- 1. Un protagonista dell’élite risorgimentale
- 2. Dalle condizioni della ‘nazione’ napoletana alla ricerca di un’identità italiana
- 3. Sui difetti della luogotenenza e il riordino amministrativo dei poteri locali
- 4. L’unificazione legislativa è una »suprema e fatale necessità«
- 5. Il potere ‘politico’ dei giudici e le guarentigie costituzionali
- 6. Un bilancio conclusivo
1. Un protagonista dell’élite risorgimentale
1Nato a Napoli da una famiglia medio borghese, Giuseppe Vacca, esponente della classe dirigente risorgimentale1, si guadagnò presso i contemporanei la fama di giurista dal grande ingegno2. In lui sono identificabili i tratti comuni dell’alta magistratura post-unitaria (estrazione sociale, cultura e c.d. osmosi politica/giustizia)3. Sotto il Regno di Ferdinando II ricoprì dapprima il ruolo di giudice ordinario presso numerose corti del Regno delle Due Sicilie e, poi, il ruolo di procuratore generale della Gran Corte Criminale di Napoli4. Dopo le annessioni delle province meridionali al Regno di Sardegna, assunse la funzione di procuratore generale della Corte di Cassazione in Napoli. Fu nominato senatore, con r.d. del 20 gennaio 1861, per la categoria ottava e tredicesima dell’art. 33 dello Statuto Albertino che assegnava un posto nella Camera vitalizia ai magistrati ordinari e amministrativi di grado più elevato (rispettivamente a coloro che ricoprivano il ruolo di primi presidenti e presidenti del magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti (nr. 8) e agli avvocati generali o fiscali generali presso i magistrati d’appello, dopo cinque anni di funzioni (nr. 13))5. Ricoprì anche la carica di vicepresidente del Senato, con r.d. del 3 febbraio 1861, e fu a capo del Ministero di Grazia e Giustizia durante il primo Governo La Marmora, dal 1° ottobre 1864 al 10 agosto 18656.
2In uno dei suoi primi interventi al Parlamento italiano Vacca pronunciava le seguenti parole:
3Che cosa è mai una dittatura? Io distinguo due dittature; un governo assoluto, un governo che si separi recisamente dagli interessi del paese; quel tal governo, o signori, se ricorre a modi eccezionali, extra-legali, se vuole brandire quest’arma terribile, perché lo fa? Lo fa per uccidere la libertà, lo fa per far prevalere il diritto della forza sulla forza del diritto; ed allora la dittatura è cosa detestabile davvero. Ma un governo il quale rappresenta i veri interessi del paese, un governo uscito dal voto popolare, domando io, ha o non ha il debito di salvare la società, ed in nome della difesa sociale, ricorrere a tutti i mezzi straordinari?7.
4La prospettiva era quella tipica dello statualismo liberale sempre in bilico nel trovare il punto di equilibrio tra il principio dell’unità nazionale e la garanzia delle libertà dell’individuo8. Nel caso specifico le parole di Vacca erano strettamente connesse con l’annessione delle province meridionali che aveva di fatto acutizzato il problema di Roma Capitale, giacché si riconosceva che era difficile continuare ad amministrare il nuovo regno da Torino, situata all’estremo settentrione della penisola9.
5Già Cavour aveva manifestato, con il suo formidabile discorso alla Camera del 25 marzo, il chiaro intendimento che »Roma ha bisogno dell’Italia, perché l’aiuti a togliersi dal collo il gioco che l’opprime (…) L’Italia ha bisogno di Roma, perché Roma è la capitale naturale d’Italia«10. Lo statista piemontese si accingeva a dimostrare che il potere temporale dei pontefici era privo di fondamento e la Chiesa di Roma poteva essere libera ed indipendente anche perdendo il potere temporale. La camera rappresentativa aveva accordato il proprio sostegno con l’approvazione dell’ordine del giorno Boncompagni con il quale, riconoscendo dignità e indipendenza al Pontefice, si invocava il principio di non intervento della Francia e si acclamava Roma capitale. Seguendo un iter-procedimentale non diverso da quello che si era svolto alla camera elettiva, l’interpellanza di Vacca intendeva sostenere e avvalorare al Senato la tesi dello statista piemontese.
6In queste pagine si metterà a fuoco il progetto istituzionale di Vacca e il suo ruolo di mediazione tra potere governativo centrale e poteri locali. I suoi discorsi dal forte carattere nazionale e costituzionale si possono leggere attraverso tre direttrici e cioè il tema della buona amministrazione, dell’unificazione legislativa e dell’organizzazione della giustizia (che deve essere indipendente, efficiente e non politica). La cattedra da cui Giuseppe Vacca professava la propria dottrina non era quella universitaria, ma, da giurista pratico, i luoghi in cui adempiva la propria attività educatrice e di fondazione dello Stato italiano erano l’aula parlamentare e le aule giudiziarie e, come è intuibile, gran parte delle sue idee ci sono giunte attraverso i discorsi parlamentari e i discorsi inaugurali degli anni giudiziari, pronunciati dal 1860 al 187611. Egli apparteneva, al pari di Pasquale Stanislao Mancini, Giuseppe Pisanelli, Liborio Romano, Raffaele Conforti, Paolo Cortese, Giovanni De Falco, a quella generazione di meridionali, perlopiù ex-esuli12, giuristi e molto spesso appartenenti alla magistratura, completamente dediti al progetto di State building, che ponevano, con la loro riflessione in chiave politico-costituzionale del Risorgimento italiano, le basi per le successive teorizzazioni dello Stato-persona13.
2. Dalle condizioni della ‘nazione’ napoletana alla ricerca di un’identità italiana
7Con l’atto sovrano del 25 giugno 1860 Francesco II di Borbone affidò ad Antonio Spinelli il compito di redigere una costituzione14. Il popolo napoletano l’accolse con freddezza e diffidenza. È stato messo in luce come, in verità, la parola ‘costituzione’ continuasse ad essere incomprensibile ai molti sudditi del Regno delle Due Sicilie15. In quei giorni assunse un particolare significato il discorso dell’esule meridionale Pasquale Stanislao Mancini: »quando quel governo ha esaurito tutti i mezzi di resistenza, quando ha chiesto inutilmente il soccorso dei principali monarchi di Europa, quando intorno a sé finalmente ode rumoreggiare il tuono della sollevazione popolare, improvvisamente muta sensi e linguaggio, proclama la Costituzione già spergiurata ed abbattuta, e dichiara solennemente il suo ardente desiderio di allearsi con il Piemonte«16.
8Il ‘discorso costituzionale’ di Vacca traeva origine da questo contesto, fornendo una lettura della complessa situazione politico-istituzionale delle province napoletane nel biennio 1860-1861. Nell’agosto del 1860, quando Garibaldi non era ancora giunto a Napoli, la diplomazia piemontese era al lavoro per favorire un’insurrezione popolare e la situazione era incerta, Vacca scriveva a Cavour che sebbene l’idea annessionistica si stesse diffondendo nella coscienza popolare, la parte moderata chiedeva garanzie affinché fosse fatta salva la tradizione amministrativa napoletana secondo »la formula comprensiva della unità nella varietà«17. Precisava che »il potere costituzionale nicchia perché non ha coscienza di forza«, rischiando di dissolversi a causa della diffusione del mazzinianesimo o dietro le idee di conquista di Garibaldi.
9Dopo il plebiscito che sancì l’annessione di Napoli all’unione con il Regno di Vittorio Emanuele II, Vacca ritornava sulla questione spiegandosi meglio: »l’idea unificatrice, compresa e caldeggiata dalla parte eletta del paese, non è né potea entrare d’un balzo nella popolare coscienza, e perché questa ottengasi due cose: il procedersi riguardosi nel trapasso dall’antico al nuovo, evitando ogni cosa ed ogni atto che porga indizio di aperta e subitanea offesa alle tradizioni autonome nella sfera degli ordini amministrativi e giudiziari ed in genere agli abiti antichi della vita nazionale; ed in secondo luogo la dimostrazione sensibile degli utili e dei compensi materiali e morali«18. In questo modo Vacca fu interprete di un dato comune riscontrabile nel pensiero di altri meridionali moderati favorevoli all’annessione alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II, ma persuasi che la tradizione napoletana non andava spezzata bensì ricondotta alla purezza dei suoi principî19.
10La proclamazione del Regno d’Italia non migliorò lo stato delle cose e Vacca ricordava, questa volta al Barone Ricasoli, che »lo stato dei partiti e della pubblica opinione si presenta sotto aspetti disformi«20. Era aumentata la forza degli agitatori di piazza, delle fazioni audaci e dei partiti estremi. Sull’impegno e la lealtà degli annessionisti scriveva: »il gran partito nazionale, ed amico sincero all’Italia e al Governo del Re ha la coscienza di aver fatto il suo dovere virilmente: lo ha fatto quando ha respinto la riconciliazione mendicata dalla dinastia espulsa: lo ha fatto quando ha le ire e i fulmini di quel Governo e con l’autorità della sua voce inoculò nelle moltitudini l’idea unitaria: lo ha fatto quando ha infranto la grande trama mazziniana ordita sotto l’ombra del prestigio di Garibaldi dittatore, e l’ha infranta respingendo la vagheggiata Costituente ed ottenendo il Plebiscito, ma col trionfo del principio italiano codesto partito nazionale, si è fatto maggioranza parlamentare«21. Vacca, come anche Liborio Romano, era, infatti, convinto che sotto la dinastia borbonica il problema non fosse di natura politico bensì di natura amministrativa (e giudiziaria) 22. Ciò che, infatti, fece allontanare il popolo napoletano dal trono era stato il totale disinteresse per la cosa pubblica con il mercimonio degli uffici, l’inettitudine dei pubblici impiegati ed una pessima organizzazione burocratica, a cui si aggiungeva un uso politico della giustizia che fu utilizzata per reprimere le opposizioni e il dissenso. Si trattava, pertanto, di riportare l’amministrazione e la giustizia sotto l’impero della legge come sarebbe stato normale in un governo libero, non di sostituire le antiche istituzioni con delle nuove.
3. Sui difetti della luogotenenza e il riordino amministrativo dei poteri locali
11Tra le carte del Ministero dell’Interno è possibile rinvenire otto fogli manoscritti, con la data 1861 e annotazione “confidenziale”, con i quali Vacca rispondeva ad alcune domande sulla situazione nelle province meridionali23. Nelle brevi risposte non nascondeva lo stato di emergenza in cui versava il nascente regno d’Italia, evidenziando che »la pubblica sicurezza è pregiudicata« a causa del fenomeno del brigantaggio che stava dilagando24. Per ragioni di difesa nazionale consigliava, pertanto, un rafforzamento del potere militare. Al punto quattro si legge, invece, un giudizio severo sulla luogotenenza che era definita »un congegno assurdo e pieno di antitesi«. In un’altra occasione Vacca parlava di un »congegno ibrido dal quale non poteva scaturire che il male e il disordine« e »vizioso« nel suo disegno primitivo. I principali difetti della luogotenenza consistevano in un potere centrale che si eclissava dietro »un mandatario in figura di luogotenente o di Segretario di Stato responsabile, ma la cui responsabilità reale all’atto si chiariva poco o nulla« e »un Consiglio di luogotenenza rappresentato da uomini sciolti d’ogni responsabilità di diritto, ma nel fatto con piena balia di operare il bene e il male, sotto l’ombra dell’irresponsabilità; e posti inoltre in condizione di precarietà e di mobilità, per guisa da rendergli più accessibili a tutte le tentazioni dell’arbitrio«25.
12Ragionando, poi, sulle principali criticità presenti nell’ordinamento costituzionale nella delicata fase di transizione, Vacca coglieva le storture rispetto ai principi proclamati dallo Statuto Albertino. Equiparava la luogotenenza ai Vicereame, figura che evocava una triste pagine di soprusi ed arbitrio nelle province sicule-napoletane.
13L’istituto giuridico della luogotenenza era, di fatto, comparso nel diritto pubblico italiano già ai primordi della vita costituzionale, nel 1848, nel silenzio dello Statuto Albertino e con una disciplina legislativa lacunosa26. Alcuni avevano visto una somiglianza con la Reggenza. La situazione eccezionale derivante dalla conquista dei territori meridionali aveva spinto Cavour a nominare, con decreto del 6 novembre 1860 n. 4407, luogotenente Luigi Carlo Farini, il quale era stato incaricato di reggere e governare in nome del Re e per sua autorità le province continentali dell’Italia meridionale (in Sicilia fu nominato Montezemolo). Il decreto di nomina aveva il suo fondamento giuridico nella disposizione transitoria contenuta nell’art. 82 dello Statuto (la norma consentiva in sostanza di procedere con atti del Sovrano sino alla convocazione del Parlamento)27. A Napoli, Farini nominava un Segretario generale (carica ricoperta da Costantino Nigra) e istituiva un Consiglio di luogotenenza organizzato in dicasteri (all’interno, agricoltura, industria e commercio era nominato Liborio Romano, a grazia e giustizia D’Avosta, agli affari ecclesiastici Mancini, alla polizia Spaventa, ai lavori pubblici Oberty, all’istruzione P.E. Imbriani, alle finanze Laterza), che nel tempo subirono varie modificazioni. Farini era sostituito dal Principe Eugenio di Carignano con D.R. 7 gennaio 1861, n. 4572. Il nuovo luogotenente impiantava, con decreto n. 212 del 6 febbraio 1861, una commissione di studî legislativi incaricata di preparare e proporre alla luogotenenza le modifiche legislative »che sono richieste per non lasciare queste Provincie per lungo tempo prive di necessarie istituzioni di sicurezza e di libertà di cui godono altre Provincie italiane e per conciliare con opportuni temperamenti i legittimi interessi di queste parti d’Italia con la nazionale unità fino alla deliberazione in Parlamento di codici e leggi uniformi per tutta la Monarchia italiana«. Vacca entrava a far parte di questa commissione assieme a Pasquale S. Mancini, Raffaele Conforti, Giuseppe Pisanelli, Giovanni Vigliani, Michele Pironti, Giovanni de Horatiis, Federico Castriota, Giovanni De Falco, Errico Pessina, Giuseppe Talamo, Bernardo Giannuzzi Savelli, Gennaro de Filippo, Cesare Oliva, Carlo Capomazza28.
14»Carattere precipuo della luogotenenza – scriverà, molti anni più tardi, Teodosio Marchi – è quello di essere per sua natura, oltre che eccezionale e provvisoria, anche limitata nei riguardi dell’esercizio di una o più regie funzioni. Più specificamente essa importa una delegazione di tale esercizio non prevista dalle nostre leggi ed operata, nel nostro diritto almeno, dall’organo regio a favore di una persona con atto che assume la forma di Regio decreto, soggetto a tutte le regole degli atti Regi e, quindi, soggetto alla responsabilità ministeriale. Ma tale delegazione mantiene ferma nel Re la regia autorità, in quanto secondo la natura stessa della delegazione in generale, non trasferisce nel delegato tutto l’Ufficio regio«29.
15Un decreto del 5 maggio 1860 n. 355 aveva ripartito le competenze fra governo centrale e governo luogotenenziale, stabilendo all’art. 2 le materie esclusivamente riservate al potere centrale e riservando in via residuale al governo luogotenenziale di adottare i provvedimenti temporanei e urgenti di competenza dell’esecutivo30. Vacca evidenziò, però, una negazione del principio della responsabilità ministeriale (sancito all’art. 67 Statuto Albertino) o la sua ‘diluizione’ tra più autorità pubbliche che finiva per tradursi in una negazione del principio stesso e, indubbiamente, la delegazione delle funzioni regie ad un organo straordinario poneva questioni non di facile soluzione. Sul punto sempre Marchi scriveva: »nei casi di delegazione il delegato è, in genere, responsabile verso il delegante e, viceversa, a questi risale la responsabilità degli atti del primo: nel caso speciale però occorre ricordare che, mentre la pretesa responsabilità per gli atti del Luogotenente non si può risalire al Re per il principio della regia irresponsabilità, essa risale necessariamente ai Ministri«31.
16Vacca spingeva per l’abolizione della luogotenenza inviando un ulteriore memorandum a Ricasoli32 e sintetizzava una proposta concreta sul riordino dei rapporti tra centro e periferia nel saggio La situazione delle provincie napolitane e il riordinamento del governo locale. Alcune considerazioni33. Qui, dopo aver sostenuto che i due motori della rivoluzione napoletana erano stati »l’idea nazionale come negazione del principio dinastico e la moralità nel Governo«, esponeva i principi direttivi di una buona riforma della giustizia e dell’amministrazione. Seguiva un’ampia proposta di riforma di vari settori pubblici dello Stato come ad esempio la marina, la sicurezza pubblica, la guardia nazionale, le finanze, le ferrovie, proposta che però, mancando di concretezza, rimaneva ancora a livello di principii34.
4. L’unificazione legislativa è una »suprema e fatale necessità«
17Una parte rilevante del progetto istituzionale di Vacca ruotò intorno all’unificazione legislativa che avrebbe assegnato al nuovo Stato uniformità di leggi e di procedure. Giuseppe Mirabelli lo ricorderà per l’impegno profuso nel campo della scienza legislativa: »i codici, ai quali è indissolubilmente ligato il suo nome, sono un monumento durevole e sempre vivente del senno giuridico e politico italiano, e di un coraggio civile meraviglioso, col quale, distruggendosi le autonomie legislative – effetto di secolari prepotenze straniere – si è posto il più poderoso cemento all’unità politica dello Stato«35. Nella seduta del 24 novembre del 1864 Vacca guardasigilli presentò, assieme al Ministro dell’interno Lanza, un disegno di legge che delegava al Governo i poteri per la revisione dei progetti di codice bloccati nelle varie commissioni, e accelerava di fatto il processo di unificazione legislativa36. Dinnanzi ai rappresentanti della nazione esplicitava le convinzioni alla base della richiesta con le seguenti parole: »non dobbiamo dimenticare una cosa notissima a chiunque mezzanamente sia versato nella scienza legislativa, non dobbiamo dimenticare che un Codice rappresenta un tutto organico ed armonico dominato da certi principii di cui le singole disposizioni non sono che l’esplicitamento e l’applicazione pratica, che se per avventura, per via d’emendamenti si andasse qua e là ritoccando, rimutando e correggendo tale o tale altro punto delle leggi senza tener d’occhio l’insieme, si correrebbe certamente il rischio di tutto guastare e di turbare l’economia del sistema«37.
18Nella Relazione ministeriale al Re sul Codice civile Vacca si esprimeva nel seguente modo: »apparve indeclinabile la convenienza e la necessità politica di affrettare senza più il compimento della unificazione sia nell’ordine amministrativo, sia nell’ordine legislativo, per molti gravi intenti, e singolarmente per questo di rinfrancare ed invigorire il principio dell’unità nazionale«38. Esaltava il carattere nazionale dell’opera legislativa, evidenziando che durante la fase di redazione vi aveva concorso tutta la scienza giuridica italiana39. Aveva altresì premura di sottolineare i singoli miglioramenti e le innovazioni tecniche contenute nei nuovi codici che si erano conformati a »principii altamente progressivi e liberali«. Di tale importanza era l’attività svolta dal Parlamento durante l’VIII legislatura che egli considerava come »la vera Costituente dell’Unità d’Italia«40.
19Quando fu impegnato nella revisione delle “leggi monumento” adottate nel 1865, Vacca ebbe modo di precisare meglio le scelte compiute:
20L’opera dell’unificazione legislativa in tutti gli ordini dello stato fu fatta, nessuno lo ignora, sotto la pressione di un grande interesse politico. Si trattava di cementare con vincoli più saldi l’opera dell’unità nazionale: quindi è che fu necessità inevitabile di far presto anche a rischio di far male, una colluvie di leggi, d’ordinamenti, in ogni ramo amministrativo e giudiziario (…) compiuta l’unità nazionale, è giunto il momento di avvisare seriamente ad una emendazione progressiva delle parti viziose della legislazione unificata41.
21Tuttavia, era dell’opinione che l’attività di riforma legislativa dovesse avvenire con ‘criteri sperimentali’e cioèemendando e correggendo le sole parti viziose. Difendeva la tradizione italiana e avvertiva del pericolo derivante dell’imitazione servile di meccanismi ed istituti desunti da ordinamenti stranieri. Per lui »la bontà relativa ed il valor pratico delle sociali Istituzioni« sono da ricercare »nella esatta rispondenza di esse alle peculiari condizioni storiche, sociali, e morali del tal popolo, cui vanno appropriate«42. La bontà relativa di una nuova legge e la sua efficacia stava nella combinazione dell’elemento storico e dell’elemento razionale: la nuova legge per non ingenerare contrasti e ripugnanze non deve offendere gli interessi esistenti e deve avere una forza tale da superare quel sentimento di per sé normale di attaccamento alle tradizioni e ai costumi antichi.
22Per queste ragioni Vacca riteneva non maturi i tempi per l’abolizione della pena di morte, opponendosi alla proposta di Pasquale Stanislao Mancini43. Egli parlava nei seguenti termini: »il principio dell’abolizione della pena di morte non è che una questione di tempo, di avvenire, di opportunità. Senonché il considerare le condizioni reali e non liete, a parer nostro, della sicurezza pubblica in Italia, non ci consentirono di aderire così di lancio ad una soppressione immediata assoluta della pena di morte«44. Vacca era altresì favorevole ad una codificazione penale per l’intera nazione che non lasciasse spazio al particolarismo giuridico, ritenendo che il penale fosse il termometro per misurare la “costituzione politica” di una nazione e il suo grado di coesione. Il ministro informava gli altri rappresentanti della nazione che il governo del Re era, però, disponibile a ridurre i casi di pena di morte e ad aumentare le garanzie giudiziarie nel verdetto dei giurati.
23Per Vacca, la giuria popolare, introdotta nell’ordinamento italiano preminentemente per ragioni politico-costituzionali45, era un istituto »caldeggiato da pochi, incompreso dai molti« che doveva essere meglio adattato alle forme della nazione46. Scriveva: »gli istituti Giudiziari, non altrimenti che gli Istituti Sociali, domandano il concorso d’un duplice criterio; l’uno puramente razionale e scientifico – l’altro essenzialmente sperimentale e pratico. Il che essendo, noi demmo opera a naturalizzare in Italia talune Istituzioni raccomandate dalla scienza, e dal sociale progresso, ma pur troppo repugnanti alle nostre condizioni di fatto«47. Vacca dimostrava la scarsa prova che aveva dato di sé la magistratura popolare attraverso la statistica giudiziaria. Egli, infatti, poteva affermare, con numeri alla mano, che il giudizio popolare fosse causa della »scarsa e scadente efficacia della giustizia repressiva«. Scriveva che era »manifesta la comunale tendenza dei Giurati ad asservire la Giustizia alla politica, piegando non di rado alle faziose pressioni che si sovraimpongono alla imperturbata e serena azione della giustizia punitiva. Se dunque, diciamolo schietto, la popolare giustizia porgerà ancora i non rari esempi della odiosa disuguaglianza tra i misfattori (…) la Giustizia sociale non apparirà alle moltitudini che una ipocrisia, ed una menzogna, perché avrà tradito il principio fondamentale della giustizia impersonale ed uguale per tutti«48.
24Vacca provò a rimediare ad alcune storture dei procedimenti dinnanzi alla giuria per riabilitare l’istituto. Durante la discussione al Senato del progetto di legge per le modificazioni all’ordinamento dei giurati ed alla procedura nei giudizi davanti la corte d’assise, fu relatore della proposta e difese le scelte tecniche che dovevano correggere e riparare alle maggiori imperfezioni del giudizio in Corte d’assise49.
5. Il potere ‘politico’ dei giudici e le guarentigie costituzionali
25Nella opera di Vacca è possibile scorgere un ultimo pilastro su cui si reggeva il suo progetto politico-costituzionale ed è quello che concerne il potere giudiziario in rapporto con gli altri poteri costituzionali. Vacca enfatizzava la natura politica del giudiziario, descritto come »strumento alterno del bene e del male; rappresentazione vivente dello stato sociale e del politico ordinamento, ora complice di tutte le tirannidi, or mallevadrice del retto, e dell’equo, e rifugio supremo degli oppressi e dei tribolati. Questo spiega il perché il potere giudiziario fu visto sotto gli auspici dei governi liberi levato ad alto grado di dignità, posto in condizione di piena e inviolata indipendenza, ordinato a tutela dei grandi principii di pubblica moralità«50.
26Esprimeva un severo giudizio sul fenomeno dell’epurazione che investì una parte della magistratura post-unitaria e si soffermava sugli inconvenienti derivanti dal nuovo riassetto degli organici51. Notava, infatti, che una parte, anche se meno compromessa, della magistratura borbonica trovò delle facili vie di salvezza, »quanto ai magistrati nuovi ch’erano saliti agli officii giudiziarii per le vie del favoritismo e della consorteria, difettando loro ogni solida guarentigia di merito, di perizia«52. Per migliorare lo stato delle cose suggeriva di modificare i criteri di reclutamento del personale giudiziario tramite concorsi pubblici severi, volti ad accertare le competenze dei candidati, e di investire sulla formazione del personale.
27Era inevitabile il riferimento alla storia costituzionale inglese »perché sappiasi che in quella classica terra le Istituzioni politiche non furono già speculative creazioni della scienza sociale, ma germinarono bensì dal pubblico costume, dalla coscienza pubblica«53. Vacca era convinto che il prestigio del potere giudiziario passasse attraverso due questioni strettamente connesse tra loro: l’indipendenza e la responsabilità disciplinare dei magistrati, invocando »una responsabilità seria, ed un sindacato efficace, epperò sottratto all' arbitrio, alla cabala, e soprattutto al parteggiar politico«54. L’indipendenza era posta come condizione necessaria alla stessa esistenza della magistratura, senza la quale si andava ad inficiare l’intero sistema-giustizia. Il rispetto dei doveri d’ufficio costituiva, invece, il limite ed un vincolo per chi era chiamato ad esercitare un potere enorme55.
28Oggetto di una specifica riflessione da parte del Nostro furono due norme specifiche dell’ordinamento giudiziario. La prima era la formula dell’art. 129 che definiva il pubblico ministero come »il rappresentante del potere esecutivo« e in quanto tale lo sottoponeva alla direzione del ministro della giustizia. Giovanni Carcano metteva in discussione la stessa necessità di una pubblica accusa e, con i suoi scritti, tentava di dimostrare l’estraneità del pubblico ministero rispetto alla tradizione italiana56. L’articolo in questione era stato criticato aspramente anche dal Senatore Giuseppe Musio che mostrava come la legge, asservendo il pubblico ministero al potere esecutivo, pareva che organizzasse non un potere fondamentale, ma un »servizio pubblico« e solo in questa ipotesi si poteva chiedere che l’impiegato pensi ed operi come il superiore gerarchico57. Dalla tribuna parlamentare, Vacca rispondeva al collega Musio e dichiarava che »pur riconoscendo i vizi della formola dell’organico giudiziario, che vorrei vedere corretta ed emendata, credo però che quella formola, e più lo spirito della legge, che la vivifica, ripugni assolutamente a questa strana interpretazione che farebbe dell’agente del pubblico Ministero un istrumento meccanico dell’arbitrio ministeriale. Io non accetto, anzi respingo la teoria incomportevole della piena autocrazia del Ministro Guardasigilli, e dell’obbedienza passiva dell’agente del Ministero Pubblico«58.
29L’altra disposizione di legge su cui ragionava Vacca era l’art. 199, che attribuiva al potere esecutivo la facoltà di trasferire i magistrati in altra sede per necessità di servizio. Tale disposizione fu oggetto di interpretazioni critiche da una parte della stampa e si giunse a sostenere che fosse usata dal potere esecutivo come modo di coazione morale e di interferenza sul libero voto del magistrato. Ciò renderebbe lettera morta la garanzia costituzionale contenuta nello Statuto albertino che aveva riconosciuto ai magistrati la garanzia dell’inamovibilità dopo tre anni di servizio (art. 69). Vacca però stimava pericoloso il concetto di inamovibilità assoluta perché rischiava di trasformarsi in una sorta di irresponsabilità ed impunità per il magistrato. Promotore di uno specifico disegno di legge che, fu preso in considerazione dal Senato in comitato segreto nella tornata del 3 maggio 1870, ma mai discusso59, in sede di presentazione sostenne che »l’indipendenza può venir meno, non solo di fronte alle pressioni governative, ma eziandio per la influenza soverchia sull'animo del magistrato e delle aderenze locali acquistate e della troppa cupidità̀ del favor popolare?60. Affinché fosse davvero garantito il principio costituzionale della inamovibilità Vacca proponeva, qualora non ci fosse il consenso del magistrato, che la Corte di Cassazione si pronunciasse sul traslocamento a cui il Ministro doveva conformarsi. Dinnanzi a questo organo di garanzia era previsto un vero giudizio nel quale il magistrato poteva far valere le sue ragioni. Il Governo aveva comunque un’ulteriore possibilità che consisteva in un decreto motivato da adottarsi nel Consiglio dei ministri.
6. Un bilancio conclusivo
30Vacca unirà forza di idee e impegno istituzionale, tracciando quella che per lui era l’unica via percorribile e cioè la costruzione dell’unità dello Stato. Si adoperava a livello centrale attraverso l’impegno parlamentare e a livello locale intrattenendo una fitta rete di rapporti con amici e élites locali con cui condividerà interessi ed intenti.
31Non è facile ricostruire nei dettagli la fitta rete di relazioni che intercorsero tra i vari esponenti delle élites meridionali. Mi pare che sia possibile intravedere una linea condivisa nelle scelte dei cinque Guardasigilli meridionali che si susseguirono dall’aprile del 1862 al giugno del 1866 (Raffaele Conforti, Giovanni De Falco, Paolo Cortese, Giuseppe Pisanelli e Giuseppe Vacca) tra loro legati da vincoli corporativi. Molto più difficile è, invece, dare un’immagine tridimensionale dei rapporti dell’intera classe dirigente napoletana e della sua capacità di far valere a livello centrale interessi locali. I singoli esponenti agivano in modo non organizzato e cioè senza riuscire a far squadra a causa del protagonismo individuale61.
32Il discorso costituzionale di Vacca è anche interessante per la sua coerenza interna e costituisce un punto privilegiato di osservazione per interpretare ideologie e programmi di una fase decisiva della storia istituzionale italiana62. Il merito di Vacca è, inoltre, quello di aver criticato, ancorché partendo da posizioni moderate ed annessioniste, un’eccessiva uniformità del processo di unificazione che, nei primi anni di unità nazionale, non volle riconoscere differenze territoriale, anzi le ignorò deliberatamente e negò l’opportunità di differenziare gli strumenti amministrativi. Vale la pena notare che nella classe dirigente moderata non ci fu al momento dell’unificazione un’opinione unanime, piuttosto ci fu una commistione di punti di vista sintetizzabili in due tendenze: una che tendeva a dar forma unitaria allo stato e l’altra che chiedeva procedure speciali per il mezzogiorno e gli altri territori annessi63. Molto spesso entrambe le tendenze sono riscontrabili nell’animo di uno stesso protagonista senza giungere alla negazione di una o dell’altra. A tenerle assieme era il principio dell’unità nazionale che era perseguito con impegno e forza d’animo attraverso l’opera di State building64. La vicenda intellettuale e politico-istituzionale di Vacca dimostra che una gran parte della classe dirigente risorgimentale provò a far sintesi, adottò soluzioni non facili in partenza e che necessitarono di adeguamento nelle fasi successive. Inoltre, i vari protagonisti, imbevuti di culture politiche diverse, inevitabilmente si dovettero confrontare con le varie esperienze europee più avanzate.