- 1. Chicago, 1889: lo scenario dell’American Bar Association.
- 2. New York, 1823: soluzioni europee per questioni americane.
- 3. Modelli dalle periferie del globo.
- 4. Fine del »Law of principles«?
- 5. Materiali per nuovi dibattiti.
- 6. Saratoga Springs, 1898: codici e connessioni atlantiche.
- 7. Albany, 1903: diritto, legge e unità nazionale.
1. Chicago, 1889: lo scenario dell’American Bar Association.
»No spectre is here to frighten anybody«1.
1Presiedendo il dodicesimo congresso annuale dell’American Bar Association, che si svolse a Chicago alla fine di agosto del 18892, David Dudley Field diede a tutti i partecipanti »una lezione di coraggio« e fu da »ispirazione ed esempio« per i più giovani giuristi intervenuti al tradizionale incontro estivo, che videro »così tanti dei più illustri membri dell’avvocatura riunirsi attorno a questo vecchio guerriero«. Ormai ottantaquattrenne, David Field era considerato uno degli esponenti di maggior prestigio del Foro americano e fu per gli avvocati presenti al convegno il giurista »who had fought the battle of law reform for half a century« (così legando per sempre il nome dei Field al movimento in favore della codificazione del diritto in America del Nord3). Il congresso, raccontano le cronache, si svolse senza inconvenienti, come lo stesso Field non mancò di sottolineare alla platea di avvocati. E anche la cena sociale, che si tenne »nel consueto stile americano«, venne diretta con tale eleganza da conferire »un particolare fascino all’occasione«4. Alla fine dei lavori, l’avvocato Field scelse di congedare i giuristi riuniti a Chicago con un discorso breve ma denso di significati:
2It is now my duty to close this convention [...]. And let me add my hope that this meeting will not prove to be like the movement of a ship through the waters, leaving no trace behind. We have gone on smoothly, like that great ship which came across the ocean the other day quicker than was ever done before since the time when Columbus came to the west; but she left no trace in the waters. Let it not be said of the American Bar Association that it has left no trace, but let each of us retain a remembrance of what we have done, and maintain a firm resolve to do all we can in our several spheres to further the objects of the Association and the resolutions which have been passed, and, above all, to help make the laws of this great country of ours such as they should be for a republic of freemen. That is all I can wish the Association, and all I can wish you. Farewell5.
3Le parole di Field non erano prive di contenuti politici, che anche le immagini evocate parevano peraltro rimarcare. Ciò, anzitutto, per il rapporto che da esse traspariva tra l’azione dell’avvocatura e una particolare, idealistica visione della legislazione (si parlava, oltretutto, delle leggi »such as they should be[...]«). Poi, per il motivo dell’invocato nesso causale tra questi due elementi: una relazione evidentemente più stringente della sola sincronicità, dello svolgimento simultaneo di fenomeni collegati, in qualche modo riferibili al contesto del diritto e della giustizia, ma tra loro indipendenti. Il breve passo sembrava infatti esprimere l’idea dell’avvocatura come benefica forza sociale, implicita nell’invito rivolto ai membri dell’associazione forense americana a fare delle leggi del Paese, per quanto possibile e »nelle nostre diverse sfere«, un prodotto normativo adatto alla forma costituzionale di una »repubblica di uomini liberi«. Al pubblico di professionisti (e per estensione agli avvocati in generale) era richiesto di compiere ogni sforzo per garantirsi un ruolo attivo e una posizione centrale nella vita pubblica del Paese, in conformità alle aspirazioni e ai compiti della classe forense nell’ambito di una nazione democratica. Anche qui, una particolare (e verrebbe da dire idealistica) visione del ruolo dei pratici del diritto rispetto al buon governo della cosa pubblica, strettamente connesso – come sottolineato da Field – all’ambito legislativo.
4Per quanto generico, il programma delineato esprimeva precise opzioni politiche del rapporto tra legge, governo e società, contemplante la centralità dell’avvocatura e lo stesso ruolo dell’American Bar Association. Istituita da poco più di un decennio6, l’associazione forense aveva infatti tra i propri scopi quello di promuovere l’uniformità legislativa »in tutta l’Unione«, ma anche di incentivare lo sviluppo della scienza giuridica (»the science of jurisprudence«) e favorire l’amministrazione della giustizia in Nordamerica7. L’aspetto che qui interessa, però, è anzitutto un altro, e riguarda la visione di David Field circa la messa in pratica di un disegno che contemplava la ricerca di uniformità normativa sul piano nazionale mediante la valorizzazione della legislazione. Ma anche uno sforzo comune per il buon funzionamento della macchina della giustizia, volto a rimediare alla lentezza dei procedimenti giudiziali, così da esorcizzare »the spectre of halting justice«, un fantasma dietro gli »spettacoli brillanti« dei processi8. Tutto ciò, con il necessario concorso di una classe forense, che costituiva una forza sociale (e che era anzi orgogliosamente rappresentata come »one of the great conservative forces of society«), ma che non per questo era esente da critiche9. Dotata di un ruolo pubblico, obbligata verso i cittadini anzitutto nel concedere »un’opportunità di conoscere le loro leggi«, l’avvocatura era ancora largamente affezionata ai metodi di common law e alle ‘tradizionali’ tecniche difensive, alle »meraviglie di iterazione ed espansione, vecchie di secoli, ammuffite e arrugginite« alle quali non riusciva a rinunciare10, e che di certo non favorivano la rapidità dei processi. Di contro, era spaventata, ma irrazionalmente, dall’immagine tormentosa, se non proprio ‘spettrale’, del codice. Da qui, l’invito rivolto agli avvocati, formulato già in apertura del congresso del 1889, ad abbandonare ogni »superstiziosa riverenza verso il diritto dei precedenti, o ciò che loro chiamano il common law d’Inghilterra«, per rendere chiaro e intelligibile a tutti il diritto vigente, per essere non membri di una ‘casta’ ma, appunto, una forza sociale al servizio del Paese11.
5Il breve discorso di Field offre un’immagine in qualche modo introduttiva del dibattito nordamericano in materia di unificazione del diritto a cavallo tra i due secoli, costituente, come risulterà nel prosieguo, un altro versante del confronto pubblico sul codice. Dal contesto considerato emergeva, in particolare, il profilo tematico della materia commerciale e cambiaria, della cui unificazione disciplinare l’associazione forense americana si era fatta promotrice12. E gli esiti del congresso di Chicago, come notato da Field alla fine dell’incontro, erano stati, sul punto, incoraggianti. I lavori dell’estate 1889, supportati dall’opera dei vari comitati specializzati13, lasciavano peraltro intravedere gli indizi di una generale convergenza rispetto al tema dell’unificazione delle discipline commerciali e cambiarie. Coinvolgendo il piano nazionale, la questione poneva il tema della legislazione commerciale in stretta correlazione con il ruolo delle istituzioni federali. In questa visuale si inquadrava la proposta, approvata nel corso dell’incontro, di prospettare al Congresso degli Stati Uniti di procedere alla definizione legislativa degli »essenziali principi di diritto« disciplinanti i »contratti interstatali«14 (così da riportare all’organo federale l’indirizzo che l’associazione forense aveva assunto rispetto alla questione). E ciò posto che, accanto al commercio estero, anche la materia degli »instruments of commerce« interstatali rientrava nelle competenze del legislatore federale15. In questo modo, sarebbe stato privilegiato il livello centrale ai contesti ‘locali’, superando le differenti regolamentazioni territoriali e operando nella prospettiva dell’uniformità delle discipline (quantomeno al ‘livello’ dei principi essenziali) in una materia fondamentale per i transiti mercantili tra stati16. Proprio in virtù di questa stessa autorità, il Congresso avrebbe dovuto anche adottare una legge riguardante, anzitutto, la disciplina delle lettere di cambio, quali strumenti del commercio interstatale17, sulla cui base, poi, i singoli legislatori avrebbero potuto elaborare una normativa per l’ambito ‘interno’18.
6Anche il piano giurisprudenziale e i suoi profili critici emersero dal dibattito del 1889. Le divergenze interpretative in materia commerciale tra le diverse giurisdizioni statali (spesso contrastanti anche con le decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti, e peraltro »note a ogni avvocato«) avrebbero dovuto essere risolte, favorendo l’opposta prospettiva della convergenza delle soluzioni giurisprudenziali19. In altre parole, sembrava almeno in parte tracciato il percorso in direzione dell’unificazione delle discipline commerciali. Guardando, poi, anche oltre le questioni strettamente mercantili, l’opportunità di raggiungere un sufficiente grado di omogeneità normativa (specie rispetto a particolari materie20) suggeriva, in generale, l’istituzione di un ulteriore apposito comitato, composto da un membro per ogni Stato, incaricato di esaminare e comparare le discipline applicabili nei differenti contesti territoriali, così operando in direzione dell’uniformità in ambito nazionale21.
7Ma accanto ai risultati positivi, riassunti nel richiamo alle »resolutions which have been passed [...]«22, il discorso di Field faceva anche riferimento ai non improbabili rischi di un insuccesso politico. Le immagini evocate, la visione del passaggio senza tracce di una nave sull’acqua, sembrano infatti esprimere la prudenza del giurista rispetto agli effetti nel lungo periodo del congresso annuale di Chicago. Ma anche rispetto agli esiti pratici del complesso progetto dell’associazione forense americana, che era peraltro divenuta, anche grazie all’opera di Field, uno dei canali nazionali del dibattito pubblico su diritto e legislazione23. Le parole conclusive del convegno del 1889 richiamavano, così, anche il versante ‘negativo’ di un dibattito comunque legato al discorso della rivisitazione in senso legislativo dell’ordinamento giuridico e, sia pure ancora indirettamente, al tema della codificazione. E non erano poche, né prive di forza, le resistenze verso l’affermazione di un modello di ordinamento basato sul primato anche sistematico della legislazione, come il giurista sapeva bene. Non erano lontani, infatti, gli ultimi anni delle battaglie per l’entrata in vigore di un sistema codicistico nello Stato di New York24, di cui Field fu protagonista, durante le quali vennero sviluppate e diffuse prospettive teoriche opposte. Idee, queste, destinate a incidere profondamente sul discorso pubblico americano e sulla stessa rappresentazione del giuridico, ma con esiti pratici diversi. Da un lato, una propaganda in favore di una »general codification«, supportata dalla visione politica del codice come inevitabile e benefico esito del processo democratico (oltre che dalle previsioni della Costituzione statale del 1846). Dall’altro, un potente argomento anti codificatorio, divenuto paradigma intellettuale di riferimento del pensiero giuridico conservatore, che insisteva sul carattere fondamentalmente consuetudinario del diritto, come elemento sociale e non statale. In entrambi i casi, discorsi dominati da considerazioni eterogenee e di lungo corso, che mescolavano temi tecnici a visioni politiche, strettamente connessi ai variegati profili del rapporto tra il livello dello Stato e quello del cittadino.
2. New York, 1823: soluzioni europee per questioni americane.
»The law of a free people should never be a matter of indifference»25.
82.1. David Dudley Field, che interpretò un ruolo per certi versi di raccordo tra le diverse fasi del dibattito sulla sistematizzazione del diritto in America del Nord26, venne fatto oggetto di molteplici rappresentazioni anche postume. Nel profilo biografico curato da suo fratello Henry Martin Field, pubblicato a New York nel 1898, anche gli aspetti dell’educazione giovanile e della formazione intellettuale dell’avvocato americano, scomparso nel 1894, si legavano in qualche modo al movimento ottocentesco in favore della riforma del diritto, come pure a tematiche politiche e sociali e allo stesso ‘progetto’ protestante. Nato nel 1805 a Haddam (Connecticut), figlio di un ministro congregazionalista a cavallo tra i due secoli27, D.D. Field era stato educato – sosteneva il fratello – nel rispetto di quel credo religioso secondo cui »la legge di Dio non era solo per il saggio ma per il semplice«28 (un principio basilare della »old Puritan faith«) e così avrebbe dovuto essere la legge umana. »L’unione di Giustizia e Potere« costituiva, per David Field, »l’unica solida base per la società umana«, così da rendere la stessa causa della riforma, destinata a trasformarsi nel proposito codicistico, »una santa crociata«29. Quell’immagine della »legge di Dio«, più volte rievocata nel profilo biografico curato da H.M. Field, avrebbe ispirato l’idea di una legge civile (nel senso di »law of man«) comprensibile a tutti quelli che ne erano soggetti e conoscibile senza fittizie interposizioni, linguistiche e testuali. »Nessuna frase straniera dovrebbe oscurarne il significato«, rimarcava sul punto il reverendo H.M. Field, coinvolgendo nel discorso tematiche religiose e rappresentazioni culturali del New England di inizio secolo30. Non tutti avrebbero compreso la complessità del diritto, ma ogni uomo avrebbe potuto cogliere da solo il senso di giustizia (così come, al contrario, si avvertono generalmente »i torti dell’ingiustizia«). Il peso del diritto avrebbe dovuto essere, per D.D. Field, »come la pressione dell’atmosfera«, al di sopra di tutti, ma più che come un fardello, come una presenza benefica, un soffio vitale capace di ispirare sentimenti di libertà e giustizia e rendere »forti gli uomini e grande la nazione«31. Per rendere possibile questa visione, il diritto avrebbe dovuto essere, anzitutto, comprensibile anche al laico, così da riuscire a contribuire, poi, al buon governo della cosa pubblica.
9Nella biografia del 1898, nelle pagine introduttive, il riformismo di Field era posto in stretta relazione, oltre che con le vicende personali del giurista e le rappresentazioni di una particolare dimensione culturale, anche con lo stato del diritto americano. E ciò, pare, anche per rimarcare, già dalla prefazione dell’opera, come l’eredità giuridica del passato coloniale fosse incompatibile con i caratteri di un diritto rispettoso, non solo dei precetti di una condivisa tradizione religiosa, ma anche di un contesto politico democratico. L’opera di D.D. Field, si legge nel primo paragrafo della prima pagina del volume (p. vii), non avrebbe potuto essere valutata e compresa senza fare accenno allo stato del diritto, a dir poco complicato, al tempo in cui il giurista americano iniziò la pratica professionale (qui definito come »theunsatisfactory state of the law«)32. Veniva, così, abbracciata ed enfatizzata la prospettiva del Field riformista, lungamente e fortemente criticata e avversata, non senza ricorso alla ricostruzione storica del diritto in America, nella ricerca di una visuale ‘obiettiva’, più solida del richiamo alla cultura protestante e allo ‘spirito’ della famiglia Field. »In the colonial period of American history«, scriveva sul punto Henry Martyn Field, »our law was the common law of England, that dates back to the time of Alfred the Great, and was overlaid with the accumulations of a thousand years. The Acts of Parliament were scattered through hundreds of volumes. There were whole libraries of decisions of the courts – decisions that were often so contradictory as to create hopeless confusion«. Peggiore sarebbe stata, secondo H.M. Field, la caotica situazione caratterizzante le regole processuali, la divisione tra »Law« ed »Equity«, le duplicazioni giurisdizionali che ne erano conseguenza, e in generale l’amministrazione della giustizia33.
10All’eredità giuridica coloniale, all’irrimediabile contraddittorietà del common law, era opposta la rassicurante visione di una »giustizia semplice« e di codici (»fixed codes«) capaci di raggruppare l’insieme dei frammenti normativi dispersi, costituente l’essenza dello spirito riformista di David Field. Allo stesso modo, ai propositi di un giovane giurista, che si interrogava sulle possibili e ragionevoli soluzioni ai tangibili difetti della giustizia, veniva contrapposto il richiamo a un cieco conservatorismo – espresso dal Foro, dai Giudici e dal Legislatore – in qualche modo riportato alla sfera della sanzione religiosa, e contrastante con il carattere quasi sacrale dell’immagine della giustizia proposta nell’opera biografica del 189834.
11Gli anni della formazione di David Field coincisero, poi, con lo sviluppo, agli inizi degli anni ‘20 dell’Ottocento, di un movimento popolare in favore della codificazione. Questa tendenza, legata anche alle vicende e alle evoluzioni dell’avvocatura americana, era supportata da coefficienti eterogenei, che mescolavano riferimenti ideologici e visioni politiche, oltre che considerazioni teoriche e costruzioni giuridiche. Guardando al rapporto tra l’America e l’ex Madrepatria britannica, il diffuso antagonismo del pubblico americano verso il sistema di common law, come un prodotto normativo di origine inglese, costituiva probabilmente il primo di questi fattori35. Dal punto di vista propriamente giuridico, l’avversione popolare assunse anche le forme della rivendicazione di una sfera di piena autonomia del diritto americano. Per il giurista di Philadelphia C.J. Ingersoll, ad esempio, il discorso giuridico americano era ancora fortemente attraversato dal passato coloniale, data anche la »tenace adesione« di giudici e avvocati »alle leggi della madrepatria«36. L’obiettivo era correggere e rivedere l’influenza del diritto inglese in America, percepibile nei settori centrali per lo sviluppo dell’economia interna, tra cui il diritto commerciale37. E ciò, a partire dall’autorità (in alcuni casi, una »autorità assoluta«) delle decisioni giudiziali, dotate di forza irresistibile, talvolta »troppo vicina alla sottomissione«38.
122.2. La biografia del 1898 cercava in qualche misura di raccordare gli sviluppi di questo movimento – o comunque di alcune sue manifestazioni – alle prime tappe della formazione intellettuale del giurista di Haddam. Secondo le cronache di H.M. Field, a influenzare il diciottenne David Field verso le idee della riforma fu, anzitutto, il discorso tenuto da William Sampson presso la Historical Society di New Yorknel dicembre 1823. Sampson – che era un immigrato irlandese di fede protestante e un avvocato aderente alla causa della codificazione39 – affrontò con decisione diversi aspetti della critica contro il sistema giuridico inglese. Aspetti, questi, che puntavano al cuore della questione del rapporto diritto/governo. Ma l’analisi di Sampson presupponeva, anzitutto, un particolare esame critico delle origini e della storia »del nostro diritto«40. Rispondendo al richiamo alla cooperazione sociale41, Sampson denunciò una sempre più evidente frattura tra diritto e società, di cui solo i giuristi pratici, i professionisti, avrebbero potuto beneficiare. Il diritto sembrava essersi trasformato in un discorso incomprensibile, in un elemento »troppo a lungo bandito dalla comunione delle scienze liberali«. Così che anche lo studio e la pratica del diritto erano divenuti un’arte sterile velata da un impenetrabile (o quasi) alone di mistero42.
13Per Sampson, i tempi erano maturi per tentare la riconciliazione tra il giuridico e il sociale. Il diritto doveva emergere da quella zona d’ombra in cui appariva relegato, divenendo, tramite l’esame del pubblico, suscettibile di essere sottoposto »alla prova della ragione alla luce del giorno«43. Al contrario, le costruzioni giurisprudenziali accumulatesi nel tempo avevano reso il common law incomprensibile per il laico e, in generale, per »l’uomo medio«44. Ma il diritto, liberato dalle fittizie interposizioni e reso intelligibile, accessibile, avrebbe potuto svolgere la funzione di orientamento delle condotte della generalità. Il cittadino (»a good citizen«) avrebbe dovuto amare le leggi e obbedire a esse, ma senza fanatismo e senza servilismo. Per rendere possibile questa funzione pubblica di guida e direzione, che peraltro sarebbe stata conforme agli scopi politici di un »Popolo libero«, il diritto avrebbe dovuto suscitare fiducia e, anzitutto, apparire come un prodotto ‘civile’ e ‘umano’ (ossia, il contrario di un elemento »preternaturale«)45.
14Coinvolgendo la questione del controllo generalizzato sul diritto, il tema suscitato da Sampson diveniva propriamente politico. Il discorso sembrava fare così riferimento a un altro aspetto del movimento popolare per la codificazione degli inizi del secolo, ossia all’atteggiamento di diffidenza del pubblico verso i giuristi. Da questa visuale, diffusa anche tra i »Jeffersonian agitators« del periodo precedente alla guerra anglo-americana del 1812, il ceto dei tecnici del diritto veniva a identificarsi con una casta privilegiata, per certi versi aristocratica, che rivendicava per sé il monopolio del giuridico46. E di certo, la crescita del numero dei reports giurisprudenziali, che sembravano al contrario allontanare dal diritto i non addetti ai lavori, non favoriva la conciliazione tra laici e giuristi47. Ma Sampson parve invece rifiutare questo schema interpretativo, anzitutto rifuggendo da un »antagonismo di classe«. Puntava piuttosto, mediante una riforma da promuovere nell’ambito della classe forense48, a rifondare il diritto sulla base di principi accessibili alle persone comuni, pensandosi come un moderno Lutero49.
15La necessità della riforma si amplificava, però, dinanzi a un »codice complicato e perplesso«, »irriducibile a regole fisse o principi generali«, qual era il sistema inglese50.
16Per Sampson, il common law non aveva forma ed era indefinibile51. Non era identificabile se non in opposizione ad altri ordini normativi52. Soprattutto – e qui a essere chiamate in causa erano la figura di Edward Coke e le origini della riflessione seicentesca sul common law – non coincideva affatto con il »senso comune« se non nella forma, innaturale e contraddittoria, di un »senso comune artificiale«53. La letteratura giuridica riusciva solo in parte a rimediare a questi difetti, anche di ordine sistematico. Questa considerazione valeva soprattutto per i Commentaries di Blackstone, un testo imprescindibile anche per gli studenti americani di diritto54. Ma dietro »l’affascinante eloquenza« del giurista, si nascondevano pur sempre i numerosi sofismi, pericolosi e di certo contrari ai principi politici condivisi e difesi dai cittadini di una libera repubblica55.
17Il testo di Blackstone, sul quale Sampson si soffermò a lungo, poneva in evidenza un altro punto della discussione. Ossia, la descrizione dei ‘vizi’ della »jurisprudence« insulare, in particolare dell’epoca normanna, e i contrapposti riferimenti al senso di giustizia sostanziale seppellito »under the narrow rules and fanciful niceties of the metaphysical Norman jurisprudence«56. Ma i richiami all’originaria purezza del diritto inglese non facevano altro che amplificare quel senso di mistero che aleggiava sul common law. Se anche fosse esistito questo »tesoro perduto«, seppure non si fosse trattato soltanto di una »tradizione favolosa«, di un sogno57, il destino comune sarebbe stato comunque deciso dalle astratte entità che dominavano il campo del diritto58. Allo stato di disordine di un turbamento »preternaturale« nessuna contromisura civile (legislativa, giudiziaria, dottrinale) avrebbe potuto porre rimedio. E il solo utile ricorso sarebbe stato alla dimensione magica e sacerdotale delle antiche pratiche59.
18Ma per Sampson, la scena era destinata a cambiare. I cittadini americani – arringava l’avvocato irlandese – sapevano che il diritto era, o avrebbe dovuto essere, un prodotto a essi soltanto riferibile e da essi dipendente (»the creature of their power; the work of their own hands«), così da farsi artefici del proprio destino anche politico (nel puro stile americano)60. Non poteva essere altrimenti. In caso contrario, infatti,sarebbe risultata evidente la frattura tra politico e giuridico. Ai posteri sarebbe toccata l’insolita immagine di un popolo avvezzo ai principi dell’autogoverno, ma dominato dall’idolo pagano di un diritto oracolare e mistico61. Un diritto che, peraltro, rifletteva la realtà anche politica dell’ex Madrepatria e che era stato ereditato dal passato coloniale.
19Mettendo da parte la voce di Sampson, l’idea di ‘soggezione’ al diritto inglese pareva anche richiamare, quantomeno sullo sfondo del discorso, quella che si era affermata come un’immagine ideologica della Gran Bretagna e degli Inglesi. Il »pregiudizio« popolare verso ciò che proveniva dall’altra parte dell’Atlantico62 riportava in qualche modo sulla scena del discorso pubblico la complicata vicenda dell’affrancamento politico dalla Gran Bretagna, e le conseguenti rivendicazioni identitarie emerse sin dagli anni della rivoluzione63. L’America era (e rimase) un prodotto della società coloniale. Ma la ribellione contro gli Inglesi aveva introdotto un potente motivo ideologico tra le componenti identitarie. E »l’immagine americana di un nemico inglese« rappresentava pur sempre »la prima immagine ideologica di un nemico nella storia moderna«64.
20Torniamo così al profilo di David Field e al nesso tra la formazione del giurista e le vicende pubbliche. L’evento del 1823 ispirò nel giovane di Haddam »un sogno vago e nebuloso di qualcosa di meglio«, che poi si trasformò nel proposito riformista che lo animò per tutta la vita. Ma non minore fu, secondo H.M. Field, l’influenza esercitata da Edward Livingston, le cui proposte di revisione del diritto in Louisiana erano state richiamate, con riguardo alla sfera del penale, anche nel discorso di William Sampson65 (insieme al ‘felice’ esempio del Codice civile francese66). Peraltro, mediante l’opera di Livingston anche l’immagine e il pensiero di Bentham – altro riferimento del movimento popolare in favore del codice – avevano trovato un canale di diffusione nel dibattito americano67. E nella biografia di David Field le proposte codificatorie di Livingston venivano indicate per prime, precedendo anche i rimandi alle tesi dell’avvocato irlandese68. Entrava così nel discorso un ulteriore riferimento ai protagonisti delle vicende riformistiche di inizio secolo, vicende che avevano anche portato alla promulgazione di un Codice civile69 in qualche modo vicino all’esperienza legislativa europea70. Entrato in vigore nel 1825, redatto in lingua francese e pubblicato unitamente a una traduzione in inglese (autoritativa ma tutt’altro che perfetta)71, il Codice civile della Louisiana era, infatti, fortemente influenzato dalla tradizione giuridica continentale e dal modello del Code civil del 180472.
21Ma David Field – sottolineava il suo biografo – non era un iconoclasta, aprioristicamente contrario alle tradizioni, anche culturali. Avrebbe anzi conservato, e »con religiosa cura«, »tutti i tesori« della sapienza giuridica tramandata dal passato73. Lo studio della materia giuridica non riuscì, però, a persuaderlo dell’ideale perfezione di un diritto ricevuto in eredità »dai padri«, al contrario risultante, a un attento esame, »una struttura artificiale« e fittizia74. Per quanto fosse indefinito nei profili programmatici, l’ideale riformistico del giurista americano era sufficientemente delineato, e poteva così riassumersi: il diritto, quale prodotto dei »governi umani«, avrebbe dovuto fondarsi sulla »giustizia naturale« ed essere espresso, il più possibile, in un linguaggio chiaro e semplice, così da risultare comprensibile alla generalità dei destinatari75. Iniziava così a prendere forma l’idea del codice come strumento per la chiara espressione del diritto, come parte del processo democratico e dello stesso progetto protestante, supportata dal giurista di Haddam nei lunghi anni delle dispute sulla codificazione nello Stato di New York (una vicenda iniziata negli anni ‘40 dell’Ottocento e durata oltre quarant’anni76).
3. Modelli dalle periferie del globo.
»A changeable law is no law at all«77.
22Dopo decenni di lotta per la riforma, la visione di Field del rapporto tra legge e giustizia sembrava lasciare ancora ampio spazio a questi ideali di fondo. La rappresentazione politica maturata negli anni della formazione intellettuale, espressa nella propaganda in favore della codificazione e in qualche modo estesa anche alla dimensione internazionalistica78, risultava ben ancorata al progetto di una codificazione di carattere generale, ritenuto da Field possibile e benefico79. L’idea del codice come strumento funzionale al processo democratico si mescolava a riferimenti dottrinali e a considerazioni metodologiche che avrebbero dovuto tradurre quella visione nel linguaggio tecnico del diritto. Il presupposto teorico di Field era (e continuava a essere) di tipo positivistico80. Parlando alla Law Academy di Philadelphia nell’aprile 1886, Field identificò il diritto con il solo »written law« ed equiparò ciò che veniva generalmente definito come »common law«, e che si distingueva dalla porzione statutaria dell’ordinamento giuridico, con il solo »law of precedents«. Una componente, quella casistica, qualificabile per Field come un »judge-made law« dei tempi moderni, che di certo prescindeva (come forse era sempre stato) da ogni connotazione di tipo consuetudinario81. Il riferimento alla legislazione giudiziale si accompagnava all’espresso richiamo al pensiero e all’opera di John Austin (1790-1859)82, oltre che al dibattito inglese di fine secolo sulla sistematizzazione delle discipline cambiarie83. Le esperienze legislative della Gran Bretagna avevano infatti dimostrato la possibilità di codificare ciò che ancora veniva chiamato »common« o »unwritten law« (per Field un diritto giurisprudenziale che tutto era fuorché »unwritten«84), peraltro in una forma in qualche modo riferibile alle teorie sistematiche formulate dal giurista e filosofo britannico85.
23Ma le voci contrarie alla codificazione, che opponevano argomenti politici e obiezioni teoriche, erano ancora forti86. L’idea di un ordinamento codificato, o comunque basato sul primato della legislazione, sembrava contrastare anzitutto con le visioni elitiste suggerite dalla cultura politica dei »Mugwumps«, e dall’attivismo dei fuoriusciti dal Partito Repubblicano in occasione delle presidenziali del 188487. Una cultura che immaginava la società come un ordine gerarchico al cui vertice si ponevano i membri di spicco dei gruppi cittadini colti e privilegiati – molti dei quali, avvocati e professori di diritto – identificativi di una quasi »aristocrazia naturale«88. L’avvocato di Manhattan (ma originario di Lancaster, Massachusetts) James Coolidge Carter, era un perfetto interprete della visione politica e dello stesso ‘tipo’ dei »Mugwumps«89. Laureato a Harvard (e poi presso la Harvard Law School), figura di spicco dell’avvocatura nazionale, Carter era stato determinante nell’opposizione della Bar Association della città di New York (1883) contro il Codice civile preparato da Field90. Carter, che identificava il diritto (»o quantomeno il diritto privato«91) con la consuetudine e con »standard« sociali condivisi, si diceva anzitutto diffidente verso il potere legislativo, il cui compito, più che creativo del diritto92, consisteva nell’apporre un marchio pubblico (»the public mark and authentication«) alle regole già esistenti. Di converso, guardava idealmente alla figura del giudice come interprete autentico della democrazia, oltre che come mero espositore (e non creatore) di un diritto già esistente93.
24Nel dibattito che si tenne nell’ambito del tredicesimo congresso annuale dell’American Bar Association (Saratoga Springs, agosto 1890), fu proprio Carter a ribadire questa visione giurisprudenziale, già alla base dell’efficace resistenza newyorkese contro il Codice civile, rivolgendola adesso a una platea nazionale di professionisti. Il giudice era qui descritto come una figura ‘tecnica’ – un esperto paragonabile in qualche modo a un arbitro – ma allo stesso tempo vicina alla dimensione comunitaria. Come tale, sapeva cogliere il senso del giusto sotteso a una data questione, orientandosi nella complessità degli elementi tecnici e giuridici, oltre che delle specifiche circostanze di fatto. La funzione del giudice veniva così identificata nell’individuazione, caso per caso, della regola (l’unica regola applicabile, »the just rule«) espressiva del sentimento condiviso di giustizia. In questo senso, il giudice era interprete del consenso sotteso al diritto, come elemento afferente al sociale e non al politico, e quindi già perfettamente comprensibile94. Nel discorso di Carter, che dell’associazione forense sarà anche Presidente per il periodo 1894-1895, veniva così a mancare il presupposto per la sostituzione di un codice (specie se concepito come prodotto di un atto creativo di legislazione) a una tradizione di testi e autorità di natura prevalentemente giurisprudenziale95. Andava al contrario preservata la corrispondenza tra consuetudine e diritto, parte dell’equilibrio tra comunità e istituzioni, che l’ordine giuridico tradizionale contribuiva in qualche modo a garantire96.
25Ma più che il contrasto tra giudiziario e legislativo, ciò che interessa qui sottolineare è un aspetto diverso, riguardante non tanto le visioni politiche alla base del dibattito ma i ‘metodi’ legislativi che da esso emergevano. La questione ci riporta a quella sorta di spartiacque, di bivio, degli anni a cavallo del congresso di Chicago del 1889. Il discorso pubblico iniziava per certi versi a mutare profilo, specie con riferimento alla componente tecnica e metodologica, strettamente connessa alle idee e ai modelli di codice emersi dal dibattito in America, e dal riflesso oltreoceano della discussione europea. L’epoca delle dispute sui ‘grandi’ modelli codicistici – strumenti per una profonda ridefinizione dell’ordinamento giuridico, a partire dal rapporto tra le fonti – pareva in qualche modo volgere al termine. Il dibattito di fine secolo metteva in certa misura da parte i riferimenti testuali offerti dal codice della Louisiana del 1825 (influenzato dal Code civil francese del 1804) o dal progetto di Codice civile dello Stato di New York, che per certi versi pure aveva rivolto lo sguardo al dibattito continentale (e attorno al quale si era sviluppato gran parte del discorso anti codificatorio tardo ottocentesco). E anche quella componente ‘tecnica’, in qualche modo problematica, contemplante la completa rivisitazione legislativa dell’ordinamento giuridico esistente97, veniva in parte accontonata. Al contrario, iniziava a imporsi nel dibattito l’idea di codificazione parziale – l’esatto opposto di quel modello – al centro della riflessione inglese dell’ultimo quarto del secolo. Peraltro, sull’altra sponda dell’Atlantico, la visione di un codice parziale, conservativo (almeno in apparenza) del preesistente, aveva innovato il dibattito sulla sistematizzazione del diritto, e aveva trovato precisi riscontri istituzionali, anzitutto nella legge nota come »Bills of Exchange Act« del 188298. Quasi alla fine della vicenda codificatoria riguardante lo Stato di New York, e a fronte delle resistenze verso ogni forma di codificazione del diritto privato (poi risultate vittoriose rispetto alle opposte tesi favorevoli alla sistematizzazione della particolare materia giuridica), anche David Field descrisse, nel 1886, i pregi del ‘testo’ inglese – definito come un »little English Code« – che se non altro pareva aver tradotto in formule legislative le regole e i principi emersi dalla giurisprudenza. E che, così facendo, aveva messo in pratica un efficace metodo di sistematizzazione del diritto (per certi versi già teorizzato decenni addietro da Austin99), venendo quantomeno a costituire la prova definitiva della codificabilità del common law100.
26L’esperienza inglese – che offriva anche un esempio del carattere transnazionale della discussione – aveva natura innovativa e per certi versi sperimentale. Il testo del 1882, definito dagli stessi protagonisti della vicenda legislativa come un »experiment in codification«101, sembrava infatti contemplare un rapporto accettabile tra il diritto giurisprudenziale e la legislazione commerciale. Anzitutto, a differenza dei progetti di codificazione riguardanti l’intero campo del diritto (risultanti al contrario per certi versi ‘impossibili’), la legge cambiaria si presentava come un testo di natura dichiaratamente parziale, e come tale rispettoso dell’ordinamento giuridico esistente. Sebbene contemplasse anche una marginale modifica del diritto, lo scopo dichiarato del progetto legislativo – che potè vantare in Inghilterra l’appoggio dell’Institute of Bankers e dell’Association of Chambers of Commerce102 (ma anche di Farrer Herschell, primo barone Herschell103) – consisteva anche (e forse soprattutto) nella trasformazione legislativa di regole e principi emersi nella pratica e già positivizzati mediante l’attività delle corti di giustizia. Da questa prospettiva, rivendicando uno scopo limitato e per certi versi conservativo degli assetti esistenti (ruolo del giudice compreso), l’esperimento inglese costituiva un nuovo modello di codificazione, lontano tanto dall’ideale benthamiano di legislazione, quanto dai ‘difettosi’ esempi di codice ‘completo’ sperimentati nel Continente europeo (e anzitutto dal Codice civile francese). In altre parole, la legge inglese, costituente un »codifying act« della materia cambiaria e dei titoli di credito, inaugurò un significativo cambio di passo rispetto ai preesistenti (e mutevoli) paradigmi insulari della codificazione104.
27Ma almeno due profili (tra loro assai diversi) intervennero a correggere questa particolare rappresentazione del progetto inglese. Il primo profilo riguarda l’originalità del modello dei codici ‘parziali’, espressivi dell’idea di »departmental codification«105. Un’idea che gli Inglesi avevano in realtà mutuato dagli esperimenti legislativi compiuti nella seconda metà del secolo in India – un ‘teatro’ dove tutto o quasi era possibile106 – come chiaramente emerse dal dibattito107. La legge del 1882 era stata predisposta dal giurista britannico M.D. Chalmers108 – già autore dell’opera A Digest of Bills of Exchange, Promissory Notes and Cheques (1878)109– che ne sottolineò a più riprese il carattere ‘sperimentale’110. Ma per quanto innovativo, il procedimento seguito per l’elaborazione della legge cambiaria coinvolgeva direttamente la vicenda della dominazione dell’India e la sperimentazione coloniale di un modello codicistico per il subcontinente111. Esperienze, queste, che suggerirono a Chalmers – stando alle sue stesse parole – l’idea di mettere mano al primo »successful attempt to codify any branch of English commercial law«112. Della visione che di questa vicenda offrì Chalmers (che aveva iniziato la sua carriera proprio a Calcutta tra i ranghi dell’amministrazione coloniale113) si parlerà nel prosieguo. Ciò che interessa qui sottolineare è, anzitutto, l’origine indiana (ovvero, anglo-indiana) del modello di »partial code«, implementato nel subcontinente principalmente come strumento di governo e gestione del territorio. Un modello, quindi, profondamente ‘coloniale’, che in qualche modo rifletteva una visione dicotomica del rapporto tra la tradizione giuridica locale e la legislazione imposta dagli Inglesi, funzionale alle rappresentazioni eurocentriche delle relazioni con le dipendenze, e alle stesse logiche imperiali di dominazione114. Ancora dopo decenni di governo inglese, l’India era infatti percepita e descritta come una dimensione stazionaria e premoderna, non ancora partecipe dei vantaggi della civiltà115. Ma con l’avvento della legislazione avrebbe beneficiato di uno strumento funzionale al progresso del territorio e dei suoi abitanti, anzitutto assicurando la radicale presa di distanze dalla dimensione normativa consuetudinaria e tradizionale, maggiormente espressiva del carattere di fondo – primitivo e incivile – di quelle aree116. Dal punto di vista metodologico – altro aspetto che qui interessa – i codici parziali indiani costituivano il risultato di una codificazione »by stages and detail«117, che gli Inglesi avevano sperimentato anche nelle forme di una legislazione in materia di titoli di credito, necessaria per la gestione dei traffici e dei transiti finanziari locali118. Di questi testi era parte integrante la legge nota come Negotiable Instruments Act (1881), che aveva recepito il diritto inglese in materia, mettendo da parte, di contro, le pratiche creditizie della tradizione locale, così da conservare poco o niente della consuetudine del subcontinente119. Ma per quanto espressivo della dimensione coloniale120, il modello avrebbe potuto funzionare – fatte le opportune modifiche – anche nei contesti del ‘civile’ Occidente, proponendo uno strumento moderno e potenzialmente ‘universale’, competitivo sulle piazze commerciali internazionali. Così facendo, avrebbe inciso (e in maniera non poco significativa) anche sui relativi sistemi ‘interni’ di diritto.
28Veniamo così al secondo punto della questione, riguardante le caratteristiche della legge inglese, oggetto di uno sguardo per certi versi distorto, che pur non nascondendo la portata creativa dell’esperimento ne ridimensionava in qualche modo l’ampiezza e l’incidenza rispetto all’ordinamento giuridico della Gran Bretagna. E questa distorsione inciderà (e, pare, non poco) sul dibattito americano di fine secolo in materia di unificazione del diritto commerciale.
4. Fine del »Law of principles«?
»In order to arrive at the true interpretation of that Act [the Bills of Exchange Act, 1882], I think it is necessary to consider non merely what was the law at the time of the passing of that Act, but what were the principles on which the different cases which declared the law were founded»121.
29La forza innovativa della legge cambiaria inglese risultava evidente specie con riguardo ad alcuni particolari ambiti tematici. La disciplina della circolazione dei titoli cambiari emessi all’ordine di un beneficiario inesistente (»fictitious or non-existing person«) costituiva, indubbiamente, uno di questi temi. Sulla specifica questione – un aspetto delicatissimo della materia commerciale – la legge inglese del 1882 aveva posto una regola apparentemente semplice da interpretare, racchiusa in meno di venti parole, stabilendo che »Where the payee is a fictitious or non-existing person the bill may be treated as payable to bearer« (sezione 7.3). La formula linguistica adoperata, però, ometteva un particolare non secondario, che segnava la distanza dalla consolidata giurisprudenza in materia. La clausola in parola, infatti, non faceva alcun riferimento all’elemento della consapevolezza del carattere fittizio del beneficiario cambiario. E ciò, come presupposto legittimante la circolazione al portatore dell’effetto commerciale, originariamente emesso all’ordine. In questo modo, modificava il diritto vigente, elaborato nell’arco temporale di oltre un secolo, risultante soprattutto dalle soluzioni adottate dalla giurisprudenza inglese (specie, del King’sBench e della House of Lords). Non un diritto legislativo, quindi, ma una disciplina casistica con alla base un insieme di regole e principi di natura giurisprudenziale.
30La rilevanza dell’elemento psicologico ai fini della configurazione della regola riportava il discorso al giudizio tardo settecentesco noto come »Minet and Another against Gibson and Another«122. Il caso aveva ad oggetto la circolazione di una lettera di cambio emessa in favore di un beneficiario inesistente, tale John White (»or order«). La causa, promossa contro i mercanti e banchieri Thomas Gibson e Joseph Johnson, venne definita dalla Corte delKing’sBench nel novembre 1789, nelle ultime fasi del calendario giudiziario (»Thursday, Nov. 24th«). Accertate le circostanze di fatto mediante una »special jury«, i giudici di Westminster stabilirono che gli effetti cambiari emessi all’ordine di un beneficiario inesistente avrebbero potuto circolare alla stregua di un titolo al portatore, sussistendo determinate circostanze. In particolare, che il carattere fittizio del »payee« fosse noto al traente e al trattario, anche nella veste di obbligato cambiario o »acceptor«. E che l’ultimo prenditore della lettera di cambio, immesso nel possesso del titolo mediante una girata piena apparentemente sottoscritta dal beneficiario inesistente, avesse agito in piena buona fede, così da potersi senza dubbio considerare »an innocent indorsee«. Al ricorrere di queste circostanze, il giratario avrebbe avuto diritto al soddisfacimento dell’obbligazione portata dal titolo, formalmente circolante all’ordine, agendo nei confronti del trattario come se l’effetto commerciale fosse pagabile al portatore123.
31Il giudizio Minet v. Gibson era stato deciso con riferimento a una precedente vicenda giudiziale, rubricata come »Vere and Others against Lewis and Another« (1789), caratterizzata da simili circostanze e definita dalla Corte di Westminster in senso favorevole agli attori, ultimi giratari in buona fede del titolo cambiario124. Inoltre, dal caso rubricato come »Tatlock and Another against Harris«125, trattato dal King’sBench nel maggio del 1789 (»Friday, May 8th, 1789«), era già emerso che la consapevolezza del carattere fittizio del »payee« avrebbe dispensato il giratario della lettera di cambio dal dimostrare la genuinità della prima girata e della relativa sottoscrizione, così derogando, data la particolarità delle circostanze, rispetto a una regola di applicazione generale126.
32Un secolo dopo gli eventi qui indicati, questi e altri casi noti in materia commerciale (tra cui, Gibson v. Hunter127e Bennett v. Farnell128) vennero richiamati dalla Court of Appeal ai fini ricognitivi della disciplina riguardante la circolazione degli effetti cambiari emessi all’ordine di una persona fittizia o inesistente (1889)129. Anche in questa vicenda giudiziale, avente ad oggetto il celebre caso Vagliano Brothers v. The Bank of England130, venne rimarcato, non senza riferimenti alla lunga corrente giurisprudenziale, come la circolazione al portatore, e non più all’ordine, della lettera di cambio dipendesse dalla consapevolezza del carattere fittizio del beneficiario, oltre che dalla buona fede del soggetto avente titolo al pagamento. La condizione soggettiva del traente o del trattario, da dimostrare rigorosamente in giudizio e a tali soggetti opponibile ai fini del pagamento del titolo, era infatti riconosciuta come requisito per l’operatività dell’eccezione alle ordinarie regole sulla circolazione delle lettere di cambio, così da rispondere a riconosciute esigenze di tutela del credito, conformemente ai principi del diritto mercantile e della stessa prassi commerciale131.
33La dottrina emersa nel caso Minet v. Gibson, e ripresa in altri rilevanti pronunce, era stata recepita anche nel contesto americano, come testimoniato dall’opera di Joseph Story dedicata alla sistematizzazione della disciplina cambiaria »as administered in England and in America«132, oggetto di espressa analisi anche da parte della Court of Appeal nel citato caso del 1889133. Nella sezione 56 del testo di Story, dopo l’indicazione dei requisiti formali della lettera di cambio, veniva ribadita la regola a lungo sostenuta presso i tribunali inglesi a partire dal 1789. Ossia che, »[...] a Bill, made payable to a fictitious person, or his order, and indorsed in the name of such fictitious Payee, in favour of a bonâ fide Holder, without notice of the fiction, will be deemed payable to the Bearer, and may be declared on as such against all the parties, who knew the fictitious character of the transaction«134. Anche la sezione 200 ribadiva questa particolare regola, insistendo proprio sul requisito soggettivo: »If the Bill is payable to a fictitious person or order, (as has been sometimes, although rarely, done,) then, as against all the persons who are parties thereto, and aware of the fiction (as, for example, against the Drawer, Indorser, or Acceptor), it will be deemed a Bill payable to the Bearer in favour of a bonâ fide Holder without notice of the fiction [...]«135.
34La situazione inglese era però destinata a cambiare, e non di poco. E quando nel 1891 anche la House of Lords fu chiamata a pronunciarsi sul caso dei fratelli Vagliano (un caso del valore complessivo di »71,500l«136), venne fatta applicazione proprio della norma prevista dalla sezione 7.3 della legge cambiaria, senza alcun riguardo alla presenza dell’elemento psicologico e alla lunga tradizione giurisprudenziale (e nemmeno alla regola dettata dalla dottrina dell’»estoppel«, ritenuta per lungo tempo applicabile alla materia137). E ciò, nonostante l’aperta (e consapevole) contrarietà di tale previsione rispetto ai precedenti giudiziali. Peraltro, secondo Lord Herschell – che figurava tra i giudici del caso – la decisione della vicenda imponeva non già la ricostruzione storica dei principi del diritto commerciale, tanto meno come punto di partenza per l’interpretazione della disciplina legislativa, come invece era stato fatto dalla Court of Appeal nel precedente grado di giudizio (trovando così supporto per respingere l’appello della Bank of England)138. Al contrario, richiedeva l’analisi del contesto letterale delle clausole codicistiche, senza che lo stato del diritto precedente all’entrata in vigore della legge, così come i principi a esso sottesi, potessero influenzare, in senso restrittivo, la delimitazione dei confini applicativi del testo. In caso contrario, l’utilità del Bills of Exchange Act sarebbe stata »quasi interamente distrutta«, così da impedire il raggiungimento dell’obiettivo fissato dal legislatore. Ossia, che il diritto fosse accertato mediante la ‘semplice’ lettura del testo di legge, evitando di passare in rassegna, ai fini ricognitivi e poi ermeneutici, un vasto numero di casi già definiti139.
35Per Lord Herschell, che come accennato aveva supportato l’emanazione del Bills of Exchange Act, la legge del 1882 era una forma di codice, ma non nel senso di costituire »merely a code of the existing law«. La legge aveva, infatti, l’obiettivo (ma anche l’autorità) di modificare specifiche regole giuridiche, anche se rispondenti a una tradizione giurisprudenziale. La legge cambiaria, ricordava poi Lord Herschell, faceva salve le regole di common lawin materia di titoli di credito, ma questa salvaguardia incontrava il limite del conflitto con le previsioni codicistiche (sezione 97, comma 2). Pertanto, in caso di divergenza con le »authorities« preesistenti all’entrata in vigore del nuovo ‘codice’, doveva ritenersi introdotta nell’ordinamento un’innovazione normativa, senza con ciò contraddire il carattere di »codifying act« del testo. Così che, nel contrasto tra norme cambiarie di diversa natura e origine, non sarebbe stato possibile – né conforme ai radicati criteri ermeneutici – interpretare le clausole del Bills of Exchange Act in modo da farle forzosamente coincidere con regole di common law precedenti ma difformi rispetto alla disciplina legislativa, e come tali destinate a cedere dinanzi all’autorità del nuovo testo.
36La trasformazione della disciplina commerciale da »law of principle« in »law of language« (qualcosa di simile a ciò che aveva affermato Lord Herschell nel 1891) costituiva uno degli argomenti di punta della critica anti codificatoria, in Inghilterra come in America. Fu così che, nell’ambito del dibattito americano sulla sistematizzazione del diritto e l’unificazione delle discipline commerciali, il carattere innovativo della legge del 1882 finì (più o meno consapevolmente) in secondo piano. Ma l’influenza della legge inglese trovò precisi riscontri nel contesto americano, e ciò a partire dall’ultimo decennio del secolo XIX. La questione si legò strettamente alla nascita dell’organizzazione nota come National Conference of Commissioners on Uniform State Laws, riunitasi per la prima volta a Saratoga Springs, nello Stato di New York, nell’estate del 1892140. Composta da giudici, avvocati e professori di diritto, e supportata dall’opera dell’American Bar Association141, l’organizzazione sarà destinata a mutare il volto istituzionale e i profili del discorso pubblico sul codice e l’unificazione del diritto nell’America del Nord.
5. Materiali per nuovi dibattiti.
»Codification is with us a new art [...]«142.
375.1. L’evento istitutivo di Saratoga Springs del 1892, cui parteciparono i rappresentanti di sette Stati, si presentò come una vicenda in qualche modo epocale, e venne infatti salutato – e ciò »is probably not too much to say« – come »the most important juristic work undertaken in the United States since the adoption of the Federal Constitution«143. Pochi anni dopo l’evento fondativo, i lavori della National Conference of Commissioners on Uniform State Lawsprodussero, in effetti, i primi tangibili risultati nel campo dell’unificazione delle discipline cambiarie. Alla fine di agosto del 1895, i rappresentanti di diciannove Stati riunitisi presso l’Hotel Cadillac di Detroit, Michigan, per il quinto congresso annuale dell’organizzazione, ascoltarono la relazione del giudice Lyman Denison Brewster di Danbury (il cui profilo emergerà ancora nel prosieguo)144. Parlando come rappresentante per lo Stato del Connecticut (ma anche come chairman del »Committee on Commercial Law«), Brewster informò i presenti di avere commissionato a »Mr Benjamin«, editore americano dell’opera di M.D. Chalmers sulla disciplina dei titoli di credito, di predisporre un disegno di legge in tutto simile al Bills of Exchange Act. Dopodiché, diede conto della corrispondenza intercorsa con Lord Herschell (»the present Chancellor of England«), così da esaltare l’utilità della legge inglese del 1882 (sulla quale, aveva infatti segnalato Lord Herschell nei documenti richiamati da Brewster, »there was a common agreement in the country [...]«). Peraltro, la legge inglese era stata adottata »one after another by all the self-governing British colonies«, così da risultare applicabile in tutti i domini britannici145. Ma soprattutto, emergeva dal testo citato, Herschell aveva espresso il proprio convincimento in ordine alla possibile implementazione oltreoceano della legge inglese, a vantaggio degli interessi commerciali di entrambe le sponde dell’Atlantico146. La Conference dovette effettivamente concordare con Brewster e i suoi richiami all’Inghilterra. Dopo l’intervento del giudice di Danbury venne infatti disposta la preparazione di un disegno di legge relativo alla materia dei titoli di credito, e ciò, anzitutto, sulla base del diritto statutario inglese147.
38Il sesto incontro della Conference, che si tenne presso il Grand Union Hotel di Saratoga Springs nell’agosto dell’anno successivo, venne presieduto proprio da L.D. Brewster148. E nella qualità di chairman, oltre che di presidente del »Committee on Commercial Law«, il giudice di Danbury lesse ai presenti il report delle attività annuali svolte dal comitato speciale. Dava così conto del fatto che il disegno di legge in materia di negotiableinstruments era stato effettivamente preparato, e ciò grazie soprattutto alla collaborazione dell’avvocato di New York J.J. Crawford, esperto in materia cambiaria, tra i nuovi protagonisti del dibattito. Il testo presentato all’incontro di Saratoga Springs, apertamente ispirato alla legge inglese, venne approvato con alcune modifiche e divenne poi noto come »Negotiable Instruments Act« (o anche come »Negotiable Instruments Law«)149. Il testo – aspetto che qui maggiormente interessa – iniziò poi a essere effettivamente adottato dai singoli legislatori statali, circostanza segnalata già in apertura del successivo meeting della Conference, il settimo, che si tenne a Cleveland nell’agosto 1897150(ma anche al principio dell’ottavo convegno, dell’agosto 1898, dove si diede conto dell’»endorsement« ricevuto dal »Negotiable Instruments Act« presso la Corte Suprema di Rhode Island)151.
39Accanto alla circolazione del disegno di legge, un altro elemento viene qui in evidenza, riportando il discorso al tema del transito di saperi ed esperienze, con particolare riferimento all’influenza esercitata dall’esperimento codificatorio inglese. In questa comparazione tra le due sponde dell’Atlantico, nel raffronto con la legge cambiaria del 1882, fu anzitutto il metodo legislativo della codificazione parziale – prima ancora che la normativa di dettaglio – a essere al centro del dibattito americano. I due “testi” – la legge inglese e il disegno di legge del 1895-96 – coincidevano sotto molti aspetti. Ma la disciplina dei singoli istituti commerciali venne concepita come un autonomo versante del dibattito e come un elemento suscettibile di un fisiologico distanziamento tra i due ordinamenti giuridici dipendente soprattutto dalle differenze dei contesti di riferimento. E in queste divergenze locali, anche il rispetto della tradizione giurisprudenziale – così come variamente recepita e implementata – giocò un ruolo non secondario. Proprio la materia della circolazione dei titoli emessi in favore di un beneficiario inesistente (il punto evidenziato precedentemente) sembra offrire un esempio di questa tendenza. Il testo approvato dalla Conference era meno ‘distante’ proprio dai principi giurisprudenziali disciplinanti la materia, originariamente elaborati – come anticipato – nel contesto inglese. La sezione 9.3 del disegno di legge adottato dal congresso di Saratoga Springs del 1896 stabiliva, infatti, che »The instrument is payable to bearer when it is payable to order of a fictitious or no-existing person, and such fact was known to the person making it so payable«152.
40Oltre agli aspetti tecnici del testo, interessa qui sottolineare – prima di passare ai protagonisti del dibattito e alle loro proposte – l’innovatività delle scelte operate e implementate dalla Conference nel biennio 1895-1896, come anche l’emersione di nuovi ‘discorsi’ a partire dai nuovi ‘testi’ del periodo 1882-1896. La questione si pose già dopo qualche anno dalla vicenda di Saratoga Springs del 1896, data anche l’ampia diffusione del disegno di legge, che risultava adottato, agli inizi del nuovo secolo (1903), da ventuno Stati, un Distretto e un Territorio dell’Unione153. Decorso circa un ventennio dall’esperimento inglese, il potenziale sistematico della »departmental codification« appariva chiaro ai commentatori americani. Nella visione retrospettiva degli eventi offerta da un articolo dell’agosto 1902 pubblicato su “The American Law Register”154, oltre ai collegamenti con la vicenda inglese e al successo del testo del 1882 presso »mercanti, banchieri e giuristi inglesi«155, erano messe da subito in evidenza le caratteristiche propriamente codificatorie del disegno di legge del 1896. A partire dalla considerazione (fatta risaltare anche con l’enfasi del corsivo) che »[...] no one can judge the new act fairly who does not realize that the Commissioners were attempting to codify the law«156. In altre parole, veniva qui sottolineato come anche il discorso giuridico americano avesse fatto ricorso al concetto di »codifying act«, in sostanziale adesione al nuovo modello legislativo inaugurato dal Bills of Exchange Act del 1882. Ossia, a quello di un testo di legge dichiaratamente ‘parziale’, operante (almeno in apparenza) una semplice trasposizione legislativa del diritto esistente in materia commerciale, coinvolgendo una disciplina in buona parte già emersa nella pratica e positivizzata anche (e soprattutto) mediante l’attività degli organi giurisdizionali.
41Ma il carattere innovativo della legge inglese (lo si è accennato in precedenza) emerse solo marginalmente. Al contrario, il significato assunto dall’espressione »codifying act« era ormai in linea con i nuovi paradigmi inglesi sulla sistematizzazione del diritto, sempre più distanti dai propositi di una riforma radicale, sostitutiva del precedente (circostanza che, lo vedremo tra breve, era chiara anzitutto a Brewster). Lo dimostrava lo stesso scopo seguito dai commissari del 1896, messo in luce nel testo del 1902. Ossia, il proposito di dichiarare autoritativamente, in modo accurato e conciso, il diritto esistente in materia di titoli di credito, riproducendo il più esattamente possibile quello che »the great weight of authority had declared to be the law«157. Non era in contrasto con questa tendenza la selezione di particolari soluzioni giuridiche tra le diverse possibili (dovendosi pur sempre operare una scelta in presenza di opinioni contrastanti), e tanto meno la correzione degli scostamenti normativi dagli uniformi orientamenti giurisprudenziali158. In definitiva, il modello legislativo in questione si mostrava conservativo del precedente, anche a tutela del buon ordine commerciale. L’adesione del disegno di legge ai risultati della giurisprudenza (espressivi di un diritto esistente nella prassi) costituiva il miglior presidio di uniforme applicazione della disciplina cambiaria all’interno della comunità mercantile. Non a caso, nella redazione del testo del 1895-96 si era deliberatamente cercato di conservare, dove possibile, »the use of words which have had repeated construction by the courts, and have become recognized terms in the law merchant«159.
425.2. Venendo al secondo aspetto, anche i testi del 1895-96, e in generale il modello cui si ispiravano, offrirono materiali utili allo sviluppo del dibattito in materia di unificazione della disciplina commerciale. La controversia che contrappose J.B. Ames e L.D. Brewster sul tema rappresentò un rilevantissimo contributo dottrinale (tra i maggiori del periodo) sul disegno di legge predisposto dalla National Conference of Commissioners on Uniform State Laws160, toccando gli aspetti tecnici del testo ma senza tralasciare considerazioni metodologiche e di politica legislativa. Sebbene il dibattito non assunse i toni radicali di una disputa sui pro e i contra della codificazione in generale, J.B. Ames e L.D. Brewster avevano comunque opinioni differenti sul progetto di legge e sulla portata della sua diffusione161.
43James Barr Ames, al tempo Dean della Harvard Law School, si mostrò critico anzitutto verso la generalizzata adesione legislativa al testo del 1896 da parte dei singoli Stati. Dalle pagine della “Harvard Law Review” sostenne che l’adozione del disegno »by fifteen states« (al tempo della stesura dell’articolo, poi pubblicato nel novembre 1900) »must be regarded as a misfortune, and its enactment in additional states, without considerable amendment, should be an impossibility«162. Non che la proposta fosse priva di meriti163. Ma accanto ai pregi, Ames denunciava l’esistenza di »serious defects of commission and omission in the new code«, che avrebbero potuto inficiare un risultato legislativo caro a molti164. Ames registrava, infatti, una certa convergenza di interessi attorno ai temi della codificazione delle discipline cambiarie, e in generale dell’uniformazione del diritto commerciale. Non poteva tacersi come »il piano« seguito dalla Conference di unificazione delle discipline su »Bills and Notes« avesse riscosso ampio successo in numerosi contesti statali (un risultato tale da giustificare la prosecuzione dell’operazione legislativa proprio sulla base del ‘codice’ proposto dai Commissioners). Allo stesso tempo, risultava evidente la necessità di una profonda modifica del testo, finalizzata a rendere la nuova legislazione, se non proprio inattaccabile, almeno resistente al fuoco delle avverse critiche165. E ciò anche nell’interesse di una »futura codificazione« non meno che »for the sake of the law itself«166. I difetti tecnici erano numerosi (riscontrabili in »circa ventitré sezioni«, oggetto della puntuale critica di J.B. Ames167) ma non irrimediabili, richiedendo al contrario »only the use of scissors«168. Ma anche rimediando a questi difetti della disciplina, sarebbe comunque rimasto l’errore di fondo di tipo metodologico, consistente nella carenza di un adeguato confronto critico sulle previsioni del disegno di legge del 1896. Il riferimento era al »public criticism«, come espresso in particolare da figure ‘tecniche’, da avvocati e giudici, professori, commercianti e banchieri169. Nonostante le critiche, parve mancare, anche qui, la radicalità che in altri tempi aveva caratterizzato il dibattito. Quella della codificazione era per gli Stati Uniti »una nuova arte«, circostanza che in qualche modo giustificava i difetti del testo del 1896. Proprio »in vista della novità del lavoro« l’errore di metodo riscontrato (e che invece era stato scansato dagli avveduti »continental codifiers«170) era da giudicarsi tutt’altro che innaturale, e comunque correggibile mediante la revisione contenutistica e formale del testo.
44Lyman Denison Brewster figurava invece – come già indicato – tra i protagonisti delle vicende di Detroit e di Saratoga Springs (1895-1896), come anche degli eventi che avevano portato all’approvazione e alla diffusione interstatale del disegno di legge. Ma il ruolo di Brewster andò ben oltre l’aspetto meramente ‘tecnico’ (o se vogliamo ‘istituzionale’) del dibattito. Il giurista americano, il cui profilo ricordava per diversi aspetti la figura e l’esperienza di David Field, richiamò nel discorso pubblico alcune delle rappresentazioni poste a sostegno del codice dal giurista di Haddam, che lo precedette di un quasi un trentennio. Nato a Salisbury, Connecticut, nel 1832, anche Brewster discendeva da una vecchia ed eminente famiglia della Nuova Inghilterra (peraltro, connessa agli eventi seicenteschi della colonizzazione della costa atlantica). I Brewster di Plymouth erano stati tra i protagonisti delle vicende americane degli anni venti del Seicento, specie grazie al predicatore calvinista William Brewster, fondatore della chiesa di Scrooby, in Inghilterra, giunto sulle coste del New England a bordo della nave Mayflower (descritto dal suo discendente come »il leader morale, religioso e spirituale« del nuovo insediamento coloniale171). Avvocato e poi giudice, Brewster rappresentò negli anni ‘90 dell’Ottocento un punto di riferimento teorico in tema di riforma e codificazione del diritto172. E come già Field, anche Brewster – conosciuto, negli ultimi anni di vita, anche per l’opera svolta nell’ambito della Connecticut Society of the Mayflower Descendants – legò gli aspetti della riforma a tematiche di tipo religioso, oltre che a una particolare visione della società e del diritto173. Ma quanto al modello di codice, le posizioni di Brewster e Field parevano almeno in parte divergere. La visuale di Brewster non era quella di una »general codification«, avvicinandosi piuttosto al modello di »departmental codification«, in qualche modo rappresentativo dei mutati contesti del dibattito nazionale di fine secolo, e dei nuovi testi di riferimento.
45Il contributo dottrinale di Brewster rispetto al disegno del 1896 (specie con riferimento alle questioni tecniche sui titoli di credito e la loro circolazione) venne riassunto e confluì in una serie di articoli scritti in risposta a J.B. Ames, pubblicati sul “Yale Law Journal” e sulla “Harvard Law Review”174. Più che il versante teorico della questione, a essere rappresentativo dei nuovi discorsi erano gli aspetti divulgativi dell’opera di Brewster, a lungo ricordato, specie con riferimento al »business law«, come »an earnest advocate of reform«175.
6. Saratoga Springs, 1898: codici e connessioni atlantiche.
»Merchants, and bankers say, that it is a great advantage to them to have the whole of the general principles of the law of bills, notes, and checks contained in a single Act of one hundred sections«176.
46Parlando al ventunesimo congresso dell’American Bar Association, che si tenne a Saratoga Springs nell’agosto 1898, L.D. Brewster difese a lungo le scelte adottate dalla National Conference of Commissioners on Uniform State Laws nel biennio precedente. Il merito dell’organizzazione era stato quello di saper cogliere lo spirito dei tempi, e di aver valorizzato, per venire incontro alle esigenze del Paese, lo strumento normativo della legislazione commerciale. Anzi, del ‘codice’ commerciale (tale era il disegno di legge del 1896) che per quanto parziale era pur sempre differente rispetto alla semplice legislazione. Il codice rappresentava, per Brewster, un potenziale veicolo in direzione dell’unità del diritto e del mercato, contrapponendosi ai fattori di differenziazione sul piano regionale. L’implementazione del testo approvato a Saratoga Springs avrebbe contrastato, prima di ogni altra cosa, l’attitudine a produrre nuovo diritto legislativo di rilevanza meramente locale, una tendenza definibile come »the fecundity of legislation«177. La riflessione di Brewster prendeva in considerazione, anzitutto, il transito dei discorsi tra le due sponde dell’Atlantico, facendo emergere un’idea di sistematizzazione legislativa perfettamente compatibile con quella di »partial code«, come elaborata nell’ambito del dibattito inglese tardo ottocentesco (a sua volta influenzato dalle sperimentazioni legislative indiane). Il modello inglese costituiva, infatti, il »primo importante tentativo« di codificazione del diritto commerciale nel contesto insulare, implementato nelle forme ‘sperimentali’ di un codice parziale178. »Parziale«, pur essendo »accurato« e »completo« con riferimento alla specifica materia delle discipline cambiarie179. Ma per quanto inedito per la storia giuridica inglese, il testo del 1882, come anticipato, non era del tutto originale, e ciò pareva essere ben noto a Brewster. Anche perché, a ben vedere, più che nella sperimentazione del metodo legislativo, il carattere innovativo della legge cambiaria poteva forse rinvenirsi nelle stesse dinamiche transnazionali di emersione e implementazione del testo. In particolare, nella circostanza della trasposizione nella Metropoli di un metodo sistematico inaugurato dagli Inglesi nel subcontinente indiano, e nella conseguente inversione delle logiche della governamentalità coloniale180. L’adozione della legge cambiaria rese infatti visibile nel contesto occidentale, operando dal ‘centro’ dell’Impero, un metodo legislativo fino ad allora relegato nelle periferie coloniali, oltre che nelle pagine delle opere giuridiche aventi carattere sistematico.
47Nel discorso di Brewster, legge e letteratura giuridica costituivano, comunque, elementi di una riflessione unitaria, sebbene riguardante contesti spaziali tra loro assai differenti. Quanto all’origine del ‘modello’, Brewster non ometteva nemmeno di considerare la corrispondenza del testo inglese, quantomeno nella forma, tanto con gli »Indian codes«, quanto con »the successful works of Sir James Stephen on the Law of Evidence, and Frederick Pollock on the Law of Partnership« (opere, queste, a loro volta influenzate dalla vicende legislative indiane181). Tra gli antecedenti della legge del 1882 figurava, naturalmente, anche il Digest di M.D. Chalmers, che peraltro era dichiaratamente ispirato ai lavori di J.F. Stephen e F. Pollock, di poco precedenti. Anzi, con riferimento alla disciplina dei titoli di credito, la sistematica trasposizione legislativa di regole giurisprudenziali e principi contenuti in leggi disparate era riuscita proprio grazie agli sforzi letterari di Chalmers, che aveva, poi, di fatto trasformato la sua opera del 1878 nel disegno di legge cambiaria del 1881. E per quanto oggetto di parziale modifica da parte dei vari comitati ristretti intervenuti nella vicenda182, il testo approvato dal Parlamento riproduceva, in larga parte, l’opera del giurista britannico. Infatti, la legge del 1882 »was a practical enactment into law of Judge Chalmers’ digest«, e per la maggior parte del testo »the propositions of the Act were taken, word for word, from the propositions of the digests«183.
48Parlando delle caratteristiche tecniche del Bills of Exchange Act (che rimaneva un riferimento teorico in qualche modo obbligato), a emergere dal discorso di Brewster era il carattere ‘conservativo’ della legge, rappresentata come strumento tendente anzitutto a ‘ricostruire’ le discipline cambiarie sulla base del diritto esistente, in larga parte di natura casistica e giurisprudenziale. L’Act del 1882, era vero, aveva anche una portata creativa e innovativa, come argomentato da Lord Herschell nell’ambito del caso Vagliano del 1891184. Ma il testo veniva comunque visto, anzitutto, come una »codification of existing law«, compatibile con l’idea di una trasposizione legislativa di regole già emerse anche in sede giudiziale e rispettosa dei limiti imposti dal rapporto legge/giurisprudenza185. Quanto al tema della ‘riproducibilità’ del modello inglese nel contesto americano – un argomento da lungo tempo supportato da Brewster – occorreva, però, fare una specificazione, e non di poco conto. Il disegno di legge adottato nel 1896 si ispirava apertamente al Bills of Exchange Act, anzitutto con riferimento alla particolare ‘forma’ legislativa di »partial code« caratterizzante il testo del 1882. Ma rispetto ai contenuti normativi e alla stessa ‘struttura’ generale, il disegno di legge adottato al congresso di Saratoga Springs rivendicava un certo grado di originalità. Anzitutto, i due testi differivano in merito ad alcune scelte ‘sistematiche’. La legge del 1882 – segnalava Brewster – riprendeva alcune caratteristiche tipiche dei codici continentali (specialmente »the French Commercial Code, and the German Bills of Exchange Act«) in ordine alla valorizzazione della normativa delle lettere di cambio, rispetto alla disciplina degli altri titoli di credito186. Al contrario, sotto l’aspetto della sistematizzazione della materia, il disegno americano era propriamente originale. »The draftsman of the American Act [...]«, ricordava Brewster, »adopted a form of his own, which grouped together the provisions applicable to all kinds of negotiable instruments, and then collected, under separate articles, the provision specially affecting the different classes«187. In questo modo, il disegno del 1896 aderiva meglio alle condizioni americane, migliorando il modello legislativo di riferimento mediante un più efficace sforzo sistematico. E di questi aspetti, sarebbero stati consapevoli anche alcuni dei protagonisti della vicenda legislativa inglese, a partire da Arthur Cohen, che affermò con decisione, rivolgendosi agli interlocutori americani, come lo stesso linguaggio della proposta del 1896 risultasse »singolarmente felice« anche nel confronto con l’esempio inglese: »it is more clear, concise, less stiff, and artificial than of our Bills of Exchange Act, and in this respect (one by no means unimportant) your draft is an improvement on our Act.”«188.
49Il rivendicato carattere peculiare del disegno di legge del 1896 emergeva anche da altri aspetti contenutistici, che mettevano anzitutto in evidenza la continuità con l’ordinamento giuridico esistente (a partire dal contesto casistico). Il testo era supportato, clausola dopo clausola, dai risultati della giurisprudenza ‘interna’, di cui cercava di conservare il significato anche letterale, specie se recepito nella pratica mercantile. Il punto era assai significativo. Anche nelle parole di Brewster, questo modello di legislazione si poneva non in contrasto ma in linea con la giurisprudenza, il cui ruolo sarebbe stato anzi valorizzato mediante la positivizzazione legislativa di regole e principi emersi dai casi. Il ‘codice’ assumeva, così, il significato nuovo di uno strumento finalizzato a trasporre in espresso linguaggio legislativo regole e principi supportati da »authorities« giudiziali (e a risolvere i conflitti interpretativi delle corti statali nella prospettiva dell’uniformità giurisprudenziale189), oltre che a sistematizzare già esistenti norme di natura legislativa. Poteva così considerarsi un ‘prodotto’ normativo propriamente »americano«, piuttosto che »an “Americanized” Act« sui titoli di credito190.
50Venuto nuovamente alla ribalta dopo la guerra civile, il tema ‘scottante’ della codificazione andava affrontato e risolto »by experiment, and experience«. E in ciò il modello di »partial code« poteva costituire un utile riferimento, avendo mostrato i vantaggi di un’opzione intermedia tra i poli opposti di una codificazione omnicomprensiva di stampo benthamiano e il rifiuto di qualsiasi forma di sistematizzazione del diritto. La sperimentazione già compiuta in Inghilterra appariva convincente, mostrando una soluzione di compromesso praticabile e ragionevole. La verità sul tema (»the real truth«), »la saggia soluzione del problema«, andava appunto ricercata nel mezzo, »tra gli estremi«, e in particolare nella codificazione parziale191. L’emersione del nuovo paradigma codificatorio aveva avuto anche il merito di mutare, almeno in Inghilterra, i termini del quesito codificatorio, »no longer a question of everything codified, or nothing codified, but as to what branches of law can be best codified«192. E la materia cambiaria – altra particolarità della vicenda – rientrava a pieno titolo nel campo del diritto suscettibile di codificazione. Gli stessi avversari del codice – a partire da R.F. Clarke193, ma il discorso poteva essere rivolto anche a J.C. Carter194 – ritenevano che il diritto commerciale potesse essere utilmente posto nelle forme della legislazione e finanche in quelle di un codice parziale195. E se anche »the latest, and most extreme opponent of general codification«, appunto Clarke, »admits the propriety, and utility of a code on negotiable instruments, it can hardly be opposed elsewhere, with the objection that it takes on the proportions of a code«196.
51Peraltro, l’adozione del testo del 1896 avrebbe ridotto sensibilmente l’estensione della stessa legislazione, oltre a favorire l’unificazione del diritto sul piano nazionale. E ciò, peraltro, senza pretesa di innovare la disciplina, ponendosi come »a statement of existing law, and not an attempt to state what the law should be«. Così da contribuire alla razionalizzazione del sistema, ma senza strappi con l’ordinamento esistente e senza rischi di impoverire il discorso giuridico, come anche l’esperienza inglese aveva mostrato197. Le decisioni adottate dalle corti inglesi a partire dal testo di legge del 1882 (il riferimento era, ancora una volta, anzitutto al caso Vagliano) avevano smentito, secondo Brewster, la tesi del necessario ‘irrigidimento’ del diritto codificato, a discapito di ogni possibile e benefico sviluppo evolutivo. E con ciò, evidenziando la razionalità dei giudizi delle corti inglesi e l’applicazione giudiziale del testo del 1882, anche il tradizionale argomento critico della ‘rigidità’ del codice veniva di fatto a cadere. Di questa significativa esperienza pratica si era giovato anche il disegno di legge americano del 1896, che a sua volta costituiva un validissimo esempio del ‘tipo’ legislativo dei codici parziali, costituente, oltretutto, il prodotto del lavoro di più menti, di mani esperte provenienti da paesi separati dal mare, »jurists, and lawyers of experience on both side of the Atlantic«198.
52
7. Albany, 1903: diritto, legge e unità nazionale.
»The whole matter of uniformity is, really, not at all, a question as to the very nice line of demarcation between what is properly the work of the judges, and what is properly the work of the legislators«199.
53Il venticinquesimo congresso annuale dell’American Bar Association (Saratoga Springs, agosto 1902) ebbe tra i protagonisti proprio l’autore dei ‘testi’ (letterari, legislativi) alla base del disegno di legge approvato nel 1896 a Saratoga Springs, ossia M.D. Chalmers200. Quelle collaborazioni atlantiche evidenziate da Brewster, coinvolgenti teorici e pratici del diritto, erano qui poste in risalto a partire dal comune riferimento normativo rappresentato dal common law, quale elemento in qualche modo imprescindibile anche con riguardo ai progetti di riforma201. Nel discorso di Chalmers, infatti, il modello legislativo da porre alla base di una sistematizzazione dell’ordinamento giuridico (ogni ipotetico modello) avrebbe dovuto salvaguardare, in America come in Inghilterra, proprio quel secolare deposito di »reasoned principles and applied precedents«, senza pretesa alcuna di poterne fare a meno. Qualsiasi codice inglese o americano avrebbe dovuto, al contrario, »presupporre il common law«, così da assicurare il rispetto degli equilibri tra legge e principi giurisprudenziali, valorizzando l’esperienza dell’applicazione del diritto ai casi pratici202. Ciò che emergeva chiaramente dal discorso era, quindi, una particolare prospettiva legislativa, legata a una ben precisa visione politica del rapporto tra le fonti dell’ordinamento: »we cannot escape from the common law, and we should not try to do so«, chiariva sul punto Chalmers203. Anche perché (e a emergere era qui il delicato tema dell’innovatività della sistematizzazione) il codice non avrebbe dovuto ‘inventare’ i principi di diritto, non rientrando il potenziale creativo della legislazione nel campo proprio della codificazione. E ciò, conformemente al particolare significato che ai termini ‘codice’ e ‘codificazione’ attribuiva Chalmers. »The province of a code, I venture to think, is to set out, in concise language and logical form, those principles of the law which have already stood the test of time. It co-ordinates and methodizes, but does not invent, principles«204.
54La distanza rispetto alle proposte di totale positivizzazione dell’ordinamento giuridico (ovviamente, a discapito della componente casistica e giurisprudenziale) risultava oramai irrecuperabile. Per Chalmers, infatti, common law e codice non costituivano elementi antitetici, ma fattori complementari, coefficienti di un medesimo discorso giuridico. E proprio per assicurare al codice una »solida base di esperienza«, la sistematizzazione legislativa avrebbe potuto riguardare le sole materie oggetto di sufficiente sviluppo, e in larga misura già positivizzate anche per il tramite giurisprudenziale205. Non tutti i settori del diritto, infatti, erano maturi per la codificazione. Per essere considerati tali, i principi giuridici disciplinanti la materia avrebbero dovuto vantare un certo grado di stabilità (ed essere quindi qualificabili come »well settled«). Inoltre, i casi giudiziali già definiti, espressivi di un determinato contesto tematico, avrebbero dovuto essere, per certi versi, semplicemente illustrativi di regole generali oggetto di costante applicazione206.
55Ma non era privo di innovazioni il passaggio a un modello a base codicistica. Infatti, con l’avvento del codice sarebbe cambiato, anzitutto, il metodo di reasoning applicabile alla particolare materia giuridica ‘codificata’ (e ciò era innegabile). Il codice era composto da proposizioni autoritative. Le clausole codicistiche venivano quindi a costituire »il testo« (o la formula linguistica della norma) sotto cui ricondurre, in sede di applicazione giudiziale della disciplina legislativa, le specifiche circostanze del caso. Data la natura legislativa (e autoritativa) del testo codicistico, il ragionamento giuridico finalizzato alla soluzione dei casi pratici sarebbe divenuto un meccanismo puramente deduttivo, e di questo sillogismo il codice avrebbe fornito »la premessa maggiore«207. Di conseguenza, la fase »induttiva« del ‘tradizionale’ processo di reasoning, finalizzata a trarre una »proposizione generale« dai principi emersi dai casi definiti (lasciando così spazio all’analogia e alla similitudine), sarebbe risultata superflua e sarebbe quindi scomparsa.
56Passando all’esame degli esempi di codice già realizzati, e partendo anzitutto dalla vicenda inglese, anche Chalmers sottolineava l’origine coloniale della riflessione sulla legislazione in materia commerciale. L’idea alla base del modello sistematico in discussione era qui correttamente riportata alle vicende degli Inglesi in India, e in particolare all’esperienza maturata dal giurista britannico in ordine al funzionamento dei codici indiani. Proprio a partire da questi testi (in special misura, dal Codice penale indiano del 1860), venne anzitutto definito il progetto del celebre ‘digesto’ del 1878, alla base – come già sottolineato – della stessa legge cambiaria. L’opera di Chalmers era stata infatti progettata, comunicava il giurista, »sulla falsariga di un codice indiano«, per essere poi pubblicata sotto forma di textbook, riprendendo lo stile legislativo coloniale. Uno stile, inaugurato da T.B. Macaulay a partire dagli anni ‘30 dell’Ottocento, comprendente l’uso di »illustrations« ed »exceptions« quali strumentiper delimitare l’ambito applicativo delle clausole codicistiche. L’influenza delle esperienze legislative coloniali aveva finito per investire anche la riflessione giuridica inglese, e questi episodi ne costituivano l’ulteriore riprova.
57Ma pur se accomunate dal carattere bidirezionale dei transiti e delle interazioni, oltre che dalle vicende della sovranità territoriale, metropoli e colonia rimanevano distanti, e non solo idealmente, rispetto al piano giuridico. Il modello codicistico basato sul metodo Macaulay funzionava bene in India, date le peculiarità della dimensione giuridica locale. E anche come strumento preliminare per la formazione di un digesto, la forma dei codici indiani, che per certi versi poteva considerarsi ‘tipica’, risultava di sicura convenienza208. Ma l’uso di »illustrations« ed »exceptions« non costituiva un metodo universalmente valido di legislazione209, così come, possiamo dedurre dal complesso della riflessione di Chalmers, non lo era la forma di alcuni particolari codici indiani. Ad esempio, il Codice penale del 1860, completo e sostitutivo del precedente, era ispirato a un modello legislativo che non rispettava nessuno dei requisiti indicati dal giurista britannico, risultando quindi del tutto inadatto al contesto insulare210. E ciò, al contrario del ‘campione’ dei codici parziali, rispettoso del precedente e conforme ai risultati della giurisprudenza, di cui tanto la legge inglese del 1882 che il disegno di legge del 1896 costituivano ottimi esempi applicativi211.
58Proprio sul codice parziale come ‘modello’ tornò a ragionare L.D. Brewster in uno degli ultimi episodi della propria vita pubblica. All’incontro annuale della New York State Bar Association, tenutosi ad Albany nel gennaio 1903, Brewster fece il punto sui risultati e le prospettive del dibattito sull’unificazione del diritto commerciale212. Rivolgendosi alla platea di avvocati, parlando delle aspirazioni verso un codice commerciale nazionale, il giudice di Danbury si soffermò, anzitutto, sugli aspetti ‘tecnici’ del dibattito tra le due sponde dell’Atlantico, rimarcando la molteplicità dei significati assunti dal termine ‘codice’. Un termine, sosteneva Brewster, che anche in Inghilterra e in America aveva finito per indicare prodotti eterogenei, tra cui digesti e consolidazioni come anche revisioni statutarie213. Ma il significato della parola aveva assunto connotati particolari proprio con riferimento al tipo della »moderna codificazione parziale«214. Un modello che, applicato al diritto commerciale, incontrava un favore quasi ‘universale’. E anche il contesto dottrinale aveva finito per rispecchiare il mutato paradigma codificatorio. Per spiegare questo passaggio, Brewster prendeva in esame la recente opera di Courtenay Ilbert Legislative Methods and Forms (1901). Un testo in cui il codice era definito, nel suo significato più ristretto, come »an orderly and authoritative statement of the leading rules of law on a given subject, whether the rules are to be found in the statutes or in common law«215. E in questa definizione di codice, che presupponeva la preesistenza di un diritto cui conferire forma e autorità di legge, rientrava anche la »codifying measure« della legge cambiaria inglese del 1882216. Si tornava, così, alla figura di Chalmers, per Brewster »a born draftsman«, una voce lontana dal radicalismo benthamiano (per quanto possibile, sosteneva, per un uomo formatosi a Oxford217), fondamentale anche per gli sviluppi americani del discorso codicistico.
59Guardando al dibattito tra le due sponde dell’Atlantico, appariva chiaro come la codificazione parziale avesse acquisito una certa autonomia anche concettuale, presentandosi come uno strumento legislativo efficace e, soprattutto, ‘possibile’. Contro le tesi che limitavano ogni opzione sistematica a una codificazione omnicomprensiva, specie nelle forme di una »Codification of the wholebody of Law at once«218, Brewster rivendicava la vantaggiosità del nuovo metodo, valido tanto in teoria quanto nella pratica. Non a caso, il disegno di legge adottato a Saratoga Springs nel 1896, che quel metodo riproduceva e che era già stato recepito »in circa la metà degli Stati dell’Unione«219, stava producendo altri discorsi e altri testi. Proprio la National Conference of Commissioners on Uniform State Laws, infatti, aveva incaricato Samuel Williston (professore della Law School dell’Università di Harvard) di preparare un altro ‘tassello’ del codice commerciale americano, »a code on “Sales”«, seguendo ancora una volta l’esempio insulare dato dal »Sales of Goods Act« del 1893 (altra »codifying measure« redatta da Chalmers)220. E ciò anche se, rimarcava Brewster, il movimento riformistico inglese pareva aver subito una forte battuta d’arresto a seguito della morte di Lord Herschell (1899), qui definito come »the great leader of law reform in England«221. Ma l’esperienza inglese rimaneva una vicenda di primario rilievo nell’ambito del discorso sulla sistematizzazione del diritto, che Brewster faceva risaltare anche con riferimento alla posizione decisamente non entusiastica (e anzi ‘apatica’) assunta dalla classe forense rispetto al quesito codificatorio222.
60Il tema del rapporto tra pratici del diritto e progetto riformistico offre lo spunto per un’ultima considerazione. Tornando al ‘versante’ americano del dibattito, la questione dell’unificazione normativa assumeva, nel discorso di Brewster, un contenuto più ampio rispetto al tema della codificazione commerciale (come pure del problema teorico della delimitazione dei confini tra legislazione e giurisdizione)223. Parlando di uniformare il diritto, i modelli legislativi e i metodi compositivi venivano naturalmente in rilievo, costituendo il necessario elemento ‘tecnico’ del dibattito. Ma guardando oltre i mezzi per ottenere il particolare risultato ‘pratico’, l’uniformità aveva un valore in sé, che Brewster metteva in evidenza parlando della »tendenza all’uniformità« (intesa, sottolineava il giurista, »nel suo senso più alto e più ampio«224). L’idea qui evidenziata interagiva, infatti, con una dimensione ulteriore rispetto a quella ‘istituzionale’, attinente propriamente all’ambito del sociale, puntando anche oltre il semplice fine della creazione di una comunità commerciale, ‘uniforme’ dal punto di vista normativo. Il discorso di Brewster faceva riferimento, infatti, non a una ‘generica’ unità, ma a una »unità ideale« di cui l’uniformità legislativa non rappresentava altro che l’aspetto ‘esteriore’, da ricercare comunque anche mediante strumenti giuridici225. Parlando di »quell’unità nella diversità, che il nostro motto nazionale proclama, e che dovrebbe unire insieme tutti gli Stati che compongono un’unica nazione«, a essere qui invocata era, soprattutto, una »unità di spirito«, posta alla base »di ogni vera libertà, uguaglianza e fraternità«. E proprio l’uniformità delle discipline avrebbe contribuito a preservare l’unità (questo tipo di unità) a livello federale, incidendo positivamente, data anche l’efficacia formativa del diritto, sullo stesso »carattere della nazione«226.
61Nell’ambito del discorso del gennaio del 1903, l’idea riformistica di Brewster era espressa soprattutto da un particolare passaggio conclusivo227. Brevi parole che chiamavano in causa la classe forense, come già oltre un decennio avanti aveva fatto David Field. E anche qui, si ribadiva quel ruolo pubblico, funzionale al buon governo, diretto a semplificare il diritto a beneficio della »gente comune«228. »It would be a bitter reproach to our profession« – e qui il passo di Field del 1889 pareva riecheggiare forte – »if the bar failed to do their duty in this matter, failing to do their share in making the law of the land intelligible to the common people«. Il concetto era qui ribadito in una prospettiva marcatamente religiosa, e attingendo direttamente agli episodi evangelici. Non stupiscono, dunque, i richiami alle figure di Mosè, »the greatest of lawyers«, e dei profeti, insieme ai quali »legislatori« e »codificatori« »delighted in law«. Al monito di Cristo contro i »dottori della Legge« (»the lawyers of his time«), che imponevano fardelli »sulle spalle della gente« – pesi »grievous to be borne« – e che costruivano le tombe dei profeti, uccisi dai loro antenati per rifiutare la conversione. Nel mentre, negando le verità e il vangelo di Cristo, i giuristi occultavano agli uomini »la chiave della conoscenza«, nella gelosa e cieca rivendicazione del monopolio del sapere229.
62Il riferimento alla colpevole pretesa di interposizione tra gli uomini e la volontà di Dio, trasposto dal riformismo protestante nel tema della codificazione, non poteva essere più esplicito. Il codice avrebbe reso il diritto accessibile alla »gente comune«, contribuendo al progresso di un contesto democratico (se appunto anche la legge civile, così come la legge di Dio, doveva essere generalmente comprensibile). E le resistenze verso il codice, che avrebbero al contrario allontanato il diritto dalla società, avrebbero quindi meritato i più severi richiami ai doveri e alle responsabilità, specie verso i giuristi come forza sociale. Ma il monito del »nostro Signore divino«, ricordava Brewster, colpì »i giuristi del suo tempo«, così da rimarcare la distanza, non solo temporale, che avrebbe dovuto separare questi scenari dalla dimensione sociale presente. »Far be it from the lawyers of a Christian civilization, favored more than those of any other country, living among people where every man is a voter and a possible law-maker, to be guilty of taking away or hiding the key of knowledge from such a free people«230.
63La prospettiva del codice, che Brewster enfatizzava mediante richiami eterogenei ma riferibili a un contesto univoco di significati, offriva così lo spunto per una più ampia riflessione, che rilanciava profili tematici di lunga durata, riproponendo radicate visioni politiche e rappresentazioni culturali. In questa parte della vicenda, puntando all’unificazione delle discipline commerciali, la riflessione su ‘metodi’ e ‘tecniche’ risultava fondamentale, facendo anzitutto emergere dal dibattito l’idea del diritto come fattore ‘costituente’ (dei mercati, della comunità politica, come pure della comunanza spirituale). Ma anche il non meno importante concetto di »civiltà cristiana«, posto alla base del discorso giuridico e in qualche modo associato al contesto americano di inizio Novecento.
64La vicenda era così riportata all’origine del discorso e al punto di partenza della storia. Richiamando le immagini di una comunità di uomini liberi, del monito divino ai giuristi, della responsabilità pubblica degli avvocati, Brewster rievocava le rappresentazioni simboliche prodotte dal movimento riformistico sin dal primo quarto del secolo, esaltando gli aspetti religiosi nel legame con le tematiche legislative. Così facendo, rilanciava sulla scena novecentesca le voci delle passate generazioni di »codifiers« americani, figli »effettivi« o »figurativi« di una società »post-calvinista«231, e in qualche modo espressive di quella eredità culturale. Un’eredità, fondamentale nel discorso identitario tra Otto e Novecento, trasmessa dal contesto coloniale a quello nazionale232. In questi passaggi testuali, in queste rappresentazioni della società e del diritto, risultava implicita – ma forte e decisa – la riproposizione delle idee di fondo d’una »Christian civilization«, delle sue visioni anche disciplinari, delle sue aspirazioni legislative. Di certo, il codice costituiva una di queste. Ma non solo ‘istituzionale’ doveva essere il segno da lasciare nel discorso pubblico e in questa storia americana. Per rendere il diritto (le »leggi civili«, »the Law of the land«) finalmente »comprensibile alla gente comune«, per rendere visibili le tracce della battaglia, non un semplice dibattito giuridico sarebbe servito, ma un confronto politico per l’identità. Anzi, una lotta.