1. Una questione di prospettiva
1Tra la fine dell’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento, fare Storia del diritto italiano significava cimentarsi col Medioevo. Generazioni di studiosi hanno indagato gli aspetti più minuti, senza trascurare il Mezzogiorno longobardo e bizantino. Non di rado, la raffinata preparazione specialistica si è saputa accompagnare a un’encomiabile apertura interdisciplinare. Eppure – ieri come oggi – questo campo della ricerca si rivela impermeabile a quel concetto di Beneventan Zone che, nel frattempo, ha trovato riscontro in altri settori1. Per quale motivo?
2Probabilmente, il giurista è diffidente verso una categoria sorta in ambito paleografico perché più incline a configurare lo spazio in chiave politica. In tal modo, il ‘diritto beneventano’ finirebbe per coincidere col diritto del Principato di Benevento e, in particolare, con la legislazione vigente entro quei confini e in quella cronologia interessati dalla dominazione longobarda. In definitiva, si limiterebbe a costituire un’appendice dell’Editto, peraltro di scarso peso. In questi termini, la formula ‘diritto beneventano’ risulterebbe inutile così come il riferimento ad una Beneventan Zone sarebbe pleonastico rispetto al più nitido Principatus.
3Non è mia intenzione sminuire il ruolo dell’elemento politico e della storia evemenenziale, né in assoluto né in relazione alla dimensione giuridica2. Tuttavia, la sovrapposizione tra Stato, territorio ed ordinamento – apparentemente logica – non appartiene al Medioevo: essa è il portato di un secolare processo di emancipazione dai poteri universali e di assoggettamento delle istanze provenienti dal basso, che tramite il principio di sovranità ha condotto fino al monismo giuridico. Tanto la documentazione ufficiale quanto gli insediamenti militari testimoniano l’esistenza di frontiere, ma essi sono mutevoli e comunque porosi. D’altra parte, il carattere ‘beneventano’ attribuito alla scrittura minuscola o al canto piano è consapevolmente slegato dal riferimento a una circoscrizione politica e intende, piuttosto, descrivere un contesto culturale. Se è vero che l’essenza del diritto non si riduce all’imposizione autoritativa, perché il fenomeno giuridico è un’espressione di civiltà che riflette i costumi e le aspettative di una determinata epoca, allora Beneventan Law può rivelarsi una chiave ermeneutica utile per superare le distorsioni retrospettive e per dialogare in modo più fecondo con altre discipline. Ciò non esclude che, in questo spazio variegato e in questi tempi dilatati, la legislazione emanata nella Benevento longobarda possa ricoprire un ruolo significativo; ma vuol dire estendere la visuale verso un orizzonte più vasto, che contempli la prassi, le ibridazioni, le persistenze. È una pista intrigante, che vale la pena di percorrere.
2. Le fonti di cognizione
4Anzitutto, occorre valutare un dato fondamentale: nell’Alto Medioevo la divaricazione tra fonti di cognizione e fonti di produzione è massima. Chi intendesse ricostruire le dinamiche giuridiche limitandosi alle raccolte legislative ne ricaverebbe un quadro incompleto, oltre ad incappare in un errore metodologico. In questa epoca la norma scaturisce più dall’effettività del fatto che dalla validità della sanzione; tuttavia, non è possibile attingere direttamente da quel patrimonio composto di memoria, oralità, convenzioni tacite e convinzioni profonde. Da ciò la necessità di superare una visione formalista e di investigare le testimonianze più eterogenee, consapevoli che usi e mentalità non si lasciano ingabbiare in un testo ufficiale. Ciò non significa negare il ruolo del potere politico né svalutare l’apporto euristico dei manoscritti giuridici, che restano la prima fonte da compulsare. Va ricordato, però, come nessuno dei codici beneventani che tramandano la legislazione longobarda abbia rivestito la funzione di esemplare autentico; sono prodotti tardi e, talora, contengono normative politicamente eterogenee e finanche materiale letterario3.
5Così, ad esempio, il cod. 175 di Montecassino (olim 353): da un punto di vista formale, gli unici testi di valore giuridico che vi sono confluiti si riducono alla Divisio Ducatus e al Capitulare de expeditione contra Sarracenos facienda di Lotario I. In una silloge non pensata per sbrigare problemi legali, la loro presenza si spiega perché capaci di fondare la condizione privilegiata del Monastero. Redatta in minuscola beneventana nello scriptorium capuano sotto l’abate Giovanni I tra il 914 ed il 934, la raccolta mira a preservare l’identità del cenobio nel contesto di un’ampia rielaborazione della memoria longobarda. Tra le altre cose, esso contiene: una Regula illustrata e la sua più antica Expositio, che una postilla attribuisce a Paolo Diacono4; i Capitula Aquisgranensia d’ispirazione anianense; le lettere di Teodemaro a Carlo Magno e di papa Gregorio a Castorio; le consuetudines benedictinæ Ordo qualiter agendum sit monachis, Quomodo per annum ieiunandum sit et devote ab omnibus celebrandum, Item de reliquis ieiuniis, Item de reliquis festivitatibus, De tempore ieiunii); la Chronica Sancti Benedicti Casinensis; il Calculus Principum Beneventanorum; il Catalogus Comitum Capuæ5. Tra la distruzione dell’883 ed il rientro del 949, i monaci ripagano la protezione capuana ma avvertono il rischio di smarrire le proprie specificità giuridiche: autonomia verso l’esterno, regole interne e diritti su cose e persone. Nello stesso frangente, quasi per paradosso, recepiscono con ritardo lo spirito riformatore del monachesimo carolingio.
6Anch’esso scritto in beneventana, il ms. 413 della Biblioteca Nacional di Madrid (olim D. 117) ha suscitato particolare interesse per il suo apparato iconografico, capace di condensare nelle figure di Rotari, Ratchis, Astolfo ed Arechi una concezione delle regalità intesa come maestà ma anche come giustizia, gerarchia e compartecipazione al potere. Sulla sua origine si discute: mentre Bluhme propendeva per uno scriptorium beneventano o salernitano del sec. X, studi più recenti ne individuano l’origine nella Bari del secolo successivo6. Il codice si apre con l’Origo gentis Langobardorum, che ripercorre la storia della stirpe dalle origini mitiche fino a Pertarito. Ciononostante, si può intravedere in esso un manoscritto propriamente giuridico: alle leggi di Rotari, Grimoaldo, Liutprando, Ratchis, Astolfo e Adelchi segue un piccolo glossario. Non risulta fuori luogo l’inserzione, tra il prologo di Rotari e le relative leggi, del breve scritto Omnis qui recte iudicat, statera in manu gestat7.
7Il Vaticano Latino 1468, scritto a Benevento tra fine sec. X ed inizio XI secolo, consiste in un glossario contenente tra l’altro alcune glosse alle leges Langobardorum; è vergato in minuscola beneventana8.
8Il cod. 4 della Badia di Cava – redatto in beneventana nel 1005, forse nella stessa Benevento – si caratterizza per un taglio prevalentemente giuridico: vi confluisce la legislazione longobarda da Rotari ad Astolfo ma anche le aggiunte dei principi Arechi ed Adelchi, i pacta de Leburia, un altro glossario, tre memoratoria di carattere esplicativo, una costituzione apocrifa di Teodosio II e Valentiniano III, capitolari italici da Carlo a Lotario. Il Codex Cavense ci restituisce la raffigurazione più dettagliata dell’ordinamento longobardo, nel suo secolare svolgimento; ma anche qui non mancano inserti di vario genere, come la corrispondenza spuria tra l’imperatore bizantino e Carlo e la Brevis chronica regum Langobardorum, ducum et principum Beneventi et Capuæ. Il manoscritto si apre con la Genealogia populorum Germaniæ e l’Origo gentis Langobardorum: proprio per questo si sospetta che non sia stato confezionato per uso forense «ma come lussuoso testimone della gloria nazionale (…) Un codice progettato da intellettuali longobardi per esprimere con parole e immagini la propria tradizione culturale, della quale fa parte integrante anche una fase precristiana in cui i protagonisti principali appaiono gli dei germanici»9. Invero, più che smentire la funzione giuridica del codice, queste osservazioni mettono in luce il nesso tra diritto e cultura nel segno di una memoria condivisa.
9Nel secondo quarto del sec. XII va collocato il ms. Brancacciano I.B.12 (olim II.B.28) della Biblioteca Nazionale di Napoli, che riporta l’Expositio ad Librum Papiensem, opera didattica elaborata verso la fine del secolo precedente. Lo scritto commenta le leggi del Regnum Italiæ da Rotari ad Enrico il Santo, raccolte cronologicamente nel Liber Papiensi10. Quasi per paradosso, il capolavoro della giurisprudenza pavese è sopravvissuto grazie ad un codex unicus in beneventana: testimonianza inequivocabile dei contatti col Settentrione. Nello stesso manoscritto è presente la Lombarda, che dispone in forma sistematica per libri e titoli il materiale legislativo del Liber. Essa, peraltro, è ben nota in ambito beneventano. Agli inizi del secolo se ne era realizzata una copia, la più antica a noi giunta, con varianti significative rispetto alla versione vulgata: è l’odierno Casinensis 328 dove non mancano elementi grafici beneventani11. Al sec. XII appartengono anche il Vaticanus latinus 3845, dove la Vulgata si accompagna alle glosse e al commentario di Ariprando12, ed il Rehdigerianus 293 della Biblioteka Uniwersytecka di Breslavia. Tra la fine di questo secolo e l’inizio del successivo, presso Bari, il medesimo materiale viene riportato in beneventana anche nel cod. 394 della Österreichischen Nationalbibliothek di Vienna13. Sempre al Duecento risalgono altre due copie della Lombarda: quella del ms. C O 210 della Státní vedecká knihovna di Olomouc e quella del Vaticano borghesiano 249. Tuttavia, i due membranacei non sono in beneventana e la loro provenienza non è sicura14.
10L’ultimo manoscritto da considerare, in ordine cronologico, è il Vaticanus latinus 5001. Redatto a Salerno agli inizi del Trecento in littera textualis – ma dichiaratamente copiato da un più antico libro scritto in littera longobarda – riporta testi cronachistici come quelli di Erchemperto e dell’Anonimo Salernitano, cataloghi di pontefici e monarchi, componimenti poetici. Il materiale normativo si riduce al Pactum Sichardi, alla Divisio Ducatus e, stranamente, alla Lex Ribuaria; sono inoltre presenti un glossario e la Recordatio Potonis15.
11Ma sarebbe ingenuo restringere la cultura giuridica della nostra zona all’eredità longobarda. La ricognizione dei manoscritti compiuta da Lowe e Brown apre uno squarcio ben più ampio sulla realtà dei secc. X-XII, relativamente ai quali è provata una certa permanenza del diritto giustinianeo insieme alla misteriosa importazione di norme visigote. «Tra i maggiori pasticci della letteratura giuridica altomedievale», queste collezioni non mostrano solo una spregiudicata manipolazione delle fonti ma provano che il nome di Giustiniano esercita, su anonimi compilatori di estrazione ecclesiastica, un fascino sorprendente. L’Additional 47676 della British Library, proveniente da Ravello e databile tra la fine del X e l’inizio del XI secolo, attribuisce all’Imperatore una silloge denominata Ordo mellifluus in expositione legum Romanarum. Sebbene l’origine della raccolta sia controversa, non pochi la ritengono autoctona e finanche coeva al manoscritto. La prima parte contiene effettivamente materiale giustinianeo (Epitome Iuliani, Institutiones, Codex) mentre la seconda si sostanzia di excerpta del Liber Iudiciorum. Nel mezzo i cosiddetti Fragmenta Gaudenziana, quattordici capitoli di origine oscura. Nel sec. XVI questo codice appartenne a Marino Freccia, come anche il ms. 413 di Madrid ed il Vat. Lat. 5001. A Roma, il ms. Vallicelliano B 32 – proveniente da Veroli e composto tra il 1059 ed il 1070 – mette insieme una collectio canonum, derivata dalla Collectio in V libris, e la Lectio legum, «una stravagante accozzaglia» che si dichiara tratta da presunte ‘istituzioni dalle novelle’ di Giustiniano ma che in realtà è un mosaico di pezzi desunti dall’Edictum Theoderici, dalla Summa Perusina, dalla Lex Visigothorum e da due capitoli finali di possibile origine beneventana16.
12Il fatto stesso che tali manoscritti siano redatti in beneventana fa capire che, qualunque sia la provenienza dell’originale, la normativa riportata è ritenuta interessante se non utile dalle nostre parti. Ammantata di romanità, essa rivendica il crisma di una validità fasulla ma evidentemente magnetica. Si potrebbe obiettare che i suddetti manoscritti provengono da zone liminali e che, pertanto, siano poco rappresentativi di ciò che accade nel cuore della Langobardia Minor; eppure, anche a Benevento una qualche conoscenza dell’opera giustinianea non doveva mancare. Proprio qui, nell’XI secolo, viene confezionato il cod. Haen. 6 dell’Universitätsbibliothek di Lipsia. È interessante come il volume si apra con uno stralcio del libro V de legibus delle Etymologiæ di Isidoro. Non è la prima né l’ultima volta che il pensiero del Vescovo di Siviglia viene messo nero su bianco in beneventana17; ma in questo caso l’ignoto compilatore utilizza l’enciclopedia per fornire alla materia giuridica un’introduzione dotta e solidi principi. Il manoscritto prosegue con le novelle giustinianee e, in particolare, con l’Epitome Iuliani e relativi paratitla; con il Dictatum de consiliariis e con l’Edictum de peierantibus di Corrado il Salico (particolare che lascia intuire come, in questo periodo, venga accettata l’ideale continuità tra gli imperatori antichi e quelli medievali)18.
13Un bifolium custodito a Roma (Carte vallicelliane XII 3), di probabile origine cassinese e datato alla seconda metà dell’XI secolo, riporta leggi non epitomate dal libro VII del Codex Iustiniani19. Pezzi delle Institutiones in scrittura beneventana si ritrovano a Veroli (sec. XI) e nelle biblioteche di Vienna ed Olomouc (sec. XII)20. Evidentemente, anche nell’Italia meridionale, il secondo millennio si apre con una rinnovata attenzione per il diritto giustinianeo21; ed è necessario ricordare come anche la Littera florentina, un esemplare dei Digesta che risale al sec. VI, rechi annotazioni marginali in minuscola beneventana e, in particolare, quell’esplicazione del termine
14Benché non sia scritto in beneventana, il Græcus 1384 della Bibliothèque Nationale di Parigi riveste un singolare interesse per la nostra indagine: esso riflette la secolare peculiarità di una terra di conflitti e di scambi. Redatto nel 1166, accosta due ecloghe greche dell’Editto di Rotari a complessi normativi di origine orientale: il
15Naturalmente, la beneventana viene adoperata anche per scrivere di diritto canonico. Duchi e principi ne applicano le disposizioni nel corso delle controversie sui beni ecclesiastici, ritenendosi competenti perfino se entrambe le parti appartengano all’ordine clericale25. Ciò non esclude, naturalmente, una giurisdizione vescovile o metropolitana per le questioni spirituali. È difficile definire quali norme vengano prese in considerazione perché la Chiesa altomedievale non ha una compilazione ufficiale: canoni, pronunciamenti papali e autorità patristiche circolano in modo caotico. Non mancano sillogi fortunate, come la Dionysio-Adriana o le Decretali pseudoisidoriane26. Intorno al 1023, a Montecassino, si redige un apografo glossato della Collectio in V libris: una raccolta formatasi non prima del 1014, forse a Farfa, ricca di capitoli carolingi27. Nello stesso periodo, l’abate Teobaldo aveva fatto copiare la Concordia Canonum di Cresconio28. Dopo il Mille, anche il Decretum di Burcardo ha conosciuto una certa circolazione29. A cavallo tra i secc. XI ed XII molto diffusa sembra essere la Collectio in LXXIV titulis, che si ritrova a Montecassino, a El Escorial e Roma30. Da questa dipende anche l’eterogenea raccolta sofiana del Vat. Lat. 4939: 28 capitoli che mostrano ulteriori concordanze con la Collectio Anselmo dicata e con la Anselmi Lucensis collectio canonum31. Altre compilazioni si ritrovano alla Vallicelliana, in Vaticano e nell’Archivio cassinese32. Una pergamena verginiana contiene parti delle causæ II e III del Decretum Gratiani: è il singolare incontro tra un frutto tardivo della minuscola beneventana e la collezione che ha aperto una nuova fase nel ius canonicum33.
16Anche nei monasteri, le istituzioni più caratteristiche del tempo, si forma un ordinamento giuridico sui generis34. Del Cassinese 175 si è già detto. Altre consuetudini monastiche, vergate in beneventana, si ritrovano in un codice vaticano e in un bifolium spoletino riutilizzato come copertina di un fasciolo notarile del Quattrocento35. Un insieme di consuetudini concepito a Montecassino – l’Ordo regularis apud eos qui in arce regulari pollent – è confluita anche in alcuni manoscritti transalpini, non scritti in beneventana36. Infine, abbiamo qualche testimonianza beneventana del Diadema monachorum e dell’Expositio in Regulam di Smaragdo37. Quest’ultima, insieme al commentario attribuito a Paolo, è alla base dell’Expositio di Pietro Diacono38.
17Apparentemente arida, l’analisi dei manoscritti schiude uno scenario altrimenti impenetrabile e restituisce la complessità di un orizzonte culturale tutt’altro che statico. Occorre relativizzare l’immagine convenzionale del copista compulsivo, inconsapevole o mosso da mera passione antiquaria: è vero che alcune miscellanee si presentano come un mare magnum ma, spesso, è possibile intravedere una logica seppur debole in simili accostamenti. E se la presenza simultanea di una fonte letteraria e di una fonte giuridica può dimostrare il carattere identitario che le accomuna – il diritto, dunque, non è inteso come sovrastruttura ma come espressione di un popolo e della sua cultura – è tuttavia possibile ribaltare il ragionamento e cercare contenuti giuridici nelle saghe, nelle cronache e perfino nella poesia. È proprio nelle fonti letterarie che meglio si annida la mentalità popolare e, dunque, è qui che possiamo ricavare la consuetudine. Alcune pagine dell’Hystoriola di Erchemperto e, ancor più, del Chronicon Salernitanum descrivono prassi ed idee in modo più efficace dello stesso Edictum. Allo stesso modo, i manoscritti che recano l’opera di Rufino, Girolamo, Agostino, Isidoro, Gregorio, Beda, Claudio di Torino, Rabano Mauro, Aimone e Remigio di Auxerre attestano in modo inequivocabile la circolazione di un pensiero teologico che, tuttavia, ha immediate ricadute sul piano giuridico39. Beneventano sarà dunque ciò che nasce in questa regione, ma anche ciò che arrivando dall’esterno viene assorbito e magari copiato nella minuscola locale. Sarà dunque corretto annoverare anche queste tra le fonti di nostro interesse. Non ha senso, per questa epoca, porre steccati invalicabili tra discipline e, al contempo, è necessario ponderare la differente estrazione culturale delle varie voci che risuonano in questa vasta zona.
18Naturalmente, la prassi trova un immediato riscontro nelle chartulæ, nei brevia, nei preceptae nelle notitiæ iudicati: il documento privato, la diplomatica cancelleresca e l’esercizio della giustizia consentono di ricostruire il diritto vivente ma anche rapporti economici e relazioni di potere40. Tenendo presente che alcune abbazie ci hanno tramandato un proprio cartolario – si pensi al Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni (prima metà del sec. XII) o al Chronicon Sanctæ Sophiæ (1119) o al Registrum Petri Diaconi (1133), nei quali le informazioni storiche s’intrecciano a contratti, controversie e privilegi41 – va sottolineato che la documentazione raccolta dagli studiosi moderni si trova dispersa tra molti codici diplomatici, cosa che rende difficile uno sguardo d’insieme42.
3. I presupposti: ordine della creazione e teologia della Legge
19Non diversamente dalla maggior parte delle esperienze coeve, l’ordinamento longobardo non sviluppa una teoria delle fonti che espliciti l’essenza e la funzione degli atti o fatti idonei a produrre una norma. Se il legislatore rimane muto, gli esperti rifuggono la speculazione preferendo un approccio pratico; nemmeno dai chiostri si leva una voce stentorea che definisca i termini della questione.
20Nell’Italia longobarda manca una compiuta riflessione sul diritto ma ciò non esclude l’esistenza di limiti, contenuti e prospettive che diano forma all’ordinamento. Le coordinate culturali entro le quali si manifesta il fenomeno giuridico sono anzi comuni all’intera Europa occidentale, crogiolo di romanità e germanesimo nel fuoco della nuova civiltà cristiana; la fitta rete di monasteri, cattedrali, scriptoria e biblioteche assicura, nonostante qualunque disagio, la circolazione di una conoscenza che non conosce barriere. Nessuno, nell’area beneventana come nel vecchio Regno, avverte l’esigenza di mettere nero su bianco le proprie osservazioni sul diritto e sulle fonti di produzione; ma i manoscritti testimoniano la diffusione di idee provenienti da lontano. Le considerazioni di Isidoro, pietre miliari già recepite dal Liber iudiciorum e destinate a confluire nel Decretum43, rappresentano, insieme ai commentari sulle lettere paoline e ad alcuni scritti di Agostino, i cardini di una teoresi conosciuta nel Mezzogiorno. Chi vuol sondare il cuore dell’ordinamento non può prescinderne. Naturalmente, dovrà sempre rammentare la loro matrice ecclesiastica ed il possibile scarto rispetto al punto di vista dei laici: per quanto il clero detenga il monopolio della cultura dotta e i valori cristiani si siano fatti strada nella legislazione44, la mentalità di un arimanno resta ancorata a valori non riducibili all’insegnamento della Chiesa. Sarebbe, peraltro, sbagliato pensare che i tonsurati parlino ad una sola voce, come se non vi fossero divergenze di pensiero.
21Tutti sono comunque convinti che la giuridicità non si autolegittimi né si riduca ad espressione del potere ma trovi scaturigine in una dimensione metapositiva capace di riverberarsi armonicamente su livelli molteplici, in chiave pluralista. «Ius generale nomen est, lex autem iuris est species. Ius autem dictum, quia iustum» afferma il Vescovo di Siviglia. La derivazione del termine ius da iustitia integra un vincolo sostanziale. «Ius legibus et moribus constat»45 ma, per quanto le due forme del diritto umano possano avere un carattere convenzionale, entrambe si presentano come «institutio æquitatis»46 e dovranno essere razionali, oneste, giuste e secondo natura47.
22Le norme stabilite dagli uomini per regolare la convivenza costituiscono perciò lo sviluppo coerente di un diritto superiore predisposto dall’Alto. «Naturali lumine, tanquam lege mentis, pravum et rectum innotescunt» annota Gregorio Magno. «Creator namque omnipotens a cunctis insensibilibus irrationabilibusque distinctum rationabilem creaturam hominem condidit (…) Naturæ enim lege scire compellitur, seu pravum sive rectum sit quod operatur»48. Dall’enciclopedia isidoriana si apprende che «ius naturale est commune omnium nationum, et quod ubique instinctu naturæ, non constitutione aliqua habetur (…) numquam iniustum, sed naturale æquumque habetur»49. Se l’Ispalense ha certamente presente la nozione romana di ius naturale e la trasmette, con qualche ritocco, al primo Medioevo50, un riferimento imprescindibile all’«opus legis scriptum in cordibus» lo si ritrova nell’Epistola ai Romani51. L’esegesi non fatica a riconoscere nelle parole di Paolo un riferimento alla legge naturale: «Cum gentes quæ legem scriptam non habent, faciunt ea quæ lex scripta præcipit illis quibus data est, ipsi utique ostendunt se habere scriptam naturalem legem in cordibus, et ipsi sibi sunt lex: quia illa faciunt quæ lex docet, licet illis non sit data» osserva Aimone di Auxerre, uno degli interpreti più letti dalle nostre parti. Una legge che detta norme senz’altro utili – come il «Quod tibi non vis fieri, alii ne feceris» – note perfino ai Saraceni perché incise «in mente et in conscientia (…) sicut stylo imprimitur nota in cera»52.
23Pur senza fornirne una definizione, il legislatore longobardo si riconosce vincolato a quella natura in cui si può leggere, come nelle Scritture, la volontà divina. Già Rotari aveva ammesso che, coerentemente con quanto prevede il diritto naturale, chiunque può prendere delle api da un albero non contrassegnato53. Talora, in accordo con la gnoseologia agostiniana54, il discernimento del bonum appare più frutto di un’illuminazione che di un’indagine razionale sulla natura rerum. Basti pensare a quanto aveva già dichiarato Liutprando: «Legis quas christianus ac catholicus princeps instituere et prudenter cinsire disponit, non sua providentia, sed Dei notu et inspiratione eas animo concepit, mente petractat et salubriter opere conplit, quia cor regis in mano Dei est»55. Su questa scia si pone Adelchi:
24Omnipotens universitatis dispositor quondam, ut ei placuit, Italiæ regnum genti nostræ Langobardorum subdidit. Quorum quidem regibus feliciter regnantibus inspirator bonorum omnium in eorum dignatus est pectoribus serere, quemadmodum legis decreta communi concilio sancirent56.
25E del resto, nonostante si faccia appello alla ragione e all’equità57, i confini tra ius naturale e lex divina appaiono sfocati, anche perché lo stesso Agostino aveva complicato le cose passando da un’impostazione giusnaturalista ad una volontarista58. Già Liutprando aveva promulgato quelle norme «quæ iuxta Dei legem nobis congrua paruerunt»59. Per arginare la riduzione in schiavitù ed il conseguente commercio di uomini coi musulmani, Arechi formula una legge terribile ispirata al taglione e legittimata dalla «divinæ legis auctoritas»: «Si quis in captivitate duxerit, in captivitate vadat»60. Benché la disposizione si mostri aliena da qualunque afflato evangelico, essa si propone come positivizzazione del precetto divino. Un parametro che avrebbe influenzato le trattative tra Sicardo e i napoletani: «Dum ea quæ Dei præcepta sunt, partes obaudiunt, tunc ipsius adimplere probantur mandata»61. Sono istanze ben presenti nel discorso giuridico ma non bisogna attendersi quel nitore concettuale che solo il Basso Medioevo riuscirà ad acquisire.
26Uno dei vocaboli semanticamente più tormentati è iustitia. Come abbiam visto, nessuno dubita che il diritto debba attuare una giustizia preesistente; per questo, il legislatore longobardo adopera locuzioni come iustitiam facere, conservare, invenire, servare, quærere, persequi62. Le novelle dei principi beneventani si prefiggono la giustizia come suprema istanza: Arechi, ad esempio, conferma il regime «secundum legem» circa la riduzione in schiavitù come conseguenza di un delitto grave ma «sub estimatione iustissima» introduce una servitù temporanea per le trasgressioni minori63. Da parte sua, Adelchi si rifà all’esempio di Arechi il quale, di fronte alla minaccia franca, «imitator existens maiorum suæ gentis reliquias rexit nobiliter et honorifice, et sequens vestigia regum quædam capitula in suis decretis sollerter corrigere seu statuere curavit ad salvationem et iustitiam suæ patriæ pertinentia, quæ utilia nempe sunt»64. È ovvio che un ruolo chiave sarà affidato al giudice il quale, in un contesto che non conosce il principio di legalità, potrà decidere «secundum legem et iustitiam»65. Agli occhi di Radelchi e Siconolfo è chiaro che la dimensione del iustum travalica il piano della lex, infatti assicurano la restituzione di quanto fosse «in proprietate legaliter iusteque» prima della Guerra civile66. Talvolta, il sostantivo assume un significato concreto, così da indicare il procedimento o più spesso ‘ciò che spetta’. In tal caso, esso implica un’obbligazione che può comportare la restituzione di un bene indebitamente detenuto, l’adempimento di un debito o la compensazione di un torto, con sfumature sia risarcitorie che afflittive: emblematico il cap. 8 del Pactum Sichardi, rubricato appunto de iustitia67. Analizzando tali disposizioni, ci si accorge che il legislatore fatica a ragionare per astrazione: l’ideale si materializza in una pretesa tangibile e l’id quod iustum est prende corpo nel cuique suum68.
27Ma se il diritto – saldamente ancorato alle cose69 – percepisce la giustizia come qualcosa di concreto e di calcolabile, nella riflessione del clero dotto il concetto si colora di tonalità cristiane: la giustizia non è conformità pedissequa alla legge positiva (ed anzi proprio questo è il rimprovero mosso agli ebrei) né fredda aritmetica dell’attribuzione (come prevede la definizione greco-romana). Della nozione classica resta, indubbiamente, l’idea di una corresponsione dovuta, così come la dialettica col ius scriptum e la connessione profonda con veritas, ratio e natura: suggestioni che i più colti possono apprendere dal De legibus di Cicerone70. Ma tali concetti vengono ricondotti alla visione di un ordo provvidenziale e gerarchico, stabilito da Dio tramite il
28È in queste due direzioni – reicentrica e cosmologica – che la giustizia si rinviene e si realizza in chiave retributiva, ed è compito precipuo di chi detiene il potere agire coerentemente con essa. «Non autem regit, qui non corrigit (…) Regiæ virtutes præcipue duæ: iustitia et pietas. Plus autem in regibus laudatur pietas; nam iustitia per se severa est» dichiara Isidoro73. «Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?» aveva chiesto provocatoriamente Agostino74.
29E tuttavia, proprio sulla scorta del Vescovo di Ippona e della sua polemica antipelagiana, si era fatta largo una radicale svalutazione della giustizia come virtù morale. Non solo egli dubitava che una potestas pagana potesse essere giusta, nonostante ogni osservanza del diritto naturale75; ma negava che l’uomo lontano da Dio fosse in grado di compiere azioni giuste. Meditando la dottrina paolina della giustificazione, Agostino era giunto a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle che i giuristi romani avevano mutuato da Aristotele e dalla Stoà: finché resta schiavo del peccato – condizione dalla quale non è certo in grado di affrancarsi con le sue sole forze – l’uomo non è capace di alcuna giustizia. «Mandatis quippe eius rectis atque arduis humana non contemperatur infirmitas, nisi præveniens eius adiuvet caritas (…) indebita Dei misericordia sanatur debita nostra miseria»76. Da virtù esterna che regola i rapporti inter homines, la giustizia diventa qualcosa di trascendente: la giustificazione avviene gratuitamente, in seguito a un atto di fede in Cristo redentore, e trasforma l’uomo nell’intimo conformandolo alla giustizia di Dio e consentendogli di porre in essere opere buone. Divenire giusti significa oltrepassare l’esatta commutazione o distribuzione; implica una rettitudine integrale che si apre alla carità e alla misericordia, richiede l’adesione totale del corpo e dell’anima al volere divino. È una nozione di giustizia più slabbrata, ma anche più esigente77.
30Quid iustitia, cuius munus est sua cuique tribuere (unde fit in ipso homine quidam iustus ordo naturæ, ut anima subdatur Deo et animæ caro, ac per hoc Deo et anima et caro), nonne demonstrat in eo se adhuc opere laborare potius quam in huius operis iam fine requiescere? (…) Quamdiu ergo nobis inest hæc infirmitas, hæc pestis, hic languor, quomodo nos iam salvos, et si nondum salvos, quomodo iam beatos illa finali beatitudine dicere audebimus?78.
31Spostata su un piano prettamente teologico, non scevro di reminiscenze platoniche, sembrerebbe che la giustizia non possa trovare compimento sulla terra. Inevitabilmente, anche le potestà di questo mondo restano distanti dalla vera giustizia tanto che essa – diversamente da quanto sostiene Isidoro – non può rappresentare un requisito della respublica, trovando posto solo nella dimensione invisibile della Civitas Dei79.
32E allora perché obbedire alle leggi umane? Invero, rispetto ai tempi cupi di Agostino, le cose sono cambiate: nei regni sorti sulle ceneri di Roma il paganesimo è ufficialmente scomparso e i governanti si ergono a difensori della fede. C’è motivo di sperare che la conversione dei barbari abbia determinato una metamorfosi del potere: gli scrittori di età carolingia seguono il Vescovo di Siviglia, e non l’Ipponate, nel valorizzare la giustizia come fondamento del diritto80. D’altra parte, l’interrogativo sull’obbligazione politica trova un riferimento ineludibile nella Lettera ai Romani, laddove Paolo aveva raccomandato la sottomissione alle potestà costituite. E benché si possano identificare almeno due diverse soluzioni teoriche – una, con l’Ambrosiaster, Agostino e Gregorio, insiste sull’obbedienza assoluta; l’altra, con Isidoro, lo Pseudo-Cipriano e Incmaro, apre una breccia per legittimare la resistenza al tiranno – le affermazioni dell’Apostolo restano capisaldi intangibili: «Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit. Non est enim potestas nisi a Deo; quæ autem sunt, a Deo ordinatæ sunt. Itaque qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit (…) Ideo necessitate subditi estote non solum propter iram, sed etiam propter conscientiam»81. Erchemperto ricorda bene questo comando e lo collega ad un’analoga prescrizione pietrina82. Il collasso politico dei suoi tempi è interpretato come conseguenza dell’insubordinazione e dello spergiuro, che s’incarnano nella figura perversa del vescovo conte Landolfo.
33Da parte sua, Aimone individua un limite: «Inquantum quippe homo non offendit Deum, obsequi et obedire debet celsioribus. Nam homo constat ex anima et corpore: et in anima quidem debet servare inviolatam fidem Deo, in corpore vero debet servire sibi dominantibus secundum servitutem præsentis vitæ». Criterio apparentemente limpido ma, in concreto, capace di determinare aspri conflitti tra la gerarchia secolare ed ecclesiastica. Ad ogni modo, di fronte ad un comando contrario alla religione, il battezzato «pro fide usque ad mortem satagat laborare»: meglio perdere il corpo che dannarsi l’anima. Il monaco di Auxerre riconosce un margine alla disobbedienza ma non osa teorizzare la resistenza attiva: il modello resta ancora quello dei martiri. Al di là di questo caso limite, però, l’obbedienza è dovuta giacché «omnis potestas, sive major, sive minor, quæ hominibus præstatur, aut ex voluntate Dei, aut ex permissione constituta est»; pertanto, qualunque rifiuto integra un’inammissibile opposizione a una dispositio provvidenziale83. Proprio per questo, la soggezione non dovrebbe scaturire solo dalla paura del castigo ma è dovuta per ragioni di coscienza. Da questo passo paolino, nei secoli a venire, prenderà piede una lunga diatriba sull’obbligatorietà morale delle leggi84. Aimone non ha la finezza teologica per sviluppare un tema così complesso, tuttavia spiega che non basta osservare i precetti dei superiori ma bisogna amare questi ultimi proprio perché istituiti dal Cielo. «Verbi gratia: Es subditus illi timens damnum temporale, dum servis ad oculum: esto subditus propter conscientiam mentis, ut in ipsa conscientia quam Dominus intuetur, non habeas illum odio cui præstas obsequium»85.
34In questa sede non è possibile chiedersi se il Dei Providentia Langobardorum gentis princeps – com’è definito negli atti ufficiali il monarca beneventano dai tempi di Grimoaldo III86 – si ritenga imitazione della maestà divina alla maniera bizantina o se, più modestamente, la sua ascesa al trono venga considerata un tassello dell’ordine e quindi dipenda solo indirettamente dalla volontà celeste. L’unzione introdotta da Arechi II sembra marcare il carattere sacramentale della regalità; ma le procedure continuano a prevedere un’elezione che, coinvolgendo popolo ed ottimati, lascia pensare a un intervento mediato della divinità87. Ad un livello più astratto, bisognerebbe chiedersi se Dio abbia disposto l’istituzione o se, invece, abbia insediato la persona che la incarna88. Questioni capitali che i longobardi lasciano nell’ambiguità, e che comunque subiscono l’influenza di egemonie culturali intermittenti come quella pontificia, carolingia ed orientale89. Di certo, resta l’idea paolina per cui il comando del principe può creare un vincolo in coscienza, sotto pena di peccato. Non caso, il Glossario di Cava non accoglie la formula isidoriana per cui «lex a legendo vocata, quia scripta est»90, preferendo riconnettere l’etimologia al verbo ligare. A ben vedere, le due glosse rimandano con esattezza al brano paolino testé considerato: «Lex dicitur ad ligandum. Idest quia ligat pravos homines (…) Lex enim dicitur eo quod animos nostros liget»91.
35Se la seconda esprime la capacità obbligatoria sul piano morale, la prima rimanda alla necessità di obbedire propter iram e, dunque, alla legge come deterrente. Ci sono persone che non si curano della propria anima, nei cui riguardi ogni discorso sui doveri risulta sterile: costoro saranno costretti all’obbedienza dalla minaccia di un castigo terreno. Così, i malvagi verranno messi in condizione di non nuocere. È questa l’opinione di Isidoro: «Factæ sunt autem leges, ut earum metu humana coherceatur audacia, tutaque sit inter inprobos innocentia, et in ipsis inprobis formidato supplicio refrenetur nocendi facultas. Legis enim præmio aut pœna vita moderatur humana»92. Il ragionamento va esteso alla funzione stessa del potere temporale. «Potestas bona est, quæ a Deo donante est, ut malum timore coerceat, non ut temere malum committat»93. La naturalità della
36Propter peccatum primi hominis humano generi pœna divinitus illata est servitutis, ita ut quibus aspicit non congruere libertatem, his misericordius irroget servitutem. Et licet peccatum humanæ originis per baptismi gratiam cunctis fidelibus dimissum sit, tamen æquus Deus ideo discrevit hominibus vitam, alios servos constituens, alios dominos, ut licentia male agendi servorum potestate dominantium restringatur. Nam si omnes sine metu fuissent, quis esset qui a malis quempiam prohiberet? Inde et in gentibus principes, regesque electi sunt, ut terrore suo populos a malo coercerent, atque ad recte vivendum legibus subderent94.
37Non c’è nulla di virtuoso in questa obbedienza coatta e nulla di soave in questo potere arcigno che si legittima come remedium peccati pur essendo, in sé, un malum pœnæ. È un punto di vista che l’Alta Scolastica eredita dalla Patristica e che ritroviamo nelle riflessioni di Aimone. Ecco perché, come asseriva l’Apostolo, «quæ sunt jura potestatum, a Deo ordinatæ sunt». Aimone riflette sui versetti dell’Epistola e soggiunge che i principi «non sunt ad hoc constituti ut timorem incutiant bene laborantibus et bono operi insistentibus, sed malefacientibus et servire nolentibus (…) si quis bonum facit, non timet potestatem: qui vero malum timet». Il governante svolge pertanto il suo servizio in due direzioni. Anzitutto a vantaggio di chi compie il bene: «Dei enim minister est (…) ut suo timore et adjutorio custodiat et tueatur te, ne interficiaris ab inimico tuo, et tuam substantiam non diripiant alii». Invero, «sunt multi qui volunt agere malum, sed timent potetatem mundanam, et causa hujus timoris non percipiunt quod cupiunt». In questo senso, il potere sguaina la spada per dissuadere e prevenire. Ma esso realizza il suo ministerium anche a detrimento dei malfattori, in qualità di vindice. Infatti
38non sine causa gladium portat, id est, non sine causa ulciscendi potestatem habet. Sunt nempe quædam enormia flagitia, quæ potius per mundi judices quam per antistes et rectores Ecclesiarum judicantur (…) Hujusmodi reos reges et principes mundi damnant (…) Sunt etiam maxime constituti propter latrones, homicidas, raptores, ut illos damnent, et alios timore compescere faciant95.
39Un potere che va esercitato essenzialmente in materia criminale e secondo una finalità che oggi diremmo generalpreventiva96. Queste considerazioni sulla natura delle istituzioni e delle loro leggi vengono ad incastrarsi con un aspetto della teologia della Legge sviluppato in vari passaggi delle lettere ai Romani e ai Galati ma icasticamente scolpito in una massima della Prima lettera a Timoteo: «lex iusto non est posita, sed iniustis»97. Paolo si riferiva, evidentemente, alla Torah ma la logica è la stessa che abbiamo visto per quanto attiene la legge umana; d’altro canto, la legge mosaica era essa stessa un diritto positivo elargito al popolo eletto «ut homines compesceret et prohiberet a peccatis»98. Quelle disposizioni, col loro rigore, interessano soltanto i reprobi; sferzano coloro che le detestano e che magari, pur applicandole alla lettera, non ne hanno accolto lo spirito. Nota Agostino: «qui timore pœnæ, non amore iustitiæ opus legis facit, profecto invitus facit. Quod autem invitus facit, si posset fieri, mallet utique non iuberi: ac per hoc legis, quam vellet non esse, non est amicus, sed potius inimicus; nec mundatur opere, qui immundus est voluntate»99. Per quanti non si lasciano toccare dalla grazia, l’osservanza rimane formalistica e dunque materialmente impossibile100: l’ingiusto resta sotto la Legge e ne patirà le conseguenze. Aimone paragona l’anima ad una donna, il peccato al coniuge, la Legge alla potestà maritale:
40regnantibus in illa passionibus et delectationibus et vitiis carnis, subjacet legis Moysi vindictæ quæ data est impiis et peccatoribus. Si autem mortuus fuerit vir ejus, id est si mortua fuerint peccata in anima et vitia carnis, soluta est a lege mariti, id est non est jam subjecta legi Mosaicæ (…) Mortua est lex (…) in quibus nihil habet quod puniat101.
41Cristo ha liberato i fedeli dalla schiavitù di una legge terribile: «justificato per fidem et gratiam baptismatis, et legem volenti implere non est lex posita, id est imposita ut supra illum sit. In illam enim est potius, et cum ipsa quam sub illa, quia amicus legis est. Unde si omnes justi essent, nequaquam esset lex data»102. Ciò non significa rifiutare la legge umana né ripudiare la Torah in blocco: la libertà cristiana non equivale all’antinomismo. Finché saranno pellegrini sulla terra, anche i membri della Civitas Dei rispetteranno le norme stabilite dalla potestà temporale per vivere in concordia con tutti103. Quanto alla legge mosaica, ne coglieranno lo spirito scartando «mysteria et sacrificia» e conservandone i «præcepta»104; soprattutto, la metteranno in pratica di buon grado perfezionandola nell’amore. Per questo San Paolo confermava la Legge e, al contempo, poteva affermare «plenitudo ergo legis est dilectio»105: chi ama, infatti, non solo si astiene dal compiere il male ma realizza le buone opere con cuore sincero, indipendentemente da precetti e sanzioni106. Le sue mani sono monde e così i suoi pensieri.
42Ma la purezza interiore è frutto della giustificazione per fede, che rappresenta un prius e dà la possibilità di adempiere fino in fondo. «Id agit gratia, ut dilectione impleantur mandata Dei, quæ timore non poterant. Gratia quippe Dei diffunditur caritas in cordibus nostris per Spiritum sanctum, qui datus est nobis»107. Per quanti sono riscattati col sangue della Passione e l’acqua del Battesimo, la Legge non è più scritta su tavole di pietra: «sancto Spiritu tamquam digito Dei in mente datur, et in cordibus scribitur: non quam memoria teneant, et vita neglegant; sed quam sciant intellegendo, faciant diligendo, in latitudine amoris, non in timoris angustiis»108.
43Così va inteso il passo paolino «Nunc autem soluti sumus a lege mortis, in qua detinebamur, ita ut serviamus in novitate spiritus, et non in vetustate litteræ»109, chiaramente pensato per regolare i rapporti tra Torah ed Evangelo ma capace di imprimere sul Medioevo un’alta considerazione per il diritto e, al contempo, una forte avversione per il legalismo ‘farisaico’. «Justitia Dei in præsenti tempore sine lege manifestata est (…) Quia justitia in Christo est rivelata, et data sine lege, id est sine observantia legali, quia nulli lex secundum mysteria et sacrificia traditur jam observanda»110. L’ora della Legge è compiuta, siamo già nel tempus acceptabile e conviene prepararsi alla παρουσία:
44Tempus est non legis, sed Evangelicæ prædicationis (…) et nos si hactenus jacuimus in vitiis, et torpore vitiorum, surgamus ad bona opera agenda, et laboremus viriliter studioseque (…) dum finis mundi magis ac magis appropinquat, vita futura et salus æterna magis ac magis festinat111.
45Ma il salto di qualità dalla lettera che uccide allo spirito che vivifica non riguarda tutti; la fede e l’amore animano coloro che son toccati dalla grazia, non sono passibili di coazione. In via di principio, la conversione è un fatto personale nel quale le potestates non possono intervenire. Tuttavia, almeno a partire dal compelle intrare invocato da Agostino in occasione dello scisma donatista, si era ammesso un certo intervento secolare per riportare all’ordine i battezzati. Siffatte pretese trovano spazio nel cesaropapismo bizantino ma anche nella tuitio Ecclesiæ dei monarchi visigoti e carolingi. Nel momento in cui l’intera popolazione (o quasi) è composta da christifideles il principio sancito dall’Ipponate è destinato a un impatto maggiore ed il rapporto tra Chiesa e potestà secolare subisce una trasformazione. L’assunto è che i monarchi sono posti intra Ecclesiam ed anzi, proprio in virtù della preminenza politica, dovranno rendere ragione a Dio della «pax et disciplina Ecclesiæ». Ciò significa riportare all’obbedienza coloro che si ribellano alla gerarchia clericale e sedare gli scandali. Il ragionamento di Isidoro è consequenziale: «quod non prævalet sacerdos efficere per doctrinæ sermonem, potestas hoc imperet per disciplinæ terrorem»112. L’Ispalense esorta i principi a proclamare la fede con le proprie leggi. Ma se simili considerazioni pongono un fondamento per quella concezione ministeriale del potere che è alla base del cosiddetto agostinismo politico113, favorendo una certa confusione di ruoli, bisogna ribadire che il discorso si spinge fino all’imposizione di una condotta esteriore conforme alla religione, ma non teorizza la facoltà di realizzare l’uomo nuovo tramite il diritto. Il Regno di Dio resta una dimensione spirituale e l’appartenenza ad esso non può essere coartata; nonostante tutto, la legge si conferma uno strumento per i malvagi e la mera osservanza non basta a meritare la beatitudine, giacché le buone opere seguono e non precedono la giustificazione:
46Nos salvamur modo per gratiam Dei in fide Domini nostri Jesu Christi (…) omne os obstruatur (…) ne quis possit gloriari se suis esse salvatum meritis (…) quoniam omnes inventi sunt peccatores (…) Lex enim non venit peccatum tollere, sed ostendere et punire. Per legem enim cognitio peccati114.
47Quest’ultima osservazione rievoca un punto nodale della dottrina paolina: la legge scritta dà consapevolezza del peccato e, pertanto, lo aggrava e suo malgrado lo stimola. Di per sé il comandamento è «sanctum, et iustum, et bonum» ma, senza la grazia, si rovescia nell’occasione di una trasgressione peggiore115. È questa la maledizione della Legge: conoscerla ma non poterla applicare116. I commentatori limano la vibrante prosa dell’Apostolo e chiariscono i passaggi più delicati: contro l’interpretazione marcionita, spiegano che la Legge non è essa stessa peccato; contro un’interpretazione giuspositivista, ribadiscono che il peccato esisteva anche prima della promulgazione117. Del resto, «scimus autem quia bona est lex si quis ex legitime utatur»118. La cognitio peccati, mettendo all’angolo i superbi che credono di salvarsi con le proprie forze, può condurre tanto alla disperazione quanto all’abbandono in Dio. In questo modo la legge – e qui ci si riferisce inequivocabilmente alla Torah119 – può condurre alla grazia, assolvendo ad una funzione pedagogica120.
48Dalla consapevolezza scaturisce un timor pœnæ che resta, però, soggiogato alla volontà di peccare; esso va superato dall’amore per la giustizia e dalla carità perfetta. Per questo Agostino implora «Da mihi castum timorem, ad quem petendum me tamquam pædagogus timor legis ille perduxit, quo timore a iudiciis tuis timui»121; mentre Isidoro sentenzia «via per quam itur ad Christum lex est, per quam vadunt ad Deum hi qui (…) intellegunt eum»122
49Nonostante questa utilità, non è la legge a salvare l’uomo. Se questo è il quadro delineato dai teologi, c’è da chiedersi fino a che punto esso sia accolto da coloro che detengono il potere. Scorrendo i prologhi dell’Editto, ci si accorge che il valore delle leges – vuoi per convinzione, vuoi per esigenze politiche – viene esaltato con una retorica che stride con quanto detto123. Liutprando aveva introdotto i capitoli del 723 dichiarando: «nunc, si aliquid pro gentis nostræ salvatione adhuc adicere possumus, credemus pro his Dei misericordia adipisci et retributionem æternam ab ipso (…) promereri»124. Affermazione problematica: non solo il re rivendicava il ruolo di legislatore confidando di meritare il Paradiso tramite un esercizio corretto, ma individua come scopo la salvezza del popolo. Il concetto veniva ribadito l’anno successivo:
50Scimus enim et firmiter retinemus, quoniam, qui per gradus et tempora in bono proficit opere, et semper ad meliora tendere videtur, quod Dei in eo operatur pietas, et eius misericordia eum inlustrat, qui omnes vult salvos fieri et ad agnitionem suæ veritatis venire. Ergo si pro gentis nostræ salvatione aut pauperum fatigatione aliquid possumus conicere (…) credimus quod misericordia Dei in bono nobis pro hac causa retribuat, eo quod pro solo Dei timore et amore hoc facimus, ut omnes cause per rationem et iustitiam terminentur, nec sit aliquis error, sed maxime clarescat omnibus sua iustitia125.
51Ma a quale tipo di salvezza mirava il Monarca? Quella politica per la stirpe o quella ultraterrena per l’anima? Il prologo del 728 fuga ogni dubbio: il Re riteneva che la lex potesse essere un valido strumento per conseguirle entrambe: «adiungere curavimus quæ pro salute animæ at gentis nostræ salvatione (…) Dei omnipotenti placendo et nostros de errore tollendo subiectos»126. Con tale proclama – che, nonostante le intenzioni, avrebbe potuto indignare un chierico teologicamente avveduto – Liutprando andava molto al di là rispetto alle intenzioni di Rotari. Il primo legislatore aveva preso l’iniziativa «pro subiectorum nostrorum commodo (…) propter adsidua fatigationes pauperum». La certezza del diritto di fronte agli abusi dei potenti, in un momento politicamente delicato, avrebbe assicurato la pace interna e la coesione necessaria per affrontare il nemico: «liceat unuicuique salva lege et iustitia quiete vivere, et propter opinionem contra inimicos laborare, seque suosque defendere fines»127. Riecheggiava l’ideale tutto mondano della Friede, che del resto sarebbe tornato in Astolfo e nello stesso Liutprando128, ma non c’era alcun cenno alla funzione soteriologica della legge. Col catholicus principes Liutprando la funzione legislativa si era arrogata finalità inusitate, che si spingevano ben oltre la deterrenza o la ricomposizione del tessuto sociale129.
52Siffatte ambizioni si ripresentano negli epigoni beneventani. L’ingresso di Grimoaldo III nella Capitale viene salutato con l’inno: «Veni pastor noster et post Deo salus nostra»130. L’intesa tra longobardi e partenopei viene siglata «ad pacis concordiam pro salute christianorum animarum»131. Qualche decennio più tardi, Adelchi antepone ai suoi capitoli un’introduzione molto densa, nella quale ricorda come i predecessori pavesi «legis decreta communi concilio sancirent, quibus subditus populus cunctaque gens illa legaliter vivens nullusque metas statutæ legis excedens adversus alterum nichil sinistrum auderet perficere». Da parte sua, Arechi «sequens vestigia regum quædam capitula in suis decretis sollerter corrigere seu statuere curavit ad salvationem et iustitiam suæ patriæ pertinentia, quæ utilia nempe sunt». L’idea della legge come mezzo salvifico riaffiora in un’argomentazione comunque radicata nella visione tradizionale. Non bisogna dimenticare, infatti, la congiuntura in cui matura l’iniziativa: come Arechi dovette fronteggiare l’invidia di Carlo, in un desolante scenario di disfacimento, così Adelchi è costretto ad invocare l’imperatore pur di liberarsi dall’emiro e dei suoi tributi.
53Ad nos quoque ducatum ipsius reliquiarum gentis supernæ pietati perducere placuit, quos iam infestatio multarum gentium valde opprimit, quæ nostro concives conterere et dissipare non desinunt, plurimas nostrorum villas oppidaque cremantes et disperdentes (…) ista nostro excreverint tempore, quibus multum mestificamur, simul et habundare nequitia quorundam cæpit nostratium, quibus unus contra alterum semper molitur insidias, statuta antiqua legis excedens, cupiensque frequenter quocumque modo suo nocere proximo.
54In definitiva, l’opera di Adelchi si inquadra in un’ottica di repressione: «eadem capitula statuire sollicite curavimus, quibus omnis iniquus suam malitiam et iniquitate retundare et refrenare debeat»132. Il tema della salvatio, pur presente, è declinato in chiave politica; la legge funge da presidio identitario in un momento di crisi133.
55Sul finire del sec. XI, un’opera didattica concepita a Pavia ma nota nel Meridione sostiene apertamente una posizione più ardita: «intentio legis est facere homines bonos non solum metu pœnarum sed etiam exhortatione præmiorum»134. Col pretesto di approfondire l’incipit di Rotari, l’Espositore ne tradisce le intenzioni innestandovi il pensiero di Ulpiano (il quale peraltro non si riferiva alla legislazione ma alla iuris prudentia)135.
56La disamina appena compiuta evidenzia un percorso che conduce, almeno a parole, verso l’esaltazione della legge umana; con toni entusiastici che rasentano il pelagianesimo, essa è sempre più celebrata come strumento di rigenerazione in vista della Beatitudine. Il pessimismo antropologico è lontano: da Agostino i longobardi ricevono la percezione dell’ordine senza assorbire la torsione volontarista. Le sue spoglie sono traslate nella capitale del Regno, ma il suo pensiero è recepito in modo parziale. Essi hanno maturato la convinzione di essere un popolo eletto e, rileggendo le vicende della migrazione alla luce dell’œconomia salutis, fanno seguire alla conversione collettiva l’adozione di una legge scritta: «ortum est lumen in tenebris»136.
4. Le fonti di produzione
57Ma la tendenza emersa dai prologhi trova corrispondenza nel contenuto delle norme? Indubbiamente, a partire da Liutprando, l’Edittoaveva assunto una patina moraleggiante; ciononostante, ad uno sguardo attento, la svolta risulta superficiale. Non c’è, nei capitoli originari come nelle addizioni più recenti, alcun tentativo di pianificare ab imis una società nuova abitata da giusti. In questo, il lascito più proficuo dell’Ipponate: l’uomo non ha la capacità di costruire sulla terra una città perfetta.
58Per questo il principe Adelchi afferma che le integrazioni al testo di Rotari sono state apportate con cautela, in ossequio a quella disposizione regia che «prudenter atque humiliter» prefigurava la facoltà di cancellare il superfluo ed aggiungere il necessario137. Il legislatore agisce con estrema circospezione, lasciando margine di autonomia ai gruppi sociali e preoccupandosi di regolare le questioni più scottanti. Le disposizioni emanate a Benevento, non diversamente da quelle edittali, si mostrano frammentarie e casistiche, spesso caratterizzate da quella forma siquatica che è tipica del Medioevo: tecnica normativa elementare, che mira alla concretezza e non si cura dell’astrazione. Mancano enunciazioni di principio e norme programmatiche; la disposizione si contraddistingue essenzialmente per il suo carattere coercitivo, ed è per questo che abbondano norme di carattere penale (sebbene il penale altomedievale sia perlopiù rivolto a soddisfare la domanda di giustizia della parte lesa e ad evitare l’innesco di una faida). Talora, per esigenza di certezza, la legge regola l’attività negoziale ma senza smarrire il suo approccio rapsodico e senza voler penetrare sistematicamente nel privato. Più numerosi i capitoli in materia di prova. D’altronde, le aggiunte beneventane di Arechi ed Adelchi (rispettivamente 17 ed 8 capitoli) si collocano deliberatamente in rapporto di continuità con le leges Langobardorum sedimentatesi da Rotari fino ad Astolfo: rispetto ad esse, si pongono spesso in relazione di analogia, riforma o abrogazione. Da ciò deriva il carattere disorganico dei capitolari beneventani, ancor più marcato rispetto al vago ordine concettuale abbozzato nella compilazione rotariana.
59I principi non osano rinnegare il patrimonio giuridico ereditato dai reges né pensano di riscriverlo secondo criteri sistematici inimmaginabili a quell’altezza cronologica. Intervengono con moderazione, in modo perfino più sporadico rispetto ai predecessori. Per essere credibili, le leggi devono essere stabili nel tempo; poche e consolidate, possono essere facilmente ricordate ed innervare la società. La scarsa propensione alla legiferazione è un tratto distintivo della civiltà altomedievale, che diffida della capacità palingenetica della legge e, al contempo, reputa quest’ultima un affare troppo nobile per essere svilito da una produzione alluvionale.
60Nei circa novant’anni che intercorrono tra i capitoli di Arechi (774-782) e quelli di Adelchi (866), c’è motivo di credere che nessuno dei sei principi che sono avvicendati sul trono abbia ritenuto di aggiungere qualcos’altro: altrimenti, è probabile che Adelchi ne avrebbe ricordato l’esempio. Ciò non esclude che, in seguito, possano essere state fissate altre norme; ed anzi, pur considerando la decadenza politica dei principati e la tendenza a non legiferare che si riscontra in tutto il Continente tra X ed XI sec., sembra strano che fino al fatidico 1077 nessuno abbia emesso neanche un capitolo. La cifra nera è possibile. Erchemperto ci informa di una legge di Atenolfo (888ca.) che avrebbe modificato il regime del giuramento nel caso in cui un’abbazia fosse parte in causa138. Uno scavo nelle cronache e nei documenti, forse, potrebbe riservare qualche altra sorpresa (sebbene questi ultimi richiamino la legge in modo generico, così da rendere difficile l’identificazione di una norma). Inoltre, resta ancora da chiarire la paternità della cd. Novella 29 di Liutprando e dei Frammenti di Sutri per i quali è stata prospettata una probabile origine meridionale139.
61Discorso in parte diverso vale per i cinque accordi a noi pervenuti: benché il loro contenuto sia indubbiamente normativo, non vanno qualificati come leges bensì come fœdera di ius gentium140. Servono per disciplinare i rapporti con altre entità territoriali: il Ducato di Napoli, con la sua tradizione romanistica, nel caso dei due pacta Arichis (probabilmente 784 e 787), del Pactum Sichardi (836), della Pactio Gregorii (probabilmente 911) e della Pactio Iohannis (tra il 933 e il 939)141; il Principato di Salerno, coerede del patrimonio giuridico longobardo, nel caso della Divisio Ducatus (849)142.
62Per quanto possano promettere «firmissimam pacem»143 o sempiterna amicizia144, questi trattati subiscono i rovesci della politica estera e vengono spesso travolti dai conflitti bellici. La Pactio Gregorii individua come termine la morte del suo artefice: diversamente da quanto previsto per la Divisio, la parola data vincola la persona fisica e non l’istituzione tanto che il duca partenopeo Giovanni III dovrà riformulare la promessa, benché l’oggetto sia identico al precedente145. In modo più smaliziato, Sicardo aveva concesso ad Andrea II e al suo popolo «pacem veram et gratiam (…) ad annos quinque expletos»146. In fondo, lo status giuridico della Liburia e i rapporti col ducato bizantino erano già stati oggetto di regolamentazioni puntualmente violate. Ma, nonostante l’instabilità di questi accordi giurati, si coglie l’aspirazione di giuridificare la procedura d’infrazione, per cui un’eventuale mancanza non dovrebbe causare la denuncia del trattato ma la soddisfazione del danneggiato147. A dispetto di ogni evidenza, emerge una cieca fiducia nella possibilità di gestire la controversia senza ricorrere alle armi. Ad ogni modo, se le leggi sono poche e solide, i trattati sono numerosi e fragili: non c’è dubbio che ce ne sia giunta una minima parte, giacché le cronache accennano ad altri pacta di cui sappiamo poco o nulla148.
63Da diversi indizi, ricaviamo che sia le leges che i fœdera vengono approvati dall’assemblea generale: assimilazione logica, dato che i longobardi si concepiscono come un popolus /exercitus e che quanti sono adesso chiamati cives restano pur sempre exercitales. A ben vedere, i principi beneventani possono rivendicare una potestas condendi leges proprio perché sono ormai a capo della gens Langobardorum149. Le cronache, inoltre, raccontano che l’agmen populi si riunisce per eleggere un principe, per indire una guerra, per celebrare un trionfo. Non bisogna pensare, in modo semplicistico, ad una democrazia diretta gestita alla pari da uomini uguali: in questa fase coloro che si fregiano di appartenere alla stirpe longobarda sono già distinti in vulgus e sublimes; l’assemblea riflette siffatta stratificazione. C’è dunque volontà di popolo, ma il popolo va inteso alla maniera medievale; più che di democrazia in senso antico o moderno, bisognerebbe discutere di regime misto. In questo senso, alla legislazione longobarda può essere applicata l’etichetta isidoriana: «Lex est constitutio populi, quam maiores natu cum plebibus sancierunt»150. Gli ottimati in consiglio esprimono il loro parere determinante; il popolo nel suo complesso manifesta l’assenso o il diniego; il monarca, che ha convocato l’adunata, sanziona la legge mentre la procedura pubblica per gairethinx conferisce la firmitas151.
64Il capitolare di Arechi rivela tale dinamica nella formula «sicut omnibus simul æquissime placuit, sancimus»152. Purtroppo il testo ci è tramandato senza quel prologo in cui i re erano soliti condensare le indicazioni relative al consensus omnium. Nel Pactum Sichardi, però, si precisa che la pace è stata raggiunta «nullo contradicente ex nostris civibus»153. Anche la Divisio è mutila del prologo, ma Erchemperto assicura che l’intesa è conclusa «presentibus omnibus Longobardis»154. Rispetto a questo schema, fanno riflettere le parole di Adelchi: si rammenta come in passato i re longobardi «legis decreta communi concilio sancirent» ma, quanto alle presenti disposizioni, sembra proprio che l’approvazione sia ridotta ad un affare per pochi. «Ideo communi habito eloquio, in hoc nostro beneventano palatio cum domino Adone, fratre nostro, venerabili episcopo, seu cum comitibus cæterisque nostris magnatibus (…) eadem capitula statuire sollicite curavimus»155. La stretta aristocratica può essere interpretata come una conseguenza della scissione con Salerno, che impone alla dinastia regnante strategie più accorte, ma non va esclusa del tutto un’acclamazione finale. Tuttavia il mancato riferimento è di per sé indicativo, perché in aperta discontinuità con una tradizione che aveva sempre precisato il rispetto della prassi costituzionale: il popolo in armi è assente o ridotto a comparsa.
65D’altronde, quanto di popolare vi è nelle leggi non dipende da un’anacronistica sovranità democratica ma dall’intima connessione tra diritto, storia e società; ed è per questo che, nel complesso, il principe ricopre un ruolo secondario nella produzione normativa. Se comparato con quello attuale, il panorama legislativo dell’Alto Medioevo risulta scarno; ma cadremmo in errore se pensassimo che ciò equivalga ad uno spazio giuridico vuoto. La libertà negativa, declinata in senso individuale, non appartiene a questa epoca. Dove manca lo Stato fioriscono le autonomie ed il pluralismo, quindi una giuridicità capillare che spesso sorge dal basso e trova le sue ragioni nei fatti156. Da un punto di vista logico, i mores hanno la priorità perché fotografano la fisiologia dei rapporti umani, mentre la lex si rende necessaria nei momenti critici. Su questo aspetto conviene soffermarsi.
66Sovente il nomoteta longobardo impone l’osservanza della legge; anche nei testi beneventani ricorrono espressioni come «secundum legem», «iuxta Edicti tenonem», «sicut in lege nostra sancitum est», «per legem» o l’avverbio «legaliter»157. Qualche volta, come abbiamo visto, la conformità alla disposizione è concettualmente distinta dal piano della giustizia, ma senza che ne risulti un conflitto: il comportamento prescritto sarà, dunque, sia legale che giusto158. Queste formule palesano il proposito dell’artefice: quando c’è, la legge deve essere applicata. La promulgazione non si riduce a un evento politico e tantomeno a un proclama ideologico; essa ambisce a risultati pratici. I documenti, peraltro, fugano ogni dubbio di effettività: giudici e notai conoscono l’Editto e lo applicano, anche se di solito non specificano la norma di riferimento159. Tutto ciò, ad ogni modo, non va risolto nel concetto odierno di legalità. Le formule suddette intendono richiamare l’attenzione su quanto «in hoc edictum legitur»160, confermando la vigenza di una disposizione più antica, ma non postulano un principio generale.
67Sin da subito, l’Editto annuncia la sua possibile incompletezza161. Liutprando riconosce l’esistenza di fonti ulteriori in base alle quali è lecito regolarsi. La legge scritta apporta maggiore certezza e, una volta intervenuta, non è ammesso giudicare contra legem; ma ciò non esclude ampi margini per una pronuncia præter legem162. Quando quest’ultima non si esprime, o quando essa stessa rimanda al giudice la propria determinazione, è possibile attenersi alla consuetudo o appellarsi all’arbitrium, purché esercitato æquo animo163. «Prospeximus in edicti corpore illa adiungere, unde antea erat incerta definitio, quoniam alii volebant per usum, alii per arbitrium iudicare. Sed melius nunc est, ut ille inponatur terminus», dichiara il Re legislatore164; ma ciò non significa convogliare tutto il diritto in un codice.
68Sottolineare l’importanza della consuetudine, però, non è sufficiente. L’Historia Langobardorum Codicis Gothani ci informa che prima di Rotari «per cadarfada et arbitrio seu ritus fierunt causationes»165. Il medesimo Liutprando riconosce di aver attinto, almeno in parte, alle cawarfidæ166. Seguendo il Glossario di Cava, si è tentati di tradurre questo vocabolo germanico con l’italiano ‘consuetudine’ e, magari, di ritenerlo un perfetto sinonimo di ritus167. Gran parte della storiografia si è accontentata di una simile interpretazione, senza approfondire meglio il termine nella sua etimologia e nel suo contesto. L’analisi linguistica suggerisce che cawarfida provenga dal suffisso *ga(con), dalla radice*werpan o *warpjan (gettare) e dal suffisso -ida (che forma un sostantivo astratto); analogo al latino con-tractus o al greco
69I due capitoli in cui fa capolino la parola – che del resto doveva già suonare come un tecnicismo antiquato – rivelano che il vocabolo non indica un generico usus ma si riferisce con più esattezza ad una prassi processuale171. Nelle pagine dell’Editto, invero, neanche consuetudo è termine molto frequente; quando compare, esprime senz’altro un orientamento emerso nell’attività giudiziaria172. Il precedente è tralatizio per definizione e, in questo, si distingue nettamente dalla valutazione arbitraria; nel contesto germanico, esso presuppone un’elaborazione collettiva data la forma pubblica e collegiale dei placiti173.
70Se così stanno le cose, buona parte del diritto longobardo ha avuto origine nel processo: dalla soluzione di casi concreti si è formata quella cawarfida che successivamente è diventata lex. E siccome la prassi è inesauribile giaché la società solleva problematiche sempre nuove, ci sarà anche un legislatore che prima o poi vorrà integrare l’Editto. Il principe, in fin dei conti, è sommo giudice e giudici sono definiti anche duchi e gastaldi174. Il loro compito consiste nel facere iustitiam, al di là delle forme in cui ciò si realizza. In un quadro dove la funzione giudiziaria ed il potere legislativo non sono rigidamente separati, l’assemblea riunita alle Calende di marzo sembra rispondere alle questioni più dibattute ai livelli inferiori o, magari, ampliare la portata di una soluzione appena assunta per un caso concreto. Sono numerosi i passi edittali in cui emerge lo stretto rapporto tra giurisdizione e legislazione: la prima sollecita la seconda, che a sua volta indirizza l’altra175. Questa dinamica si ripete nelle novelle beneventane. «Pervenit ad aures sublimitatis nostræ» esordisce Arechi nel porre un freno alle donazioni in frode al creditore176. «Hactenus adeo hæc patria crudelis limine perniciem perpetitur» esclama stigmatizzando la vendita dei suoi sudditi alle genti d’oltremare: «propterea presenti iudicio sententia damus»177. E sebbene questa non sia la trascrizione di una condanna – non potrebbe esserlo, dato lo stile e i contenuti delle notitiæ iudicati178 – è chiaro che il Principe non ha di fronte un’ipotesi astratta ma fatti precisi che scuotono la sua indignazione. Il cap. 4 è esemplificativo:
71Nonnulla flagitiorum veteres iurisperiti, dum fieri posse non crederent, decernere præcaventes, posteritati erronea relinquere vestigia. Ad nunc crevescentibus malis et fieri posse creduntur et, quod dictum nephas est, facta videntur. Actenus religiosorum homicidia (…) nullius conpositionis experta lex iudicali calculo claruit. Et si quondam forsitan contigisset, aut sub ostentu legalis neglegentiæ vel oblitæ rationis obmittebatur aut certe censorum opinatione aut illud, ut cuique libitum erant, decernebatur.
72Stimolato dall’emergenza, il principe colma la lacuna legislativa e fissa l’importo della composizione179. Si può dire che è proprio l’insorgere di una mala consuetudo – puntualmente verificata in giudizio e percepita come un’intollerabile novità – a rendere opportuna un’integrazione dell’Editto180. Talora è la legge stessa a determinare una distorsione: con l’inciso «sicut in lege nefas scriptum est», Arechi segnala l’esigenza di modificare un capitolo che finiva per disincentivare le donazioni pro anima ed alimentare le inimicizie181.
73La prassi giudiziaria, pertanto, è fonte del diritto sia in modo immediato sia in quanto stimolo all’aggiornamento dell’Editto; svolge, pertanto, una funzione dinamica nell’economia dell’ordinamento. Ma ad un livello profondo, al di là dell’occasionalità dei giudicati da cui origina, anch’essa riposa sulla consuetudine. È la durata che dà vigore a quest’ultima, rendendola affidabile: ed è per questo che le fonti medievali parlano di consuetudo prisca, antiqua o longa. Tale aggettivazione – ben presente nei capitolari italici182 – si ripresenta anche nei fœdera beneventani. Gli accordi tra Arechi e i Napoletani, trascritti senza soluzione di continuità nel codice di Cava, vengono rubricati Consuetudo Leburie et Pactum. Nel secondo, viene riaffermata la procedura per exfundare da una terra soggetta a tertia: «sicut antiqua fuit consuetudo»183. Nel Pactum Sichardi, peraltro mutilo di ben 31 capitoli, la consuetudo antiqua o prisca viene invocata sei volte. Quando si tratta di stabilire i tributi da imporre ai terziatori, il Principe tuona: «nulla alia nova imponatur»184. Nella Divisio, di fronte al desolante spettacolo dei monaci dispersi dopo il conflitto, se ne riordina il rientro al cenobio di provenienza «sicut ratio et consuetudo est»185. Evidentemente, quando si tratta di negoziare con un soggetto pariordinato, appellarsi all’uso inveterato ed anonimo appare il modo più efficace per corroborare la norma. C’è qualcosa di affettato in questo modo di esprimersi, ma la retorica non basta per spiegare una mentalità molto distante dalla nostra.
74Dai fatti consolidati o ripetuti sorge una regola che appare immutabile e, in fin dei conti, naturale186. Il tempo, fattore giuridico fondamentale, basta a comprovarne la bontà; la tradizione funge da elemento legittimante in una società come quella altomedievale187. Ciò non determina una totale cristallizzazione dei rapporti giuridici – la cui immutabilità integra piuttosto una credenza – ma indica che la consuetudine, fonte per eccellenza, è sottratta all’arbitrio del singolo, si afferma come diritto spontaneo capace di funzionare perché si è generata una diffusa convinzione di obbligatorietà. I giuristi romani avevano intravisto nella consuetudo un consenso generale tacito, ma questa definizione è già distorsiva: in effetti, non è la volontà a costituirla ma l’uso protratto. «Consuetudo autem ius est quoddam moribus institutum (…) Vocata autem consuetudo, quia in communi est usu», annota Isidoro188. La trasmissione di questo patrimonio giuridico avviene oralmente – magari sfruttando il ritmo della poesia o l’immaginario della saga – ma a determinarne i contenuti non è tanto la parola quanto il comportamento189.
75È vero che, nella storia dei longobardi, l’approvazione dell’Editto ha rappresentato una tappa nel passaggio dalla cultura orale a quella scritta, cartina di tornasole di una progressiva acculturazione in chiave romano-cristiana. Ma è anche vero che le testimonianze scritte filtrano ciò che descrivono e il filtro è la cultura dei vinti; la trasformazione è più lenta di quanto raccontano e lascia, nella società, residui tribali che resistono sottotraccia. Peraltro, Rotari aveva presentato la propria opera legislativa come semplice scritturazione di un diritto previgente, al quale aveva apportato le opportune correzioni; accanto a lui gli antiqui homines, depositari della memoria collettiva e della sua trasmissione orale190. Non stupisce, allora, che l’Editto si apra con una lunga genealogia e, talora, con l’Origo gentis Langobardorum: storia, mitologia e diritto compongono la tradizione che occorre preservare e che legittima la monarchia longobarda191. Il bisogno di riallacciarsi al passato riemerge con chiarezza nel prologo di Adelchi: anch’egli, mutatis mutandis, avverte l’urgenza di riaffermare i valori della stirpe. Appellandosi alla Storia – e dunque non recidendo il filo che la lega alla consuetudine – la legge funge da marcatore etnico e da potente mezzo di autorappresentazione.
76Si è sostenuto che ogni consuetudine, una volta scritta, finirebbe per snaturarsi cessando di essere Volksrecht; e che l’operazione di Rotari risulta contraddittoria in sé e controproducente nei risultati. È indubbio che, una volta fissato nel volumen, quel patrimonio giuridico che si vorrebbe difendere scende a patti con la lingua latina e subisce le influenze romano-canoniche. Ma non sembra condivisibile l’opinione per cui «una volta entrate (…) nel raggio della cultura scritta, le consuetudini orali vennero pietrificate, e private di quel continuo processo di trasformazione e adattamento, che era stato loro tipico fino a quel momento»192. L’esaurimento della consuetudine presupporrebbe una virata decisa verso la codificazione, con una netta discriminazione tra i due livelli. Ma non è questo l’esito cui perviene l’ordinamento longobardo, laddove invece la dialettica tra testo scritto e sviluppi pratici rimane costante193.
77Senz’altro, la cultura ecclesiastica prova a restringere lo spazio della consuetudo subordinandola alla lex e relegandola a una funzione integrativa194. Allo stesso tempo, però, essa diffonde una concezione sostanziale del diritto che svaluta i profili formali ed insiste sui requisiti contenutistici. Da un lato, si sottolinea la differenza «inter leges et jura: jus dicitur, lex scribitur» e «inter leges et mores: lex est scriptis edita, mos autem lex quædam vivendi, nullo vinculo astricta, sive lex non scripta, sed tantum usu retenta»: precisazioni che rimandano al nesso tra legge e scrittura195. Dall’altro, però, si ribadisce che le due fonti realizzano la medesima istanza («institutio æquitatis duplex est») e, pertanto, devono presentare le stesse caratteristiche materiali: «Inter legem autem et mores hoc interest, quod lex scripta est, mos vero vetustate probata consuetudo (…) nec differt scriptura an ratione consistat, quando et legem ratio conmendet»196. Ponendo l’accento sulla razionalità della consuetudine, questo discorso darà adito ad una certa diffidenza canonistica nei riguardi degli usi, giustificando il tentativo di subordinarne la vigenza ad una previa approvazione197. Ma l’insegnamento di Isidoro non si riduce a questo. Di fondo, si coglie la certezza che tutte le diverse specie del diritto umano «moribus constant» e che, pertanto, anche la legge dev’essere «secundum consuetudinem patriæ, loco temporique conveniens», dunque ben agganciata ai fatti198. La legge non è un comando ipostatizzato, ma vive nell’applicazione che se ne fa: nasce dall’uso e ivi ritorna. «La stessa applicazione ripetuta e costante della legge si presenta come consuetudine»199.
78Lungi dal chiudere il suo corso vitale con la promulgazione del testo scritto, la prassi continua ad operare silenziosamente, alimentando nuove leggi e modificando la portata delle vecchie. Nessuna gerarchia può essere delineata in un contesto come questo, pertanto è inutile attardarsi su dispute formaliste volte a stabilire il primato di una fonte sull’altra. A volerli cercare, troveremmo molti argomenti testuali in un senso o nell’altro, frutto di sensibilità diverse o del momento politico200. Ma ciò che importa – allo storico come anche all’uomo del Medioevo – non è edificare una fantomatica piramide delle fonti, quanto coglierne la natura e l’effettiva funzione ordinante. Da questo punto di vista, si può concludere che la legge riveste un posto d’onore mentre la consuetudine assume un ruolo pregnante; nonostante i continui rivolgimenti di potere, essa garantisce al diritto stabilità ed aderenza col dato sociale201.
79Alla luce di quanto detto si spiega l’endiadi lex et consuetudo, che appare anche nei documenti di area beneventana. Nella sua apparente illogicità, essa rivela la percezione unitaria di un fenomeno giuridico che è segno di appartenenza e va ben oltre l’imposizione coattiva. Nel 996, a Nocera, la vedova Daufa afferma di aver diritto alla «quartam partem in omne rebus et causa» di suo marito Landone «per meum scriptum morgincap mihi emissum secundum legem et consuetudinem Langobardorum»202. Nel 1007 i fratelli Giacinto e Risone, «per bona combenientia» opportunamente guadiata, si accordano con Pietro circa il matrimonio con l’orfana Imelata, nipote dei due ed ancora puella. Il giorno delle nozze, lo sposo le darà un «firmum scriptum morgincapb de quartam partem ex sua substantia, sicut lex et consuetudo est omini Langobardi dandum ad suam uxorem, et quieta bita cum ea bibere, et iniuste ei non facere»203. Altri esempi potrebbero essere addotti204.
80Spesso, nelle carte di Cava, compare perfino la lex et consuetudo Romanorum, segno di una personalità del diritto che tarda a eclissarsi205. Il diritto romano che vi scorre, pur collegandosi idealmente al sigillo di validità impresso dagli imperatori, si rivela volgarizzato ed epitomato da quelle maldestre collezioni private che salvano l’utile e tagliano ciò che appare fuori dal tempo. È un diritto sostanzialmente consuetudinario, benché si appoggi a regole tratte da Giustiniano e Teodosio (in tal caso, tramite la mediazione visigota)206. Ma nei ducati costieri, e ancor più nelle terre riconquistate dalla seconda metà del sec. IX, c’è terreno fertile per l’attecchimento della più recente legislazione bizantina, destinata a lasciare traccia207.
81Tracciare linee tra zone che adottano il ius Romanorum e zone ad osservanza longobarda sarebbe un tentativo fuorviante; si può individuare una qualche prevalenza ma entrambi i diritti – e non solo essi – si ritrovano ovunque. Del resto, la Chiesa ha adottato il diritto romano come fonte integrativa rispetto ai canoni: e questo spiega perché, nel placito di Castro d’Argento (1014), la controversia promossa dai cassinesi viene risolta combinando le novelle di Liutprando con l’Epitome Iuliani208. L’egemonia ottoniana, ad un certo punto, riesce perfino suscitare qualche interesse per quei capitolari italici che, in età carolingia, furono rigettati209. E, in effetti, il Mezzogiorno è un caleidoscopio giuridico dove tante tradizioni s’incrociano senza soffocarsi, ma contagiandosi reciprocamente210. Nell’Apulia riannessa all’Impero il diritto longobardo risulta ampiamente praticato211. La traduzione greca dell’Editto di Rotari è il sorprendente risultato di un confronto che, sottilmente, comincia a farsi contaminazione. Sarà facile trovare, nelle carte salernitane, persone che affermano di ricevere un launegild o di guadiare un accordo secundum lex et consuetudine Romanorum212. Perfino nei ducati di Napoli, Sorrento, Amalfi e Gaeta, immuni dall’egemonia politica dei longobardi, il loro diritto circola e lascia traccia nei documenti213. Lo stesso diritto pubblico si evolve secondo una prassi che mescola caratteri greci e latini214.
82Il fatto è che, indipendentemente da un’appartenenza talora rivendicata con puntiglio, si stanno formando anche nel Mezzogiorno delle consuetudini che travalicano l’appartenenza etnica e si contraddistinguono per una dimensione spaziale. La loro forza si radica nella corrispondenza a una realtà determinata, tanto che esse finiscono per prevalere sulle leggi di stirpe in caso di sovrapposizione. È un fenomeno caratteristico dei secc. X-XI, epoca di complessiva disgregazione, ma qualche spia si accende già nel tardo sec. VIII. A Benevento, se ne ha testimonianza nel processo che contrappone la diocesi al monastero di Santa Maria in Luogosano per il controllo della chiesa di San Felice. In favore del vescovo milita una formidabile ragione di diritto «quia et canones sic continere videntur quod ecclesia, que lavacrum baptismi edificatum habuerit, semper sub dominio episcopi subiacere debeat». La controparte non mostra timore reverenziale: ammette che il diritto della Chiesa gioca a suo sfavore ma obietta che lo status quo, per cui la chiesa soggetta al monastero già da tempo, «racionabiliter stare potest, quia semper principes et antistites, ponentes in oblivionem canones et edicta gentis nostre Langobardorum, semper usus huius nostre provincie sic est iudicaturi». Del resto, a voler prendere sul serio quei testi, si finirebbe per demolire numerosi monasteri. E qui la provocazione: prima di pretendere dagli altri il rispetto dei canoni, il presule beneventano provveda a regolarizzare la sua stessa posizione, dal momento che usurpa la sede sipontina sin dai tempi di San Barbato. L’osservazione coglie nel segno: il principe riconosce la prevalenza dell’usus provinciæ215.
83Sarebbe erroneo, però, confondere l’insorgere delle prassi locali con un moderno principio di territorialità. Anzitutto, perché questa dimensione spaziale non ha le sembianze di una circoscrizione statale. Quel morgincap che nell’882, a Salerno, è considerato «consuetudo gentis nostre langobardorum» nel 1025, a Lucera, è descritto come un istituto «secundum legem et consuetudinem terre istius»: siamo in terra bizantina e l’atto stesso è datato in base all’anno di regno di Basilio II216. In secondo luogo, perché la prassi può riferirsi ad ambiti di diversa grandezza: emergono così le consuetudines loci – nelle carte di Cava, già a partire dall’884217 – e col nuovo millennio le consuetudines civitatis (1033)218 ed il ritus regionis (1058)219. Nei centri portuali, che già conoscevano la tradizione del
84Ne scorgiamo una rifrazione in una charta del 1074. I coniugi Filippo e Balsama donano alla chiesa di San Nicola tutti gli immobili di loro proprietà in Capaccio «ea ratione ut proprietas omnium ipsarum rerum semper sit in potestate partium suprascripte ecclesie». I danti causa, però, ne riservano l’usufrutto a sé e ai figli maschi legittimi «et de ipso usufructu faciamus quod voluerimus, et nos et ipsi liberi nostri semper sub dominio et defensione partium suprascripte ecclesie permaneamus». In cambio di tanta liberalità, domandano protezione ad una chiesa di cui si dichiarano subordinati. Tale impegno, beninteso, non dovrà essere scambiato per servitù: «secundum consuetudinem istius terre liberi omines sub aliorum dominio et defensione manere et esse videntur». Ogni anno, per la festa di San Nicola, i coniugi verseranno alla chiesa un censo di quattro tarì222.
85Nel vortice delle consuetudini, si può sospettare che a cavallo del Millennio la legge sia divenuta lettera morta. Eppure, le indagini compiute sui giudicati di area salernitana e capuana mostrano esempi di puntuale applicazione dell’Editto223; la stessa prassi negoziale non manca di ricordare gli istituti più caratteristici del diritto longobardo. Anche in questo caso, perciò, la pretesa mancanza di effettività si rivela un colpo a vuoto. Se l’applicazione rigorosa può apparire intermittente, ciò non avviene per ignoranza o riluttanza, né tantomeno può ritenersi un difetto delle istituzioni: piuttosto, è la peculiare concezione del facere iustitiam a consentire al giudice di optare per la norma che meglio si attaglia alle specificità del caso o del posto, proprio affinché ognuno abbia il suo diritto. Nelle ipotesi di maggior contrasto tra disposizione formale e giustizia materiale ci si ricorderà che esistono due accezioni di giustizia, come aveva insegnato Isidoro: una che si realizza nel rispetto delle leggi umane e un’altra, più radicale, che si rinviene nella natura e prende il nome di equità. «Æquus autem est qui secundum naturam justus»224. È questa la chiave di volta dell’ordinamento, che consente di mitigare o inasprire, a seconda delle circostanze225. Senza contare la possibilità di venia226. È una giustizia flessibile, che d’altra parte consente agli stessi privati di chiudere le controversie tramite convenientia, persino per fatti di sangue227. Così, con forme nuove, si ripresenta l’antico ideale della Friede.
5. Identità, contaminazioni, persistenze
86Il tracollo dei tre principati, per certi versi inatteso fino a qualche decennio prima della conquista normanna, non determina una cesura netta. A Salerno, il trait d’union è rappresentato da Sichelgaita, figlia di Guaimario IV e moglie del Guiscardo. A Benevento, alla morte di Landolfo VI, il potere passa ai suoi fedeli Dacomario e Stefano, che reggono la città in nome del pontefice. La transizione avviene in modo pacifico; ciononostante, le aspirazioni autonomistiche della nobiltà longobarda condurranno alla rivolta di Anzone e all’effimera restaurazione del Principato (1099-1101). Dal 1091 al 1098 anche Capua aveva ristabilito sul trono un esponente della dinastia precedente, Landone IV228.
87La civiltà longobarda non si estingue all’improvviso e l’affermazione del nuovo regime non comporta la sostituzione del diritto vigente con quello franco usato dai vincitori. Nel 1178, Giovanni Bove e sua moglie Gemma vendono per fustem a Lanchie una terra nelle pertinenze di Monte Drago al prezzo di nove tarì amalfitani. Davanti al giudice ai contratti Guglielmo e al notaio Ieconia, Giovanni compare sia come comproprietario del fondo che come mundoaldo. Viene pattuita una pena di due regali aurei in capo agli alienanti in caso di successive contestazioni o turbative; l’intesa è garantita «per guadiam»229. Sono trascorsi poco più di cent’anni dalla fine del Principato, ma nei pressi di Benevento si adoperano ancora gli istituti tipici della tradizione germanica. Col mundium, un protettore di sesso maschile è chiamato a confermare la volontà negoziale della donna, la cui capacità di agire è limitata (ma l’evoluzione consuetudinaria tende ad alleviare il giogo). La consegna di una bacchetta rappresenta simbolicamente la traditio del bene: tramite investitura, si realizza l’effetto traslativo. Per secoli, insieme alla wadia e al morgencap, queste figure privatistiche resteranno il legato più cospicuo dell’esperienza longobarda230.
88Tali sopravvivenze non meravigliano: da uomini del Medioevo, i normanni non pretendono di fare tabula rasa. Soldati ed avventurieri, si sarebbero posti il cruccio di una legislazione generale solo a partire dalle Assise del 1140; ed anche in quella circostanza, «pro varietate populorum nostro regno subiectorum» avrebbero confermato le consuetudini compatibili231. La soluzione risulta coerente con una consolidata politica di accomodamento: nel 1132 la città di Bari si arrende a Ruggero II che, in cambio, assicura il mantenimento delle consuetudini locali. Benché le carte le richiamino sin dal 1012, per una redazione scritta bisognerà attendere le ricognizioni dei giudici Andrea e Sparano (1180-1200). Prive di riconoscimento ufficiale, esse rivelano uno straordinario intreccio tra diritto longobardo – ma non carolingio – ed elementi romano-bizantini232. Anche a Salerno si verifica qualcosa di analogo: le prassi assumono forma scritta nel 1251, in quella raccolta che proclama la loro superiorità rispetto alla legge: «Si leges sanctæ fuerunt, erunt per semper, bone tamen consuetudines sunt sanctiores, et quoniam ubi consuetudines loquuntur tacere debent leges tote»233. A Benevento gli usus non verranno messi per iscritto ma ne resta traccia in alcune glosse che mostrano soluzioni originali234; soprattutto, il breve ma precoce Statuto redatto nel 1203 ed approvato da Gregorio IX nel 1230 rimanda ampiamente ad essi e alla legge longobarda: «Primum capitulum est ut secundum consuetudines approbatas et legem longobardam et eis deficientibus secundum legem romanam iudicetur et nullus civis sine cause cognitione gravetur»235.
89Chiaramente, le consuetudini registrate nel Duecento hanno alle spalle una storia che si perde nel tempo. Accanto alla sedimentazione delle prassi, peraltro, il secolo precedente aveva conosciuto l’emersione di un fenomeno nuovo. A Benevento – ma in misura ridotta anche a Capua e Salerno – un ceto di iudices comincia a mostrare un approccio problematico fino ad allora sconosciuto nel Mezzogiorno; nonostante la penuria di informazioni, ci è giunta l’eco di un dibattito che pur non essendo ‘scientifico’ rivela una crescente vivacità intellettuale. Si tratta, indubbiamente, di pratici gravitanti intorno ai tribunali; nell’antica capitale, i dodici giudici vitalizi del Sacro Palazzo si tramandano un sapere professionale che ne fa dei tecnici e, al contempo, degli esponenti di primo piano nella politica cittadina. Competenti sia nel civile che nel criminale, svolgono un ruolo chiave nei rogiti e come advocati di monasteri. Le loro memorie si riallacciano alla nobiltà longobarda, che si ripropone al potere come élite di magistrati: benché l’ufficio non sia ereditario, padri e figli si avvicendano nel collegio. Dall’antica stirpe dei Sadutti, già attestata nel sec. IX, provengono sei giudici tra i quali spiccherà quel figlio di Cantuberio che insegnerà ius civile a Napoli. Sono ben sette i Collevaccino che mostrano una qualche competenza giuridica; ai tempi di Innocenzo III, Pietro sarà l’autore della Compilatio III236. Più indietro nel tempo, il nome di Persico, padre di un omonimo canonista, ricorre nel Chronicon del giudice Falcone intorno agli anni ’40 del sec. XII ed è associato ad alcune glosse alla Lombarda di Breslavia. Ed è proprio questa attività esplicativa che ha suggerito l’esistenza di una scuola giuridica annessa al Palazzo, finalizzata alla preparazione dei pratici che lo avrebbero frequentato237. Altre notizie sul magistero di Carlo di Tocco e di suo padre sembrano confermare una possibilità che resta tuttavia avvolta nella nebbia e che, comunque, non prefigura l’esistenza di un centro culturale assimilabile ad uno studium generale238.
90Come abbiamo visto, i frutti più notevoli della riflessione pavese erano penetrati nel Meridione già nei primi decenni del sec. XII; e quei frutti maturi del diritto longobardo tradivano un certo retrogusto romanista239. Agli inizi del Duecento, mentre gli studi longobardistici del Settentrione esauriscono la propria vitalità, a Sud comincia una fase di particolare effervescenza e di approfondimento dotto. Tra il 1208 ed il 1215, la composizione della summa di Carlo alla Lombarda è spia di una serie di fenomeni. Anzitutto, l’interesse verso un ordinamento datato ma non certo obsoleto. In secondo luogo, la definitiva sostituzione dell’ordine cronologico del Liber Papiense (ancora riflesso all’alba del Millennio nel Codex Cavense) con lo schema sistematico della Lombarda, che assurge a testo di riferimento per le leggi. Ciò comporta l’oblio delle novelle di Arechi e Adelchi. Da ultimo, il ruolo della formazione bolognese di Carlo, che in Emilia era salito anche in cattedra. È solo dopo questa esperienza che il Giurista, tornato in patria, redige l’apparato longobardistico mettendo a frutto ciò che ha appreso in un contesto scientificamente all’avanguardia; insieme all’opinione dei giudici beneventani, capuani e salernitani e a tante controversie adespote, il Dottore ricorda spesso il nome dei legisti bolognesi240. In quegli anni, le carte di Santa Maria della Grotta attestano la sua presenza come magister e iudex. Benché incompiuta, l’opera – praticamente ignota ai giuristi settentrionali – s’impone come autorità indiscussa nella giurisprudenza regnicola; a partire da metà Trecento verrà considerata come glossa ordinaria alla Lombarda241.
91La tradizione longobarda si manifesta anche nella Summula de pugna composta da un discepolo ‘felsineo’ di Carlo, Roffredo Epifani, il quale evidenzia come in pieno Rinascimento giuridico il duello giudiziario conservasse una sorprendente attualità. Totalmente estraneo al diritto romano – ed ancor più inconcepibile dopo la recente condanna delle ordalie del Lateranense IV – l’istituto trova corrispondenza in qualche articolo dell’Editto ma, nel dettaglio, è precisato dalla consuetudine242. L’Autore, membro di un prestigioso casato beneventano, dopo una parentesi accademica tra Bologna ed Arezzo torna in patria, dove ottiene da Onorio III la nomina a giudice cittadino (1218) e da Federico II l’incarico di insegnare nel neonato studio partenopeo. Nel 1230 Roffridus Epiphanii civilis scientiæ professor figura tra i firmatari dello Statuto civico approvato da Gregorio IX243.
92La fondazione dello studio napoletano (1224) e la promulgazione del Liber Augustalis (1231) segnano, comunque, un passaggio epocale: nel Regnum Siciliæ sorge una dottrina che, ragionando secondo le categorie del ius commune, non disdegna l’esegesi dell’imponente legislazione federiciana. Da questo momento, i giuristi più raffinati fanno a gara nell’esecrare la tradizione longobarda: ius asininum secondo Andrea da Isernia, non lex sed fæx per Luca da Penne. Sennonché tanta acrimonia si spiega solo perché quelle norme così rozze da sembrare bestiali sono ancora praticate dietro l’angolo. Lo stesso Andrea riconosce che buona parte dei salernitani continua ad osservarle.
93Oltretutto il Liber le conserva come fonti sussidiarie, parificandole espressamente al diritto romano in quanto ius commune244. Sul significato esatto della cost. Puritatem si sono accaniti già gli interpreti medievali e la questione è stata riproposta nella storiografia giuridica: ci si è scandalizzati rispetto all’illogicità di un duplice diritto comune, ci si è chiesti se ciò adombrasse un principio di personalità o se il regno andasse diviso in due zone d’influenza, si è rovesciato il piano suggerendo che la scelta del regime dipendesse dalla cosa in oggetto, infine si è fatto notare che la famigerata formula è frutto di interpolazione245. Non di rado, questo dibattito sottile è stato condizionato da una prospettiva dogmatica o dall’argumentum ex silentio; ancora oggi siamo lontani da risposte sicure. Forse, qualche ulteriore spunto potrebbe sorgere chiarendo il rapporto tra la Puritatem ed il primo capitolo dello Statuto beneventano – le due norme stabiliscono un ordine delle fonti un po’ diverso, ma l’assonanza verbale è troppo evidente per non suggerire una filiazione – tenendo presente che questo precede l’altra e che dal 1241 al 1266 la città pontificia cade sotto il controllo svevo. Il dato politico, incrociato con la storia esterna delle Costituzioni, può riservare qualche sorpresa: e non è detto che l’inserzione della formula controversa non sia figlia della contingenza ed espressione di mero pragmatismo. Sulla vicenda aleggia, comunque, l’ombra di un personaggio ingombrante come Roffredo, che negli ultimi anni della sua vita sembrerebbe dimorare nella Benevento federiciana.
94Ad ogni modo, gli stessi esegeti medievali si accorgono che il Liber Augustalis non si limita né a riproporre le Assise né ad adattare Giustiniano; a ben cercare, vi si scovano diversi istituti del passato bizantino e longobardo246. Longobarde, ad esempio, vengono considerate l’estromissione della figlia dotata dalla successione paterna e la vendetta del marito in caso di adulterio247. Anche per questo, nemmeno i dottori possono distogliere l’attenzione dal diritto longobardo. C’è poi una ragione pratica: Andrea Bonello ricorda il caso di quell’ottimo legista sconfitto da un advocatellus. Le copiose allegazioni romaniste erano state annichilite dalla Lombarda che l’oscuro causidico teneva nascosta sotto la cappa, con immane vergogna dell’insigne collega. Se in forza di una «inveteratam consuetudinem (…) que est optima Legum interpres»ci sono casi nei quali il diritto romano soccombe a quello longobardo, il giurista regnicolo non potrà ignorarne il contenuto. Basterà tuttavia rammentare le principali divergenze schematizzate nei suoi In leges Langobardorum opulentissima commentaria: «facile erit cuilibet advocato iuris longobardorum insidias evitare: et quasi superfluum erit in iure langobardorum studere»248.
95Andrea proviene da quella Terra di Bari dove le radici longobarde son penetrate in profondità e che ancora nel Cinquecento guarderà con interesse alla stampa del materiale longobardistico e consuetudinario249. All’entroterra sannita appartiene Biagio Paccone, che tra il 1323 ed il 1333 compone il Tractatus de differentiis inter ius Langobardorum et ius Romanorum. Lo scritto esamina in modo minuzioso i contrasti tra i due iura communia seguendo lo schema della Lombarda e soffermandosi in particolare su prove, matrimonio, donazioni, ultime volontà, debiti e mundio. Il giurista di Morcone maneggia con disinvoltura le leggi regie, il diritto feudale, le consuetudini municipali ed in particolare quella di Benevento; da prevosto di Atina, mostra una certa conoscenza del diritto canonico. Ne risulta una vasta rappresentazione del diritto praticato ma anche una certa insistenza su elementi longobardistici ormai desueti250.
96L’incedere della Modernità porta con sé un incremento della legislazione statale che confligge con la sopravvivenza del pluralismo giuridico. Più che abrogare l’eredità del Medioevo, la si soffoca sotto una coltre di prammatiche che puntano all’uniformità251. È un altro pugliese a pubblicare quello che sembra l’ultimo trattato longobardistico, significativamente titolato In reliquias iuris Longobardi proloquium (1609). Cinque anni dopo, lo stesso autore dà alle stampe un Tractatus de iure prothomiseos sive congrui nel quale analizza un istituto di derivazione bizantina. La documentazione notarile potrebbe offrire lo spaccato di una prassi che resiste al livellamento; di certo, negli statuti municipali si può rintracciare qualche residuo longobardistico fin dentro il Settecento252. Ma, a questo punto, esso viene adoperato soprattutto per disciplinare il regime di certi feudi che si volevano costituiti in età longobarda; nel Mezzogiorno, la singolare compresenza di benefici iure Langobardorum e di benefici iure Francorum dà l’abbrivio a una rovente polemica sull’origine del sistema feudale, inevitabilmente distorta dagli interessi politici sottesi253. Le novità napoleoniche, spazzando via l’ordinamento feudale così come il Liber Augustalis e il suo pluralismo delle fonti, consegnerà l’eredità medievale alle cure dello storico.