continuerà a lambire per molto tempo l’immagine della nazione. Nonostante i tanti e drammatici contraccolpi che agitano la vita politico-costituzionale francese nel corso dell’Ottocento, alcuni tratti della cultura rivoluzionaria sembrano continuare a godere di una significativa attualità. È con la rivoluzione di fine Settecento che si collegano idealmente tanto la Seconda quanto la Terza Repubblica, continuando ad attribuire alla nazione una ‘missione’ di carattere universalistico, in una sorta di ideale prosecuzione della Dichiarazione del 1789, che si indirizzava non soltanto ai francesi, ma a tutti gli esseri umani. Sembra dunque reggere nel tempo un’immagine della nazione ancora memore del ‘contrattualismo’ e del ‘volontarismo’ di Sieyès e lontana dalle coordinate ‘storicistiche’ dominanti in Germania (e anche in Italia).

39È su questa lunghezza d’onda che sembra sintonizzarsi il contributo forse più celebre che la cultura francese ottocentesca ha dato all’idea di ‘nazione’: la conferenza che Ernest Renan tiene alla Sorbona nel 1882. Alla domanda che essa pone programmaticamente (Qu’est-ce qu’une nation?), Renan offre la risposta a tutti nota: «L’existence d’une nation est […] un plébiscite de tous les jours, comme l’existence de l’individu est une affirmation perpétuelle de vie»22. Se ci fermassimo a questa icastica definizione, dovremmo concludere che per Renan l’esistenza della nazione dipende esclusivamente dalla volontà dei soggetti.

40Indubbiamente, Renan invita a diffidare di parametri brutalmente ‘materiali’: l’esistenza di una ‘nazione’ non dipende da un’ipotetica comunanza di ‘razza’ o di lingua e nemmeno dalla pressione degli interessi e dalla condivisione di un territorio, semplicemente perché la ‘nazione’ non è la risultante meccanica di processi ‘oggettivi’23, ma è «une âme, un principe spirituel». Questo principio ha però una duplice composizione: guarda al presente (e al futuro), ma anche si protende verso il passato. L’uomo – scrive Renan – «ne s’improvise pas». Dipendiamo dall’eredità ricevuta. Il culto degli antenati è quanto mai giustificato perché «les ancètres nous ont faits ce que nous sommes». La nazione è la casa che ci viene trasmessa e che noi consegniamo ai nostri successori. La nazione non è dunque solo un plebiscito: è «une grande solidarité», cementata dai sacrifici che sono stati fatti e che siamo disposti a rinnovare24.

41La nazione è volontà (il ‘plebiscito di tutti i giorni’), ma la volontà non galleggia sul vuoto, bensì è plasmata e indirizzata dal passato: siamo un anello di un’ininterrotta catena di generazioni che detta le coordinate del nostro essere e della nostra identità collettiva. Renan, nonostante la sua valorizzazione della ‘volontà’, è molto lontano da Sieyès e dal ‘contrattualismo’. La sua visione della nazione è in sostanziale sintonia con la concezione manciniana o mazziniana (e in generale con i discorsi che avevano permesso di legittimare e promuovere lo state-building italiano e tedesco): la volontà è una condizione necessaria, ma non sufficiente dell’identità nazionale, che presuppone il susseguirsi delle generazioni, lo svolgersi di una condivisa storia plurisecolare.

42Certo, se pure le pagine di Mancini e di Renan condividono un’ispirazione analoga, restano ferme le differenze che separano la Francia dall’Italia e dalla Germania: in Francia si era precocemente formata l’idea di una ‘nazione’ organizzata intorno a un centro sovrano, mentre in Italia e in Germania il ‘discorso della nazione’ era plasmato dall’urgenza di costruire un ordine politico interamente nuovo. Una volta costruito lo Stato unitario, però, la distanza fra i tre paesi, da questo punto di vista, si riduce, dal momento che in ciascuno di essi si viene affermando un paradigma ‘nazional-statuale’ che presenta caratteristiche affini. Certo, i saperi giuspubblicistici che nel secondo Ottocento si sviluppano nei tre paesi mantengono specificità e differenze significative (cui non posso accennare in questa sede), ma non sono trascurabili i punti di convergenza: da un lato, l’infrangibile nesso biunivoco fra la ‘nazione’ (o il ‘Volk’) e lo ‘Stato’25; dall’altro lato, e di conseguenza, il flusso di simboli, valori, aspettative che la retorica ‘nazionale’ riversa nell’involucro giuridico-statuale.

43È l’idea di una nazione plasmata dalla storia, dal susseguirsi delle generazioni, dai legami di sangue che induce a vedere nello Stato (nel ‘vecchio’ Stato, in Francia, come nei ‘nuovi’ Stati, in Germania e in Italia) l’espressione e il tramite dell’identità collettiva. Se ciò è vero, se la catena delle generazioni e i legami di sangue sono un elemento caratterizzante di questa identità, è comprensibile che la pubblicistica più recente abbia preso a interrogarsi sull’esistenza di un’impronta inconfondibilmente razziale nella costruzione retorica della ‘nazione’. È un problema complesso, che non posso affrontare nell’economia di un saggio che vuol delineare soltanto una ‘mappa tematica’. Mi limito a comunicare qualche impressione continuando a usare Renan come autore ‘esemplare’.

44A Renan sono stati imputati pericolosi scivolamenti verso un discorso ‘razziale’26. Il riferimento alle ‘razze’ è, in effetti, frequente in Renan, come lo è in tanta letteratura politica e storiografica coeva, dovunque in Europa. Certo, Renan porta avanti imponenti ricerche di filologia comparata che sottolineano la netta distinzione fra la ‘famiglia linguistica’ indo-europea e semitica27, ma prende le distanze dalla rigida ideologia razziale formulata da Joseph Arthur de Gobineau nei primi anni Cinquanta, sottolineando l’incidenza della storia e della civilizzazione nella determinazione delle caratteristiche di una ‘nazione’.

45In generale, né per Renan né per il nazionalismo storicista le razze sono entità ‘biologiche’ che determinano l’identità collettiva con l’inappellabile determinismo delle forze ‘naturali’. Occorre attendere l’antropologia darwiniana di fine secolo (e la Gobineau renaissance) perché la biologia soppianti la storia e le ‘razze’ vengano presentate come realtà oggettive, determinanti per il soma e per la psiche di ogni essere umano. L’elemento caratterizzante del ‘discorso della nazione’ ottocentesco è l’idea di un ‘popolo’ cui la storia, più che la biologia, conferisce un inconfondibile profilo.

46Il paradigma storicistico-nazionalistico è concettualmente distante dalle teorie razziali di fine Ottocento. Conviene però al contempo sottolineare le caratteristiche che quel paradigma imprime sulla visione dell’identità collettiva. In primo luogo, viene rafforzato il legame fra cittadinanza e nazionalità: la mia appartenenza alla comunità politica dipende non già da una ‘decisione’ contrattuale (il modello Sieyès, per intenderci), ma da un’identità storicamente data (non possiamo ‘decidere’ di essere italiani o francesi: possiamo soltanto essere ‘coscienti’ di esserlo). In secondo luogo, la ‘nazione’ è assunta come il portato di un processo storico che, teleologicamente orientato all’incremento della civiltà, trova il suo compimento in Occidente. Se dunque la storia è il passaggio dalla barbarie alla civiltà, se nazione, civiltà e Occidente si implicano a vicenda, la nazione (e lo Stato che ne è l’estrinsecazione istituzionale) non possono non esprimere un’incontenibile forza espansionistica. È questo l’orizzonte di senso nel quale è iscritto il gergo ‘razziale’ circolante nel discorso ‘nazionale’ ottocentesco (indipendentemente da una precisa ‘biologizzazione’ dell’identità collettiva): un orizzonte che coincide con la volontà di potenza della nazione-Stato e con l’affermazione della sua ‘eccezionalità’ nella storia universale28.

47Sono eloquenti alcune pagine del La Réforme intellectuelle et morale (pubblicata da Renan nel 1871 e segnata dalla ferita bruciante della sconfitta francese nella guerra franco-prussiana). Vi si parla di razze: razze inferiori e superiori; razze chiamate a dominare e razze tenute a servire; i cinesi, «une race d'ouvriers sans presque aucun sentiment d’honneur»; gli africani, «une race de travailleurs de la terre»; e infine «une race de maitres et de soldats»: «la race européenne». La terminologia ‘razziale’ abbonda, ma serve essenzialmente a sottolineare e ad amplificare il messaggio centrale del paradigma storicistico-nazionalistico: la celebrazione della volontà di potenza degli Stati-nazione europei, della loro intrinseca vocazione al dominio.

48L’espansione delle nazioni europee oltre i confini dell’Europa non è, per Renan, un accidens, il frutto di un’occasionale, contingente, rivedibile strategia politica, ma è una dimensione costitutiva della moderna (e necessariamente occidentale) identità nazionale. Non per caso infatti fa la sua comparsa, nel punto di innesto fra storia, nazione, Stato e Occidente, una parola-chiave: ‘colonizzazione’. «La colonisation en grand est une nécessite politique tout à fait de premier ordre». Se le guerre «entre races égales» (le guerre endo-europee) sono condannabili, «la régénération des races inferieures ou abâtardies par les races supérieures est dans l'ordre providentiel de l’humanité»29.

49Anche in Francia, come in Italia30 e nei paesi di lingua tedesca31, pensare la nazione-Stato significa presentare la dimensione guerriera dello Stato come un tratto essenziale dell’identità collettiva e il portato di una storia che trova in Occidente il suo culmine. E anche in Francia (come in Germania e in Italia, una volta avvenuta l’unificazione politica) la colonizzazione è una proiezione indispensabile dello Stato nazionale. Al contempo tuttavia il ‘discorso della nazione’, in Francia, presenta una peculiarità non rintracciabile, con le medesime caratteristiche, in Italia e in Germania; una peculiarità che coincide con un campo di tensione fra due estremi non facilmente conciliabili: da un lato, l’insistenza (caratteristica della Terza Repubblica, di cui Renan era un autorevole corifeo) sulla continuità ideale con i messaggi ‘universalistici’ del 1789 e, dall’altro lato, la celebrazione della vocazione guerriera e colonialistica della nazione-Stato.

50Come tenere insieme l’universalismo della rivoluzione e l’immagine espansionistica della nazione? Servono, a questo scopo, due distinte, ma convergenti strategie: da un lato, la messa a punto di una peculiare dottrina della colonizzazione; dall’altro lato, una graduale estensione e complicazione dell’area semantica del lemma ‘nazione-Stato’.

51All’elaborazione della prima strategia contribuisce l’idea della colonizzazione come ‘civilizzazione’. ‘Civilizzare’ i popoli barbari, per gli eredi della nazione rivoluzionaria, non può significare niente altro che conquistarli per donare loro la libertà, l’eguaglianza e i diritti. Espandendosi, il popolo francese porta avanti la sua missione universale rendendo simili a se stesso i popoli conquistati. È questo il nucleo di una dottrina coloniale che ha indotto a parlare di un vero e proprio ‘modello’ francese: la ‘colonizzazione’ come ‘assimilazione’ dei colonizzati; la colonizzazione come un processo che conduca (gradualmente, in un lungo arco di tempo) all’inclusione dei colonizzati nella comunità dei colonizzatori, trasformando i ‘barbari’ in cittadini francesi a tutti gli effetti32.

52In realtà, il concreto processo di colonizzazione si è svolto mantenendo ferma la radicale subalternità dei colonizzati e la loro netta distanza dai colonizzatori. L’ideologia dell’‘assimilazione’ deve essere messa in rapporto (e in contrasto) con la pratica dell’‘indigénat’, che implica appunto il mantenimento delle differenze fra le popolazioni native e i bianchi. Certo, nella Seconda Repubblica, al seguito dell’abolizione della schiavitù promossa da Schoelcher, non sono mancati provvedimenti che trasformavano gli schiavi affrancati nelle vecchie colonie caraibiche in cittadini francesi. Nemmeno la Seconda Repubblica tuttavia è giunta a mettere in questione, per l’Algeria conquistata nel 1830, il regime dell’indigenato33. Anche in Francia il governo delle colonie, lungi dal trasformare lo statuto sociale, politico e giuridico dei nativi in vista della loro ‘assimilazione’, lo presuppone e lo conferma: l’accesso alla cittadinanza resta selettivo e marginale (solo per fare un esempio, in Algeria fino al 1870 poco più di 200 domande di naturalizzazione da parte di nativi mussulmani sono state accolte) e l’ordine nelle colonie continua a essere assicurato dalle differenze di status fra colonizzatori e colonizzati.

53È dunque l’ideologia della colonizzazione come ‘assimilazione’ che ha permesso di legittimare il sistema di dominio coloniale senza costringere al ripudio degli ‘ideali dell’89’. Resta però da chiedersi se e in che modo la dimensione coloniale abbia condizionato la rappresentazione della nazione-Stato. Certo, Renan, nelle pagine del La Réforme intellectuelle et morale, già ricordate, ha sostenuto con forza il necessario legame fra nazione, vocazione guerriera, espansione, colonizzazione. Renan però non parla ‘en juriste’ e non analizza dall’interno il nesso fra ‘nazione’ e ‘Stato’, che invece per la giuspubblicistica, anche francese, è l’assioma decisivo, da cui dipende la possibilità di ‘pensare’ lo Stato.

54‘Pensare’ lo Stato, in Francia, significa metterne a fuoco la dimensione coloniale? A questa domanda Olivier Beaud, in un saggio acuto e brillante, dà una risposta negativa34: da Esmein (il fondatore della giuspubblicistica francese del secondo Ottocento) a Carré de Malberg, la migliore costituzionalistica, da un lato, costruisce le proprie categorie a partire dall’idea di Stato come personificazione giuridica della nazione e, dall’altro lato, non include, nella sua analisi della ‘forma Stato’, l’esperienza della colonizzazione35. Di una dimensione coloniale dello Stato la riflessione giuspubblicistica non sembra accorgersi.

55Questo singolare ‘silenzio’ può apparire sorprendente, ma ha una sua indubbia coerenza, alla luce del paradigma storicistico-nazionalistico che presiede alla rappresentazione (in Francia come in Italia e in Germania) della statualità. Il farsi Stato della nazione e, viceversa, lo Stato come personificazione giuridica della nazione, insomma, il rapporto biunivoco fra nazione e Stato, con tutti i simboli e le implicazioni etico-politiche che esso comporta, sono il portato di una storia che culmina nell’Occidente e si compie nei suoi confini. Ciò che esiste al di fuori di questi confini non può aver parte alcuna nel ‘farsi Stato’ della nazione: la costruzione dell’identità nazionale (nazional-statuale) in Europa, e in Francia, presuppone un principio di esclusione di ciò che si muove oltre i confini del paese ‘metropolitano’.

56Se la nazione-Stato è una realtà esclusivamente metropolitana, è coerente che i giuristi, che intorno alla nazione-Stato costruiscono il loro sistema, vedano nell’esperienza coloniale non un elemento ‘strutturale’ della statualità, ma soltanto uno dei tanti settori di estrinsecazione della sovranità (e infatti è ai cultori del diritto coloniale, non ai costituzionalisti, che occorre rivolgersi per trovare una precisa analisi delle strategie di dominio adottate dallo Stato-nazione nei territori sottomessi36). Né sfuggirà che l’idea di una nazione-Stato chiusa nel cerchio di un Occidente posto ai vertici della storia è in perfetta consonanza con il mantenimento delle differenze che separano la ‘metropoli’ dalle ‘colonie’ e trovano nel ‘regime dell’indigenato’, al di là della retorica legittimante della ‘assimilazione’, la loro più plastica manifestazione.

57È la nazione-Stato che, posta al culmine della storia ‘universale’, si conferma come la vincente espressione – come voleva Renan – di «une race de maitres et de soldats», come il centro propulsore di una strategia di dominio assunta, anche dai giuristi, come l’espressione naturale della sovranità. Ciò che avviene al di là dei confini dell’Europa non ha a che fare con l’essenza della nazione-Stato, ma ne è una semplice estrinsecazione37. Perché l’esperienza coloniale induca a ripensare i tratti caratterizzanti dello Stato occorre attendere la pubblicazione della seconda edizione, nel 1933, del Traité di Joseph Barthélémy38, giustamente valorizzato da Olivier Beaud39. È in quest’opera che il giurista francese coglie la proiezione ‘costituzionale’ dell’esperienza coloniale e individua una specifica, e inedita, categoria di Stato: l’État imperial. Per il giurista francese la Terza repubblica ha una dimensione squisitamente imperiale e lo Stato francese, esattamente come lo Stato inglese, deve essere caratterizzato facendo riferimento alla sua dimensione coloniale. La Francia è un État imperial: uno Stato dove quaranta milioni di cittadini sono governati secondo i principi dello Stato di diritto e sessanta milioni di sudditi sono sottomessi a regole speciali.

58Nell’augusto involucro della nazione-Stato Barthélémy coglie la costitutiva dimensione espansionistica e mette in luce, come un profilo essenziale di quella forma di Stato che egli chiama ‘imperiale’, il dualismo fra la metropoli e le periferie coloniali e il carattere asimmetrico del dominio. Emerge, nella testimonianza di un giurista che scrive in anni ormai prossimi alla conclusione della stagione coloniale, una connessione di grande rilevanza: la connessione fra la retorica ‘nazionale’ e la retorica ‘imperiale’.

59Questa connessione può sorprendere solo chi voglia far coincidere il ‘nazionalismo’ ottocentesco con la retorica coinvolta nello state-building italiano o tedesco. In realtà, lo spettro del nazionalismo è ampio. Le sue declinazioni variano a seconda dei contesti, ma certo una delle più significative e ricorrenti manifestazioni coincide con l’innesto della dimensione coloniale nella rigogliosa pianta della nazione-Stato. È a questo punto che la retorica ‘nazionale’ finisce per assumere una precisa inflessione ‘imperiale’. Come scrive efficacemente Robert Aldrich, «French nationalism was an imperial nationalism. The French state already existed, but as in the case of other great powers of Europe, empire-building formed part of the nineteenth-century nation-building project»40. Né la declinazione ‘imperiale’ dell’impianto ‘nazional-statuale’ vale soltanto per gli Stati di antica origine, come la Francia. Essa si presenta, con assonanze abbastanza simili, anche nei paesi dove l’unità politica è recente, come in Germania e in Italia, una volta consolidato il nuovo apparato statual-nazionale: «in both cases the emerging states immediately embraced imperial legacies and pursued imperial policy in order to consolidate the nation and join the club of European great powers»41.

4. Fra retorica ‘nazionale’ ed ‘ethnocratic imperialism’

60La Terza Repubblica come uno ‘Stato imperiale’: la definizione di Barthélémy, nella sua apparente paradossalità, esprime icasticamente tanto la rilevanza, in Francia, pur sotto l’egida degli ideali ‘repubblicani’, dell’esperienza coloniale, quanto, in generale, la dimensione intrinsecamente espansionistica del discorso nazional-statuale ottocentesco. La nazione, sostanza dello Stato, è una comunità plasmata dalla storia, cui la storia stessa impone un destino inseparabile dalla potenza, dalla guerra, dalla colonizzazione.

61Che la nazione-Stato abbia una dimensione ‘imperiale’ è però un’affermazione che fino a tempi relativamente recenti sarebbe apparsa incongrua alla storiografia prevalente. Per essa, la costruzione simbolica e retorica di un’identità collettiva ‘nazionale’ era un fenomeno difficilmente compatibile con una realtà ‘imperiale’. Nei confronti di un ‘impero’ il ‘discorso della nazione’ agiva semmai come una forza dissolvente, mettendone in questione la legittimità (come sembrava emblematicamente confermato dalle vicende dell’impero austro-ungarico).

62Possiamo ancora sostenere che la costruzione di un’identità nazional-statuale è per definizione incompatibile con la complessa e variegata organizzazione politica ‘imperiale’? In realtà, la tesi che sottolineava la distanza fra il discorso nazional-statuale e la dimensione ‘imperiale’ è apparsa, in anni recenti, meno persuasiva e si è fatta strada «another way of telling the story. In this account, empire and nation are not set against each other but appear as twin expressions of the same phenomenon of power»42.

63Certo, in prima approssimazione, gli imperi43 sembrano confermare la ‘classica’ tesi di Gellner, mostrandosi inaccessibili alla retorica nazionalistica: la popolazione da essi governata presenta un’eterogeneità etnica, culturale, linguistica più o meno accentuata, ma comunque non riconducibile a una fisionomia unitaria. La mutua implicazione, caratteristica degli Stati-nazione, fra identità collettiva e istituzioni di governo sembra improponibile per un impero. Conviene però tener presenti due elementi. In primo luogo, occorre prendere atto della varietà dei discorsi nazional-statuali e della flessibilità del loro impiego nei diversi contesti. Pål Kolstø parla di diverse tipologie di ‘nazionalismo’: può avvenire ad esempio che un governo centrale impieghi il simbolo dell’identità nazionale per dare unità a una popolazione culturalmente eterogenea (Kolstø parla in questo caso di ‘state-building nationalism’) oppure che entità politiche minori esaltino il medesimo simbolo identitario per promuovere la creazione di un nuovo Stato unitario (‘unification nationalism’) oppure ancora che un territorio culturalmente omogeneo voglia autonomizzarsi politicamente ( ‘secessionist nationalism’)44. Se dunque i ‘nazionalismi’ sono molteplici, è possibile ipotizzare che una peculiare inflessione del discorso ‘nazionalistico’ possa coesistere con il ‘pluralismo’ degli imperi.

64In secondo luogo, vale anche per un ‘impero’, quali che siano la molteplicità e la varietà delle sue parti componenti, l’esigenza di disporre di un elemento idealmente coesivo, di simboli, miti, valori che rendano ‘pensabile’ e plausibile l’unità dell’insieme. Questa esigenza è ineludibile perché qualsiasi apparato di governo non riposa soltanto sull’esercizio della forza coattiva, ma esige che i soggetti condividano convinzioni che rendano il potere legittimo (come abbiamo ormai appreso, una volta per tutte, prima da Weber e poi da Bourdieu). Ed è possibile ipotizzare che sia proprio l’idea di una qualche identità ‘nazionale’ a fornire anche a un’organizzazione politica ‘imperiale’ un collante simbolico necessario al suo funzionamento.

65Può essere interessante assumere come case study, da questo punto di vista, l’impero britannico (anche se, di nuovo, dovrò limitarmi a pochi rilievi di carattere orientativo)45.

66Fra il 1870 e il 1890 l’impero britannico era quadruplicato fino a raggiungere, agli inizi del Novecento, dimensioni, per così dire, mostruose: il rapporto fra il territorio delle isole britanniche e i territori controllati dalla Gran Bretagna era di 1 a 125, mentre i possedimenti francesi erano solo diciotto volte la grandezza del territorio metropolitano. In uno scenario di tale complessità appare problematico l’impiego del concetto di nazione come forza coesiva e fondamento di legittimità. Certo, la difficoltà di far coesistere identità diverse con un unitario apparato di potere era già emersa in passato: quando, nel 1707, era stata realizzata l’unione fra l’Inghilterra, il Galles e la Scozia ed era comparsa l’esigenza di sviluppare il senso di una nuova identità collettiva. Le guerre di fine Settecento con la Francia avevano portato acqua a questo mulino e avevano contribuito alla formazione di una nuova identità ‘nazionale’: un’identità ‘British’, che, secondo Linda Colley, pur senza cancellare le identità precedenti, prende a godere di un autonomo rilievo46. Una pluralità di preesistenti identità aveva dato luogo alla formazione di un nuovo senso di appartenenza nazionale.

67Certo, il nation-building, e il rapporto fra la nazione e il complesso delle istituzioni politiche, hanno in Gran Bretagna caratteristiche peculiari, che non possono essere meccanicamente assimilate al discorso nazional-statuale elaborato dalla giuspubblicistica continentale (prima tedesca e poi italiana e francese). La stessa ‘dottrina dello Stato’, nella cultura giuridica inglese, non riceve l’attenzione a essa tributata nell’Europa continentale (anche se non dobbiamo sottovalutare l’influenza di John Austin e della sua scuola, per non parlare del successo dell’approccio ‘anti-individualistico’ di Bradley, di Green e dei suoi allievi, da Ritchie a Bosanquet47). Ciò che importa sottolineare è comunque che anche di là dalla Manica il discorso ‘nazionale’, nel momento in cui plasma l’identità collettiva, incide a fondo sulla legittimazione delle istituzioni di governo.

68Quando, fra Sette e Ottocento, si viene sviluppando l’idea di una ‘Britishness’ (che ingloba, dilata e sviluppa una precedente ‘Englishness’), questa nuova identità collettiva trova una sua naturale destinazione nel valorizzare le istituzioni politiche assumendole come un proprio inequivocabile segno distintivo. La nazione «epitomizes the fictive community in which we are all citizen» e trova nello Stato la sua espressione, tanto che lo Stato è «the nation made manifest»48. «It was British institutions, particularly those of governance embodied in the Anglo-British Westminster system of constitutional monarchy, which truly defined what it meant to be British and English. But this system of governance could not operate without the idea of the British nation as a unified people, a people unified across time by the perceived continuity of those institutions of governance and across space by notions of state-wide `national' and racial kindred»49.

69Anche in Gran Bretagna «the dominant discourse in radical English nationalism – liberties guarded by the state – meant that the concept of nation in English national discourse was not far removed from the concept of the state»50. Si ripropone dunque, sul terreno della storia inglese, quel circolo virtuoso fra apparati di governo e nazione che, con diverse modalità, anche nell’Europa continentale aveva fatto sì che lo Stato trovasse nella nazione la propria sorgente di legittimazione e il proprio contenuto valoriale e la nazione assumesse lo Stato come l’espressione e il tramite della sua esistenza storica.

70Se dunque prendiamo per buona la tesi di una formazione di un’identità collettiva ‘British’ in qualche misura analoga ai processi di nation-building sviluppatisi altrove in Europa, resta il problema del rapporto intercorso fra una retorica ‘nazionale’ e una cultura (e una prassi di governo) di respiro ‘imperiale’.

71Che una cultura ‘imperiale’ si sviluppi in Gran Bretagna con impeto crescente nel corso dell’Ottocento è un dato di fatto. Resta semmai aperto il problema della sua effettiva incidenza sul discorso pubblico dell’epoca. Secondo un’opinione che direi prevalente, la mentalità ‘imperiale’ è un tratto essenziale della cultura vittoriana51, ma non sono mancati dubbi non tanto sull’esistenza di inequivocabili prese di posizione ‘imperiali’, quanto sulla loro diffusione e incisività52. Resta in ogni caso da capire se e in che modo la costruzione di un’identità nazionale entri in rapporto con la retorica dell’impero.

72Credo che una promettente prospettiva di analisi sia offerta dalla definizione di impero proposta da John Breuilly: «By empire – scrive Breuilly – I mean a state consisting of a core and one or more peripheries […]. The core is governed by one modality of power and the peripheries by different ones ultimately located in that core. Associated with the coercive institutions of empire is usually a related system of economic exploitation and ideological power which legitimizes imperial hierarchy and subordination»53.

73L’impero non è solo un’intricatissima rete composta di fili variopinti: l’immagine della pluralità (dei popoli, delle storie, delle lingue, delle culture) deve essere messa in rapporto con una soggiacente struttura, che si propone come supremo punto di riferimento e principio di ordinamento di quella pluralità. La definizione di Breuilly suggerisce in sostanza di ricorrere a una metafora spaziale: la pluralità ‘imperiale’ è una galassia ordinata intorno al rapporto fra ‘centro’ e ‘periferia’. Ciò implica due conseguenze: in primo luogo, occorre attribuire al centro una capacità di attrazione e un potere di iniziativa e di comando nei confronti della periferia, che è tale in quanto dipendente e governata; e, in secondo luogo, occorre sottolineare una differenza strutturale fra il centro e la periferia: il centro ha assetti giuridici e politici, regole e valori diversi da quelli che caratterizzano le periferie. Il rapporto fra centro e periferia è quindi caratterizzato da insormontabili asimmetrie: è un rapporto di potere nel senso più genuinamente weberiano. Proprio per questo l’impero ha bisogno di una cultura che lo sostenga, di una retorica che ne fondi la legittimità.

74È allora ragionevole attendersi che il punto di contatto fra il discorso della nazione e la retorica dell’impero sia un’idea che nel suo nucleo essenziale si manifestava, sia pur con diverse inflessioni, nel discorso pubblico dell’Europa continentale: l’idea di una missione storicamente provvidenziale, che non potrebbe essere svolta se la nazione non prendesse sul serio la sua costitutiva vocazione all’affermazione di sé e all’espansione. Guardando proprio alla Gran Bretana, Kumar ha parlato di un «missionary nationalism»: appartiene al discorso della ‘nazione’ la convinzione che la nazione ‘British’ è investita di «a special destiny or mission in the world». «Like nationalists in relation to their nation – scrive Kumar – imperialists feel that there is something special or unique about their empire. It has a mission or purpose in the world. This may, again as with nationalists, endow imperial peoples with a sense of their own superiority, a feeling of inherent goodness as of a people specially chosen to carry out a task»54.

75Il «missionary nationalism» che Krishan Kumar attribuisce alla Gran Bretagna potrebbe tranquillamente essere riferito alla Francia: allo ‘Stato imperiale’ di cui parla Berthélémy, a uno Stato che trova il suo fondamento di legittimità in una nazione chiamata all’espansione e alla potenza. La componente imperiale era parte integrante dell’identità nazionale in Francia come in Gran Bretagna. Certo, i contenuti della ‘missione’ erano, almeno in parte, diversi nei due paesi perché erano diversi i ‘modelli’ di riferimento: in Francia, la ‘grande révolution’ e il suo afflato universalistico ed egualitario; in Gran Bretagna, la ‘happy constitution’, la celebrazione del libero commercio, il rule of law.

76Le tracce dei due diversi modelli sono percepibili nella distinzione che la giuscolonialistica ottocentesca ha delineato, attribuendo alla Francia l’ideologia della colonizzazione come ‘assimilazione’ e all’impero inglese la formula dell’‘indirect rule’. In realtà, le differenze fra le due esperienze ‘imperiali’ si riducono notevolmente non soltanto quando si guardi alle pratiche di governo dei popoli colonizzati, ma anche quando si prenda in considerazione, al di sotto delle differenze ‘dottrinarie’, il presupposto sul quale la colonizzazione (idealmente e praticamente) si reggeva: la convinzione dell’esistenza di una frattura (storicamente o addirittura ‘biologicamente’ abissale) fra i popoli chiamati al dominio e i popoli tenuti alla soggezione55

77Assunto come volano dell’espansione coloniale, il simbolo della nazione svolge la sua funzione in quanto l’impero (sia esso la ‘repubblica imperiale’ francese o la «greater Britain», come la chiamava Charles Dilke) si struttura in una forma rigorosamente binaria: da un lato, il centro, il cuore, dello Stato imperiale e, dall’altro lato, le periferie. La costruzione dell’identità collettiva riguarda il nucleo centrale del regime: è a quel livello che la nazione si trasfonde nello Stato (come si ripete instancabilmente nell’Europa continentale) e la Britishness si rispecchia nel «Parliamentary government, the rule of law, the glories of the English language and English literature» e in tutti gli «‘Anglo-Saxon’ achievements»56. Il centro è tale grazie al suo rapporto, al contempo, di connessione con le periferie e di differenziazione da esse. Il senso di appartenenza alla comunità nazionale, se al ‘centro’ agisce come un elemento di coesione identitaria, produce, come proprio obbligato ‘rovescio’, la rappresentazione dell’incolmabile estraneità delle periferie. È il senso storico-etnico-culturale dell’identità nazionale che rende possibile la drammatizzazione del fossato che divide ‘noi’ da ‘loro’; ed è il rapporto asimmetrico fra la nazione e la sua ‘otherness’ a rendere possibile, da un lato, l’esplicazione della potenza espansionistica della nazione stessa, e, dall’altro lato, la formazione del topos della ‘civilizing mission’.

78Lungi dall’essere incompatibile con la dimensione imperiale, il nazionalismo può assumere anche la forma di un ‘ethnocratic imperialism’ e divenire «exclusionist rather than inclusionist»57, dal momento che il simbolo o il mito dell’identità ‘nazionale’ viene usato non tanto per allargare i confini della comunità ‘originaria’, quanto per assicurare a essa l’esercizio di un’incontestabile strategia di dominio-

5. Il discorso della nazione e l’ideologia ‘differenzialista’

79In molteplici, e differenti, contesti europei la costruzione dell’identità collettiva, nel ‘lungo’ Ottocento, passa attraverso il simbolo della ‘nazione’, che si conferma come il principale dispositivo di legittimazione dell’ordine politico.

80Nonostante le peculiarità delle varie storie ‘regionali’, si manifesta dovunque l’esigenza di instaurare un legame biunivoco fra l’identità collettiva e le istituzioni politiche, assunte come la manifestazione e il rafforzamento del mitologema ‘nazione’. Certo, la connessione fra la ‘nazione’ e il sistema politico assume in Germania, dove il principale punto di riferimento della cultura politico-giuridica è lo Stato, inflessioni diverse dalla Gran Bretagna, dove la riflessione sulle istituzioni di governo non trova nel concetto di ‘Stato’ un tramite altrettanto obbligato. E, ancora, il nesso fra la nazione e lo Stato assume valenze in parte diverse quando presiede alla costruzione di un assetto politico interamente nuovo (come in Germania e in Italia) oppure si svolge nella cornice di un già consolidato ordinamento (come in Francia e in Gran Bretagna). Le diversità sono rilevanti, ma non impediscono che venga sempre di nuovo confermato l’assunto di fondo, secondo il quale lo Stato è l’espressione obbligata della nazione e quest’ultima è la sostanza vitale e la condizione di legittimità dello Stato.

81Non è peraltro soltanto il nesso fra ‘nazione’ e ‘Stato’ il profilo che torna a presentarsi nei contesti in cui viene a svilupparsi una retorica ‘nazionale’. Nei molteplici e pur differenti ‘discorsi della nazione’ non mancano ampie aree di sovrapposizione e precise convergenze: domina ovunque l’idea di un’identità collettiva cementata dalla tradizione e dal susseguirsi delle generazioni, l’immagine di una ‘nazione’ che reclama la devozione sacrificale dei suoi membri e persegue quello scopo di affermazione ed espansione che la storia stessa ha attribuito ad essa come il suo ‘destino’.

82 Proprio perché la nazione-Stato è il culmine di una storia universale che trova il suo compimento in Occidente, la volontà di potenza della nazione si esprime elettivamente nell’espansione coloniale, che del primato dell’Occidente è l’espressione storicamente necessaria ed eticamente obbligata (il ‘fardello dell’uomo bianco’). La dimensione coloniale emerge come la cifra stessa della nazione-Stato posta al centro del discorso pubblico nel corso del ‘lungo’ Ottocento. La colonizzazione non è un fenomeno contingente, un episodio fra i tanti della storia politica e socioeconomica occidentale. La dimensione coloniale è consustanziale al modo di ‘pensare’ lo Stato in Occidente: riguarda non soltanto ciò che la nazione-Stato fa, ma, prima ancora, ciò che la nazione-Stato è. Ed è proprio la costitutiva presenza della dimensione coloniale nel discorso della nazione il principale punto di contatto fra la retorica ‘nazionale’ e la retorica ‘imperiale’, l’elemento che rende possibile la loro sinergia.

83Pur nelle differenze che distinguono i molteplici ‘colonialismi’, il più significativo momento di sovrapposizione è offerto da ciò che potremmo chiamare il pre-giudizio ‘differenzialista’: l’immagine di un Occidente che la storia ha reso diverso dal resto del mondo, sancendo la sua eccellenza etico-politica di contro all’inferiorità di tutto ciò che si muove oltre i suoi confini. Certo, un siffatto pre-giudizio dà luogo a differenti dottrine della colonizzazione (valga il riferimento alla ‘classica’ contrapposizione fra ‘assimilazionismo’ e ‘indirect rule’) e si traduce in rappresentazioni diverse dell’inferiorità dei popoli extraeuropei: un’inferiorità di carattere ‘storico’ (e quindi in qualche misura contingente e passibile di cambiamento) oppure (come sarà affermato con crescente successo fra Otto e Novecento) un’inferiorità imposta dalla ‘natura’, inscritta nel soma e nel sangue e quindi definitiva e insuperabile. Certo è però che in ogni caso queste due pur diverse strategie argomentative giungono a risultati fortemente simili: in primo luogo, alla ‘inferiorizzazione’ dei popoli extra-europei (che si spinge a una loro aperta ‘dis-umanizzazione’ nel caso delle dottrine razziali) e, in secondo luogo e di conseguenza, alla legittimazione del loro assoggettamento58.

84È da questa fitta rete di immagini, simboli, narrazioni, stereotipi che si nutre la dottrina dello Stato che celebra i suoi trionfi nell’Europa del secondo Ottocento: il nesso fra il popolo e lo Stato (e l’immagine della sovranità come di un potere assoluto e irresistibile) non sono pensabili senza gli apporti della mitopoiesi nazionalistica, così come l’idea della comunità internazionale come il club esclusivo dei competitivi Stati dell’Occidente presuppone la declinazione espansionistica e imperiale della nazione stessa.

85Occorre però tenersi alla larga da una visione essenzialistica e reificata dei concetti giuridici, che li assuma come una sorta di specchio fedele del processo storico-sociale di cui fanno parte, e ricordarsi che i concetti giuridici sono schemi ordinanti, sono (potremmo dire, usando la formula neokantiana di Cassirer) forme simboliche59, che offrono della realtà (del magma enormemente complesso delle interazioni, dei discorsi, della comunicazione sociali) non una fotografia fedele, ma una semplificazione inevitabilmente selettiva.

86Se ciò è vero, la sovranità dei giuristi non è la meccanica riproduzione della retorica nazional-imperiale né è un concetto puro e autosufficiente: è piuttosto il risultato del trapianto delle immagini e degli stereotipi circolanti nel discorso pubblico in una peculiare tradizione disciplinare (la ‘giuspubblicistica’); un trapianto che, per un verso, lascia cadere gli aspetti più epidermici della mitopoiesi nazional-imperiale, ma, per un altro verso, ne raccoglie gli elementi portanti.

87Allo stesso modo, la sovranità dei giuristi non può essere assunta come una sorta di sintesi concettuali delle pratiche di governo ‘imperiali’. La sovranità come potere ‘assoluto’, capace di ricondurre a se stesso un unitario, liscio e uniforme, ‘spazio sociale’, era, da un lato, un modello teorico che permetteva ai giuristi otto-novecenteschi di ‘pensare’ unitariamente l’ordinamento giuridico e, dall’altro lato, era un dispositivo retorico che permetteva di legittimare ed esaltare il primato del centro e la subalternità delle periferie.

88La teoria della sovranità rendeva possibile il governo delle periferie, ma non predeterminava univocamente le pratiche di dominio concretamente adottate nei più diversi contesti: che infatti, come la recente storiografia sta mostrando, assumevano forme molto diverse, legate ai rapporti di forza localmente vigenti, e dovevano fare i conti con spazi sociali non già lisci e uniformi, ma variegati, corrugati, accidentati60.

89Trascurare la natura, per un verso, teorica e modellistica, e, per un altro verso, retorica e legittimante, del discorso della sovranità può dar luogo a due equivoci: può indurre a pensare che la descrizione dell’effettivo governo dei soggetti possa essere semplicemente ‘dedotta’ dal concetto della sovranità, senza tener conto della distanza fra le ‘pratiche’ e le ‘teorie’; oppure, al contrario, può autorizzare a vedere nell’immagine della sovranità ‘onnipotente’ uno strano errore o un inspiegabile delirio, data la varietà delle effettive strategie di dominio. In realtà, la sovranità, per un verso, si proponeva come istanza (giuridicamente ‘pura’) di unità dell’ordinamento, e, per un altro verso, immergeva le radici in una drammatica e trascinante mitopoiesi che, in tutto l’arco del ‘secolo lungo’, era stato il suo vitale e ‘impuro’ terreno di coltura.

Date added Oct. 14, 2022
© 2022 fhi
ISSN: 1860-5605
First publication
Oct. 14, 2022

DOI: https://doi.org/10.26032/fhi-2022-011

  • citation suggestion Pietro Costa, Nation-building e State-building nel ‘lungo’ Ottocento: miti identitari e strategie di dominio (Oct. 14, 2022), in forum historiae iuris, https://forhistiur.net2022-10-costa