journal Articles

Stefania Gialdroni

(Hi)stories of Roman Law. Cesare Maccari’s frescoes in the Aula Massima of the Italian Supreme Court

1. Premessa.

1La volontà di lasciare traccia di sé all’indomani della propria dipartita può considerarsi aspirazione abbastanza tipica della condizione umana, che molte civiltà hanno saputo declinare secondo le modalità più adeguate ai tempi nei quali hanno avuto la sorte di svilupparsi1. L’esperienza giuridica romana, in proposito, ha conosciuto, nelle fasi più risalenti (e documentate in modo scarno), momenti nei quali la stretta compenetrazione tra ius e fas si riverberava intensamente sul contenuto degli atti di trasmissione mortis causa2. In particolare, sotto questo profilo e all’interno di ben note ricostruzioni dottrinali, l’essenzialità della perpetuazione dei sacra privata o il carattere sovrano del pater nella scelta dell’heres, costituiscono elementi che, oltre ad a ben proiettare l’organismo familiare, con tutte le sue peculiarità3, nella comunità romana delle origini, riferiscono con certezza di una dimensione e di un rilievo della patrimonialità meno spiccati, rispetto ai negozi successorii delle età successive4.

2L’avvento e, poi, la piena affermazione del negozio librale per le statuzioni di ultima volontà, prima nella forma della familiae mancipatio ed in seguito del testamentum per aes et libram5, rappresentarono un fattore primario per il mutamento delle prospettive e degli atteggiamenti dei disponenti (senza che si perdesse però la forte connotazione religiosa6), che sicuramente veicolarono l’opportunità di un ruolo più cospicuo per la voluntas del de cuius, via via aduso a redigere tabulae poi sigillate, e ad una partecipazione all’atto solo dicis gratia del familiae emptor7. In siffatti contesti, la rilevanza dell’attività interpretativa della giurisprudenza, pontificale prima8 e quindi laica9, sia per le attribuzioni successorie in universum ius, sia in singulas res, fu, come noto, enorme, attraverso responsa predisposti nel vivo di situazioni processuali per la regolazione degli assetti dei privati coinvolti, che ad un certo momento cominciarono ad implicare scelte di tipo definitorio e classificatorio10. Le brevi riflessioni che seguiranno, facendo perno sulla rilevanza giurisprudenziale testé richiamata, saranno allora volte ad estrarre e segnalare qualche spunto investigativo a proposito di legati e fedecommessi, fino all’età della loro ‘fusione’ per opera di Giustiniano11, con il conforto (ed il confronto) dei frutti dell’attuale dibattito.

2. Diritto privato e contesto socio-economico in mutamento.

3I lasciti che, in modo generalizzante, potrebbero essere chiamati di ‘tipo alimentare’12 hanno per tempo cominciato a costituire una caratteristica diffusa nella pratica testamentaria romana, segno del vincolo profondo della concezione domestica e comunitaria del tipo di famiglia che, pure, andava rinnovandosi nella media e tarda età repubblicana13. Nel suo ambito, infatti, si era via via imposto come momento fondativo il matrimonio cd. sine manu, per il cui tramite la uxor, che conservava i diritti successorii della familia di origine, perdeva il diritto di succedere ex lege all’interno di quella nuova. L’affacciarsi dell’usufrutto, è tradizionalmente collegato a questa specifica circostanza14 e temporalmente praticato con frequenza già a metà del II sec.15, attraverso la comune attribuzione di legato16. G. Crifò, a questo proposito, e all’interno di un ragionamento più ampio sui sovvertimenti socio-economici fra III e II sec. a.C., ha affermato: «si potrà anche contestare l’opinione corrente, secondo la quale l’usufrutto sarebbe sorto proprio per sovvenire alle necessita della vedova non conventa in manu, assicurandole alimenti e mantenimento. Ma è certo, in ogni caso, che questa è la funzione totalmente assunta dal legato di usufrutto fatto alla vedova17». Diverso, chiaramente poi, sarebbe un discorso sulla ‘consistenza’ di questi tipi di lasciti se potessimo avere certezza dell’estensione media dei praedia concessi per legato al regime dell’uti frui e in quanto il ricordo, affidato alla tradizione sui fondi normalmente ricompresi tra i due e i sette iugeri, sia stato autorevolmente considerato solo «un luogo comune» sul quale non fare eccessivo assegnamento18.

4Peraltro, che una parte assai rilevante della storia dell’economia romana di quel periodo poggi le sue basi documentarie, ed in effetti si lasci indagare, grazie ai tre notissimi ‘manuali di scienza agraria’ composti tra gli ultimi due secoli della repubblica ed il primo del principato è un fatto che trova già il suo riscontro in tentativi piuttosto lontani del tempo19. Le opere specifiche di Catone, di Varrone e di Columella, con tutte le loro peculiarità20, offrono al lettore l’immagine della graduale ma decisa trasformazione del modello di scala della villa21. In proposito può essere interessante ricordare quanto a suo tempo notato da C. Nicolet sul diverso ‘tipo antropologico’ di civis che esse sottendano ed abbiano, nella realtà storica, incarnato22.

5Secondo gli ideali repubblicani, come è noto, la ricchezza accumulata con il commercio non era ben vista e agli occhi dell’opinione pubblica riceveva sicuramente una valutazione negativa23. Esisteva cioè un pensiero dominante in base al quale tutte le occupazioni che mirassero al puro lucro fossero di per sé disdicevoli. Di conseguenza era radicata nella società una vera e conformistica esaltazione della proprietà fondiaria e dell’attività agricola come propria del cittadino romano, ben riassunta nell’esordio del liber de agri cultura catoniano24.

6La famiglia, del resto, cellula base della società, risentiva, a livello strutturale, del suo marcato carattere patriarcale25, dettato, con tutta verisimiglianza, dalla diretta dipendenza della comunità del tempo dall’asse portante dell’economia dell’alta antichità: il settore primario26. La stretta correlazione dell’organizzazione agnatizia – se non anche l’identificazione stessa – con le tipiche unità rurali di sfruttamento della terra costituirà sempre, anche quando, già nell’ultima parte dell’età preclassica, il tessuto familiare non era più costituito dalla tipologia delle origini, come uno specchio nel quale si rifletteva e si confrontava l’immagine ideale della familia romana27.

7Il diritto privato dell’età repubblicana, ovviamente, segue dappresso tale parabola in ogni suo specifico campo28, inserito nel pieno delle tormentate vicende politiche che subito – e non casualmente – tennero dietro alla definitiva affermazione di Roma sul Mediterraneo29. Il consolidamento delle forme testamentarie, il tramonto della familia communi iure, il distacco della conventio in manum dalla prassi matrimoniale, la stabilizzazione degli istituti connessi alla titolarità e alla disponibilità dei beni, l’affinamento degli iura praediorum, una classificazione degli strumenti negozialidovettero costituire, nell’attività di ‘fondazione del diritto civile’ che fu della celebre triade30, l’oggetto (e il banco di prova) dell’interpretatio giuridica infine maturata nell’opera di Quinto Mucio che, per primo, nei sui XVIII libri iuris civilis, diede assetto al diritto, sistemandolo per generi31.

3. Il legatum penoris nell’interpretazione della giurisprudenza.

8Il legato di scorta alimentare (o di vettovaglie32) fu una delle caratteristiche forme di lascito testamentario in uso tra i Romani33. Le ‘polemiche’ sorte intorno al contenuto concreto o potenziale della penus interessarono già i giureconsulti più autorevoli dell’ultimo secolo della repubblica, senza, peraltro, arrestarsi lì. L’argomento era talmente sentito, malgrado ai nostri occhi possa sembrare di limitata importanza34, che echi di tali controversie, filtrati da più generazioni appartenenti al ceto giurisprudenziale dell’età del principato, si possono rinvenire nelle opere di eruditi, grammatici o antiquari35. La definizione circostanziata e stratificata di penus ha costituito anche un modo, per R.P. Saller36, di rinviare al senso più vero della familia così come era ancora possibile concepire nella visione aristocratica del primo scorcio del I secolo a.C., un insieme di personae, res cementate dal saldo collante della religio e guidato dal paterfamilias37. Che la penus38, in origine uno spazio più interno dell’abitazione riservato alle provviste,fosse etimologicamente collegata ai Penati39, le divinità tutelari della casa venerate nel medesimo ed intimo ambiente, era un fatto al quale gli antichi credevano fermamente (seppur con sfumature diverse in relazione a problemi di carattere filologico40, come suggeriscono ancora le definizioni di Cicerone41 e di Festo42), onde il forte coinvolgimento sacrale del concetto discusso in dottrina43. Quanto all’aspetto prettamente attinente al diritto privato, appare importante far riferimento ad una celebre vicenda (ora anche ricostruita nella nuova palingenesi dei libri iuris civilis di Quinto Mucio44):

9Gell., Noct. Att. 4.1.17. Nam Quintum Scaevolam ad demonstrandam penum his verbis usum audio: “Penus est” – inquit – “quod esculentum aut posculentum est, quod ipsius patrisfamilias <aut matris familias> aut liberum patrisfamilias <aut familiae> eius, quae circum euos aut liberos eius est et opus non facit, causa paratum est” <Sed improbasse haec Servium Sulpicium, qui: “At non omne”, inquit, quod esus potusque causa paratum est,> ut Mucius ait, “penus” videri debet. Nam quae ad edendum bibendumque in dies singulos prandii aut cenae causa parantur, “penus” non sunt; sed ea potius, quae huiusce generis longae usionis gratia contrahuntur et reconduntur, ex eo, quod non in promptu est, sed intus et penitus habeatur, “penus” dicta est”.45
10Ulp. 22 ad Sab. D.33.9.3 pr. Qui penum legat quid legato complectatur, videamus. Et Quintus Mucius scribit libro secundo iuris civilis penu legata contineri, quae esui potuique sunt. Idem Sabinus libris ad Vitellium scribit: quae harum, inquit, patris familiae uxoris liberorumve eius vel familiae, quae circa eos esse solet, item iumentorum, quae dominici usus causa parata sunt. 1. Sed Aristo notat etiam quae esui potuique non sunt contineri legato, ut puta ea, in quibus esse solemus, oleum forte, garum muriam mel ceteraque his similia. 2. Plane, inquit, si penus esculenta legetur, Labeo libro nono posteriorum scribit nihil eorum cedere, quia non haec esse, sed per ea solemus. Trebatius in melle contra scribit, merito, quia mel esse solemus. Sed Proculus omnia haec contineri recte scribit, nisi contraria mens testatoris appareat. 3. Esculenta, utrum ea quae esse, an et ea per quae esse solemus, legaverit? Et ea quoque legato contineri credendum, nisi contraria mens patris familias doceatur. Mella certe semper esculentae penui cedere, lacertas quoque cum muria sua contineri nec Labeo negavit. 4. Poculenta penu ea, quae vini loco pater familias habuit, continebuntur, supra scripta vero non continebuntur. 5. Penori acetum quoque cedere nemo dubitat, nisi exstinguendi ignis causa fuit paratum: tunc enim esui potuique non fuit: et ita Ofilius libro sexto decimo actionum scribit. 6. Sed quod diximus “usus sui gratia paratum” accipiendum erit et amicorum eius et clientium et universorum, quos circa se habet, non etiam eius familiae, quam neque circa se neque circa suos habet: puta si qui sunt in villis deputati. Quos Quintus Mucius sic definiebat, ut eorum cibaria contineri putet, qui opus non facerent: sed materiam praebuit Servio notandi, ut textorum et textricum cibaria diceret contineri: sed Mucius eos voluit significare, qui circa patrem familias sunt. 7. Simili modo et iumentorum cibaria penui continentur, sed eorum iumentorum, quae usibus ipsius et amicorum deserviunt: ceterum si qua iumenta agris deserviebant vel locabantur, legato non cedere cibaria eorum. 8. Sive autem frumentum sive quid leguminis in cella penuaria habuit, penori legato continebitur, sed et hordeum sive familiae sive iumentorum gratia: et Ofilius scribit libro sexto decimo actionum. 9. Ligna et carbones ceteraque, per quae penus conficeretur, an penori legato contineantur, quaeritur. Et Quintus Mucius et Ofilius negaverunt: non magis quam molae, inquiunt, continentur. Idem et tus et ceras contineri negaverunt. Sed Rutilius et ligna et carbones, quae non vendendi causa parata sunt, contineri ait. Sextus autem Caecilius etiam tus et cereos in domesticum usum paratos contineri legato scribit. 10. Servius apud Melam et unguentum et chartas epistulares penoris esse scribit et est verius haec omnia, odores quoque contineri: sed et chartas ad ratiunculam vel ad logarium paratas contineri. 11. Vasa quoque penuaria quin contineantur, nulla dubitatio est. Aristo autem scribit dolia non contineri, et est verum secundum illam distinctionem, quam supra in vino fecimus. Nec frumenti nec leguminum thecae (arculae forte vel sportae) vel si qua alia sunt, quae horrei penuarii vel cellae penuariae instruendae gratia habentur, non continebuntur, sed ea sola continentur, sine quibus penus haberi non recte potest.

11Il lungo (e studiatissimo46) brano di Ulpiano ci dà un’idea del dibattito giuridico su punti specifici e sulla fecondità del cd. ius controversum nei processi elaborativi del diritto a Roma47. Interessante, ai nostri fini, è il rilievo che assume nel brano il ruolo di Quinto Mucio48, anche grazie al passo delle Notti Attiche49 che ne conferma l’intervento nella risalente disputa50.

12Il legato di penus, come sembra verisimile, andò perdendo via via d’importanza dopo l’inizio del principato, senza tuttavia scomparire dalla prassi degli usi testamentarii dei privati e, quindi, dall’orizzonte degli interessi dei giuristi successivi. Ciò che qui rileva è la ‘funzione’ di natura orientativa e definitoria che l’opinione di Quinto Mucio svolge nella trama di Ulpiano e che può essere colta, del pari, nel brano gelliano. Dal suo punto di vista, lo iato discretivo nell’interpretazione ha chiaramente il proprio fulcro nella edibilità e potabilità dei generi conservati nella dispensa (ad uso delle persone di famiglia e degli animali): quae esui potuique sunt (o, nella versione delle Notti attiche, quod esculentum aut posculentum est). Ciò accade, a parte che nel contributo di Aulo Gellio, anche per gli altri giuristi citati da Ulpiano, ove la ratio delle snetentiae muciane appare ispirata alla semplicità familiare e al nesso funzionale tra cibi e bevande e loro conservazione per le esigenze di vita (e che avrebbe conquistato, un secolo dopo, i favori di Sabino). Tenendo poi conto dello spirito polemico con il quale il rivale, Servio Sulpicio, aveva scritto i Reprehensa capita51, può non stupire che egli, nella sua esegesi estensiva, ampliasse ad altri beni l’appartenenza alla penus (aderendo al più risalente insegnamento eliano) aggiungendovi anche incenso, candele, unguenti o carte d’uso casalingo, in virtù della loro semplice consumabilità in ambito domestico52. Una logica, quella seviana relativa agli apparati di preparazione dei cibi, che non sarebbe stata accolta da Aulo Ofilio, pure suo allievo, e che tuttavia pare fosse stata già stata seguita da Rutilio Rufo53. La scelta ulpianea (e dei commissari giustinianei) di ‘aprire’ l’esposizione in tema di legatum penoris con il parere di Quinto Mucio non è quindi dettata da un criterio cronologico, che sarebbe contraddetto dai riferimenti a Sesto Elio54 e a Rutilio55: sembra invece dipendere dalla capacità di indirizzare le opinioni e di essere, in un modo o nell’altro, polo attrattivo imprescindibile per le opzioni ermeneutiche, anche eventualmente contrarie, di Servio, Ofilio, Trebazio Testa, Aristone, Labeone, Sabino, Proculo56.

13Al di là della linea effettivamente prevalsa e delle trasformazioni della società cui il diritto, in qualche modo, seppe dare risposte successive anche in tema di provvista alimentare domestica57, ciò che preme aver evidenziato è come i dati che si possono trarre dal giudizio muciano sulla penus corrispondano pienamente alle più generali caratteristiche della produzione scientifica dell’autore (e, in qualche modo, alla sua caratura intellettuale). «Tipo ideale del giureconsulto» per contemporanei e posteri58, per l’applicazione del metodo diairetico alle forme letterarie della produzione giuridica fu considerato «fondatore della giurisprudenza romana nel senso vero del termine59»; nel contenuto dei suoi responsi, improntati all’essenzialità e confortati dalla profonda conoscenza del diritto, pure, non rischiò di restare «prigioniero della tradizione civilistica piu antica60». A Quinto Mucio si può a volte riconoscere (come nel caso in questione o nella celebre viccenda della causa Curiana61) una certa inclinazione all’impiego di strumenti logico argomentativi di tipo restrittivo62, senza che però tale tendenza possa essere generalizzata e costituire il necessario corollario della sobrietà, del rispetto degli antichi mores, della sua proverbiale «severità»63, come si può apprezzare nella costruzione di finissime soluzioni arrivate fino a noi64. Del resto, evidenze archeologiche molto recenti offrono, forse, l’occasione di considerazioni non del tutto estranee al contesto qui riferito.

14Infatti, la scoperta dei resti di una villa presso il ‘Cavalcavia di Salone’, a Roma, ha permesso a F. Costabile65, anche con l’ausilio di opportuni contributi di natura tecnica, di mettere a frutto i dati iconografici provenienti dall’abitazione (e in particolare dagli affreschi parietali), e di legare con buona sicurezza alla famiglia dei Mucii Scevolae la proprietà dell’antico edificio66.

15Se quindi il risultato più eclatante – si può dire – è stato quello di poter cogliere il momento della concezione della formula con intentio incerta, nel delicato passaggio tra agere per certa verba e concepta verba, e l’ascrizione della sua paternità ad uno degli illustri iurisperiti avi del ns. Quinto Mucio67, non meno interessante è il richiamo al ricostruito memorandum sumptuarium.

16A questo proposito, la morigeratezza di Q. Mucio, fatto notorio anche a partire dalle limitate dimensioni della residenza68, avrebbe trovato celebrazione in una piccola lista della spesa esposta ad imperitura memoria del rispetto della lex Fannia cibaria da parte del padrone di casa (e, a stare alla testimonianza di Ateneo di Naucrati, di altri due giureconsulti69). È possibile aggiungere altro alla proposta acutamente formulata dal Costabile? È possibile immaginare che le annotazioni, ora pazientemente restaurate e leggibili, relative a cutis, offulae, holera, ciceres, sollae, triticum, vinus, triticum (di scorza, di legumi, di focacce, di verdure e, soprattutto per la loro quantità, di vino e grano70) alludessero, per il visitatore della casa più colto ed accorto – una condizione verisimilmente ordinaria per il frequentatore abituale71 – magari anche a quella nozione di ‘provvista’ cui l’antico pontefice massimo si era dedicato in un passo tra i primi dei suoi libri iuris civilis? Le pitture risalgono infatti, come è stato provato, ad un periodo compreso tra i 20 e i 40 anni dalla morte violenta di Quinto Mucio, avvenuta in vestibulo aedis Vestae72. La loro funzione commemorativa delle glorie culturali della famiglia avrebbe potuto risultare elegantemente esaltata dall’esibizione di un habitus di vita – si può credere, condiviso dal committente – in cui la pristina simplicitas era evocata anche in virtù degli acquisti di derrate alimentari che andavano a costituire la normale penus un tempo equilibratamente definita.

4. La concorrenza con altri tipi di legato e l’avvento dei fideicommissa.

17Il ricorso al legatum penoris, per quanto abbia attirato l’attenzione proficua della giurisprudenza romana, dovette subire un declino nella prassi dei privati se, come è stato nuovamente e di recente fatto notare73, presenta un numero di ocorrenze, in rapporto agli altri lasciti con finalità assimilabili (quali fedecommessi e legati ‘alimentari’ analoghi), statisticamente minore nei testi a nostra disposizione74.

18A tal proposito, andrebbe notato che proprio l’agilità del fedecommesso, se si deve credere ad un racconto famoso, avrebbe in definitiva iniziato a diffondersi proprio dalla cella penaria della repubblica75. Si indica infatti comunemente quale possibile antesignano del fedecommesso l’esplicito collegamento che Cicerone fa, in materia di diritto successorio, alla richiesta di solenni giuramenti richiesti da P. Trebonio ai suoi eredi, all’epoca della pretura di Verre, per aggirare la lex Cornelia de proscriptione e consentire al fratello Aulo, che ne avrebbe altrimenti dovuto patire gli effetti, di ricevere una pars di quanto lasciato76. Oppure, sempre quale versione prototipica del lascito fedecommissario, si rammenta il caso di Sestilio Rufo e della sua preghiera, rivolta nel testamento all’amico Q. Fadio Gallo, di restituire omnis hereditas a sua figlia Fadia, contro i rigori della lex Voconia77.

19Tali brani, insieme ad altri perfettamente noti in dottrina78, offrono sicuramente spunti interessanti che, sotto l’aspetto dei vincula fidei evocati, o, ancora, per quanto attiene dell’incoercibilità dei comportamenti richiesti e alla costante di implicare, nell’idea dei disponenti, condotte contra legem, sono stati indagati a fondo79. L’impressione è che, pur in presenza di bisogni sentiti e di fermenti della società in questo senso, si debba considerare condivisibile l’opinione per la quale, prima dell’intervento augusteo, mancassero mezzi che imponessero all’erede fiduciario di compiere fino in fondo la volontà del testatore.

20Gaio, a circa due secoli di distanza da Cicerone, si riferisce evidentemente a queste istanze della società quando, in chiusura di II commentario, espone le differenze tra legati e fedecommessi e tratta dell’origo di questi ultimi80. Risulta evidente che tra le ragioni per le quali appariva conveniente servirsi della prassi fedecommissaria, vi fossero numerosi casi di conflitto con leggi relative alla testamenti factio passiva e, in generale, ad altri specifici limiti di contenuto. La possibilità che avevano in effetti i peregrini di ricevere per fedecommesso, o anche le donne, al di fuori delle maglie della lex Voconia; i Latini (contro la legge Giunia), i celibi e gli orbi, sempre evitando, almeno in principio, l’osservanza della riforma augustea del diritto di famiglia fu un fatto concreto81.

21Che tipo di ricordo rischiava di rimanere del semplice e modesto legato di provvista di un tempo?

22Esempi, anche in questioni celebri e complesse82, ne rimasero, ma la maggiore duttilità dei fideicommissa rispetto alle altre attribuzioni di tipo testamentario non era messa in dubbio83. Soprattutto, la ‘concorrenza’ nella prassi dei privati tra legato e fedecommesso, che, per questioni alimentari, trapela da una certa quale promiscuità del lessico giuridico84, è stata conformemente registrata dalla dottrina85 (ma, forse, dichiarata già conclusa da Ulpiano86): con la sola eccezione di rilievo, ormai, costituita dalla tutela giurisdizionale87.

5. Riflessioni conclusive.

23Il 17 settembre del 529, a pochi mesi dall’entrata in vigore del Novus Codex88, in una sorta di tensione politico-legislativa che sarebbe di lì a poco maturata, dopo la ‘fase’ delle Quinquaginta decisiones89, nel progetto di compilazione dei Digesta e della seconda edizione del Codice, Giustiniano indirizzava al suo prefetto del pretorio Demostene un provvedimento, tràdito in C.6.43.1 e facente parte di un insieme di ben altre 15 costituzioni emanate nella stessa data90.

24Il testo, che conserva delle ragioni di interesse anche solo sotto l’aspetto formale e che probabilmente coincide con l’avvento di Triboniano all’officium di quaestor sacri palatii91, uniformò il regime della tutela giudizaria dei fedecommessi e dei legati92, preludendo di un anno alla loro definitiva equiparazione operata attraverso la lex che, coerentemente, fu inserita al secondo posto del titolo Communia de legatis et fideicommissis dai compilatori del Codex repetitae praelectionis93.

25L’una natura che accomunava, come riconosciuto dall’imperatore, le posizioni dei legatari e dei fedecommissari fece sì che dovessero cadere le disparità per l’esperimento, da parte dei beneficiari, di actiones a carattere reale o personale (con la possibilità ulteriore di giovarsi dell’actio quasi Serviana). Avvenne cioè, in virtù del primo intervento giustinianeo, ciò che è tradizionalmente illustrato in termini di «fusione» e, poco dopo, di definitiva «uniformazione» dei regimi relativi ai due istituti94.

26Il quadro di sintesi della complessa questione costituì poi, com’è noto, la sezione conclusiva del II libro delle Istituzioni imperiali: i titoli 20-25 (De legatis, De ademptione legatorum, De lege Falcidia, De fideicommissariis hereditatibus, De singulis rebus per fideicommissum relictis, De codicillis), al cui interno si può apprezzare uno dei brani più stimolanti per la comprensione delle dinamiche dei rapporti della giurisprudenza con il potere, all’alba del principato, quanto ai meccanismi d’interpretazione e all’elaborazione di nuovi mezzi tutela nell’ordinamento95.

27Alludo, ovviamente, al confronto dei dati provenienti direttamente da Inst. 2.23.1 e 2.25 pr., luoghi in cui gli antecessores si allontanarono dalla falsariga gaiana, ed ove sono delineati la nascita e lo sviluppo dei fedecommessi, in parallelo con il sorgere dei codicilli. Dall’accostamento di tali notissimi brani è così possibile seguire la traccia che i compilatori intesero comporre. L’esposizione inizia con il momento in cui omnia fideicommissa erano considerati infirma: donde la loro incoercibilità. Non un vinculum iuris, infatti, ne qualificava il contenuto, si trattava di lasciti in forma di preghiera, disposti dal de cuius per il tramite dell’erede, a chi non potesse legalmente ricevere per testamento. Il diffuso senso dell’onore («pudor») rappresentò la garanzia dell’adempimento spontaneo da parte degli onerati, fino a quando Augusto si vide costretto ad intervenire, o perché pregato o a causa della grave malafede di alcuni, ordinando ai consoli di interporre la loro auctoritas: ciò che si sarebbe presto trasformato in una adsidua iurisdictio e che avrebbe infine condotto all’istituzione di un pretore fedecommissario. Gli aggiustamenti successivi, dovuti in massima parte a norme introdotte per mezzo di senatoconsulti96 (oltre che alla capacità adeguatrice del diritto onorario97 e alla vigile intepretatio dei prudentes98), testimoniano della delicatezza della materia in cui, restituta autem hereditate, l’onerato rimaneva comunque heres, ed il beneficiario aliquando heredis aliquando legatarii loco habebatur99. Lo stesso Augusto, in effetti, si era preoccupato di disciplinare la materia, quando, in virtù dei codicilli confermati di Lucio Lentulo, morto in Africa, gli era stato chiesto per fedecommesso di compiere disposizioni, cui aveva dato seguito, costituendo in tal modo per tutti i cittadini esempio autorevole da seguire: tanto che anche la figlia di Lentulo, Seia, adempì ai legati, pur non essendovi tenuta iure. La decisione si diceva fosse frutto della convocazione del consilium del principe100 al quale, con certezza, aveva partecipato Trebazio Testa. E proprio l’opinione di costui convinse l’imperatore che, preliminarmente avrebbe interrogato i giuristi presenti sulla amissibilita dei codicilli e se il loro usus non fosse «absonans a iuris ratione». Trebazio avrebbe fondato il suo parere positivo sull’estrema utilità e necessità, per i cives in viaggio in lungo e largo nel vasto territorio dell’impero, di accedere almeno alla prassi dei codicilli, in alternativa alla redazione del testamento: nessuno dubitò della conformità all’ordinamento di tale prassi dopo che persino Labeone vi si era adeguato in concreto101.

28Nel pieno della fase di passaggio al nuovo regime, il resoconto, per quanto possa essere stato ‘ritoccato’ a distanza di secoli sulla base di uno schema preesistente102, ci offre lo scorcio dei processi di formazione del ius novum103 e, al contempo, della compattazione del consenso ad alti livelli, attraverso il coinvolgimento della presumibile élite del ceto dei giuristi nella decisione del princeps104.

29Il rapporto tra fedecommessi e codicilli chiude, quindi, di fatto il II libro delle Istituzioni imperiali ricordando che al bisogno di confermare i codicilli redatti prima del testamento – indefettibile secondo l’opinione di Papiniano105 – si potesse in effetti derogare, in base ad un rescritto di Settimio Severo e di Caracalla, qualora fosse provato che il testatore avesse mantenuta ferma la sua volontà106.

30Giustiniano poteva così completare il quadro, illudendo i suoi lettori dell’esistenza, in proposito, di un «ordinato ed unitario sviluppo storico»: si trattò, come la dotrina ha messo in luce, dell’epilogo di una lunga vicenda che da tempo appariva incanalata in tale direzione107, sotto certi aspetti iniziata nell’ambito di una comunità con bisogni (e in contesti) modesti, ma che riguardava, ormai, la trasmissione di cospicui patrimoni privati108.

Articles March 19, 2019
© 2019 fhi
ISSN: 1860-5605
First publication
March 19, 2019

DOI: https://doi.org/10.26032/fhi-2019-001

  • citation suggestion Stefania Gialdroni, (Hi)stories of Roman Law. Cesare Maccari’s frescoes in the Aula Massima of the Italian Supreme Court (March 19, 2019), in forum historiae iuris, https://forhistiur.net2019-03-gialdroni