Zeitschrift Debatten Römische Rechtsgeschichten

Roy Garré

Divagazioni bachofeniane sulle "Römische Rechtsgeschichten" di Marie Theres Fögen

«Qui termina la mia storia. Qui, forse, nasce una leggenda.»
(Valerio Massimo Manfredi, L'ultima legione, Milano 2002, pag. 467)

 

Quando Hans-Peter Haferkamp, molto amichevolmente, mi propose di partecipare ad un dibattito indetto dalla rivista Forum historiae iuris sul libro Römische Rechtsgeschichten, aderii con grande interesse, stimolato dall'idea di poter esporre alcune riflessioni che avevo cominciato a sviluppare già al primo incontro con quest'opera. Riflessioni che qualche tempo fa' erano giunte ad un punto di maturazione tale da indurmi a proporle come possibile argomento per la lezione di prova all'Università di Berna per l'abilitazione all'insegnamento, che intitolai «Marie Theres Fögens Römische Rechtsgeschichten: zurück zu Bachofen?». La scelta della Facoltà giuridica ricadde poi su uno degli altri titoli proposti, per cui il tema venne da me accantonato e lasciato a macerare, come è spesso bene fare prima di dare forma ad idee e teorie. La proposta di Haferkamp è suonata dunque come un richiamo, che ha subito fatto presa in me, fornendomi l'occasione per riportare alla coscienza le mie iniziali riflessioni sul tema.

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Come intuibile dal titolo, non è mia intenzione fornire una sistematica recensione di questo libro, quanto piuttosto prendervi spunto per confrontare alcune sue tesi di fondo con l'opera del grande romanista basilese Johann Jakob Bachofen (1815-1887). È questo, infatti, che subito mi colpì del libro di Marie Theres Fögen: l'eco di tutta una serie di riflessioni fatte da Bachofen nell'Ottocento, su cui ebbi il piacere di chinarmi per un certo periodo in occasione delle ricerche di dottorato che sfociarono poi nel libro Fra diritto romano e giustizia popolare. Il ruolo dell'attività giudiziaria nella vita e nell'opera di Johann Jakob Bachofen, edito nel 1999 presso l'editore Vittorio Klostermann di Francoforte sul Meno (Ius commune, Studien zur Europäischen Rechtsgeschichte, 126).

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Vediamo anzitutto chi era Bachofen e che ruolo svolse in ambito storico-giuridico. Johann Jakob Bachofen è generalmente noto e celebrato per il suo ruolo di pioniere degli studi sul matriarcato nelle società primitive. Famose a questo proposito sono le sue due opere uscite nella seconda metà dell'Ottocento dal titolo Versuch über die Gräbersymbolik der Alten (prima edizione Basilea 1859, ora in Gesammelte Werke, vol. 4, a cura di Ernst Howald; v. anche la trad. ital. a cura di Mario Pezzella con presentazione di Arnaldo Momigliano e introduzione di Giampiera Arrigoni, Napoli 1989) e Das Mutterrecht (prima edizione Stoccarda 1861, ora in Gesammelte Werke, vol. 2 e 3, a cura di Karl Meuli; trad. ital. a cura di Giulio Schiavoni, Torino 1988). Accolte dapprima con scherno e disprezzo della comunità scientifica, queste due opere ebbero in seguito una grandissima fortuna, arrivando a rivoluzionare molti approcci metodologici della moderna antropologia culturale e della sociologia; questo nonostante gli errori e le frequenti ingenuità, imputabili sia alla sua scomoda posizione di pioniere, che all'impeto emozionale che caratterizzò la sua intera ricerca.

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Nel quadro della sopraccitata monografia mi sono tuttavia occupato di un altro aspetto della sua opera, fino ad allora negletto dagli studiosi, ovvero la sua attività come giurista, teorico ma soprattutto pratico. Egli fu infatti, prima ancora che storico e antropologo, grande esperto di diritto romano e raffinato giudice. Esercitò in particolare per un quarto di secolo l'attività di magistrato nei tribunali del Canton Basilea-Città, dapprima al Tribunale criminale (dalla fine del 1841 all'inizio del 1844), poi al Tribunale d'appello (sino al 1866), ricoprendovi anche la carica di vicepresidente vicario (dal 1862), mentre rifiutò, nel marzo 1865, la nomina a presidente. Quanto poco venga considerato questo aspetto della sua biografia emerge anche dall'imprecisione con cui viene citata di transenna l'attività giudiziaria nelle voci a lui dedicate nei lessici storico-giuridici. Così anche nella più recente edizione del peraltro pregevole volume a cura di Michael Stolleis Juristen. Ein biographisches Lexikon, l'autrice della specifica voce ignora l'attività di Bachofen al Tribunale d'apppello, pur durata 22 anni, e cita solo quella iniziale al Tribunale criminale, in realtà molto breve ed episodica. Non migliore destino gli è riservato nel volume curato da Gerd Kleinheyer e Jan Schröder Deutsche und Europäische Juristen von neun Jahrhunderten e nemmeno nell'Handwörterbuch zur deutschen Rechtsgeschichte (HRG), opere che non fanno nemmeno accenno al fatto che Bachofen fosse stato attivo come giudice. Vi è così da sperare che la prossima edizione del HRG, attualmente in cantiere, si dimostri meno avara di informazioni precise sull'attività giudiziaria di Bachofen.

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Torniamo tuttavia al nostro tema. Qui non è tanto l'attività giuridica di Bachofen ad interessarci, quanto l'approccio metodologico, perché è su questo punto che, a mio avviso, si riscontrano grandi affinità con il contenuto dell'opera di Marie Theres Fögen. Soprattutto nella pars destruens: Bachofen nutriva infatti profonda avversione nei confronti della moderna critica delle fonti, come essa veniva in particolare incarnata dai suoi contemporanei Niebuhr e Mommsen. Ed era proprio la perdita, l'uscita dall'orizzonte scientifico di miti e leggende, di cui si era così lungamente nutrita la storia di Roma antica, a suscitare forti perplessità in Bachofen. Egli propugnava invece una storia romana in cui fatti e finzioni conservassero un rapporto equilibrato, dialogando tra loro in maniera feconda. Alla Römische Geschichte di Niehbur oppose così una sua Geschichte der Römer, scritta in collaborazione con Franz D. Gerlach, pubblicata a Basilea nel 1851 (v. ora Gesammelte Werke, vol. 1, pp. 79-385), fermatasi però ai primi due tomi, segnatamente all'età regia. Il discorso venne ripreso diversi anni dopo, da una prospettiva parzialmente diversa, ora in chiave apertamente "antimommseniana" , in Die Sage von Tanaquil (Basilea 1870, adesso in Gesammelte Werke, vol. 6). L'idea centrale della metodologia bachofeniana è ben sintetizzata in una frase posta nelle prime pagine di quest'ultimo libro e che è utile trascrivere letteralmente: «Was nicht geschehen sein kann, ist jedenfalls gedacht worden. An die Stelle der äußeren Wahrheit tritt also die innere». Questo approccio alla verità scientifica comporta di converso la condanna dell'approccio metodologico allora dominante, basato come era su di una sopravvalutazione dei fatti bruti, considerati come gli unici elementi costitutivi della storia. Numerosi studiosi, fra cui Eva Cantarella, Thomas Gelzer, Heide Göttner-Abendroth, Bernd Müllenbach, Uwe Wesel, hanno in questo senso sottolineato la grande novità ed attualità del discorso di Bachofen. Già Lucien Febvre se la prendeva del resto con quelli che definiva gli «storici storicizzanti», ingenuamente convinti dell'esistenza di «questo preteso atomo della storia», che sarebbe il «fatto in sé». La più moderna storiografia pone invece l'accento sulla relatività dei cosiddetti fatti storici, i quali per molti versi non sono altro che costrutti dello storico stesso, delle sue preventive selezioni e delle teorie poste alla base della propria ricerca. La censura sollevata da Bachofen nei confronti del metodo di Niebuhr e di Mommsen non comporta altresì un globale ed aprioristico rifiuto della critica delle fonti in quanto tale, ma piuttosto una disincantata messa in discussione dell'affidabilità dei suoi risultati. Egli denuncia la miopia di un metodo «der für das Geringste sich begeistert und für das Grösste gleichgiltig bleibt» (Gesammelte Werke, vol. 6, pag. 432). Al centro della sua ricerca, di carattere spiccatamente comparativo, mette quello che definisce il contenuto ideale della tradizione, concetto di per sé polisemico, da cui gli studiosi di Bachofen traggono in genere due elementi : da un lato princìpi fondamentali di natura puramente immateriale, dall'altro quelle concretissime e reali strutture che saranno oggetto privilegiato di studio delle moderne scienze sociali. Strutture sociali, idee, princìpi, rappresentazioni collettive e mentalità appartengono alla storia tanto quanto i grandi avvenimenti politici e le grandi battaglie: è questo, in fondo, uno dei più moderni messaggi del discorso storico bachofeniano. E in tal senso si può certamente concordare con Walter Benjamin, laddove loda il carattere di «profezia scientifica» dell'opera di Bachofen. Accanto a questi pregi non si possono comunque tacere i gravi difetti della sua ricerca: il dilettantismo di molte interpretazioni, l'approssimatività della critica documentale, l'idealismo di fondo della sua ricostruzione, la metafisicità del disegno storico complessivo. Questo è indubbio e va naturalmente tenuto sempre presente, come del resto ho cercato di fare nella citata monografia su Bachofen (v. in part. pag. 256 e segg.).

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Quello che qui ci interessa è dunque l'approccio scientifico di Bachofen ed in particolare il suo modo di compulsare le fonti storiche, letterarie ed artistiche. E qui veniamo finalmente al libro oggetto del presente dibattito. Il rapporto tra fatti e finzioni è infatti una delle linee guida dello studio di Marie Theres Fögen. È proprio dalla riscoperta, dalla rivalutazione di tutti quei materiali scartati dalla critica delle fonti di matrice niebuhriana e mommseniana che prende avvio la sua ricerca. Dai racconti, dalle storie appunto, di Dionigi di Alicarnasso, Cicerone, Livio, Diodoro Siculo e tanti altri, l'autrice cerca di ricostruire l'immagine che i Romani stessi si erano fatti della nascita e dell'evoluzione del diritto, delle XII Tavole, della Repubblica, della giurisdizione pretorile, di una scienza giuridica autonoma. Racconti, storie, narrazioni destinate non a noi, ma ai loro contemporanei, perché, come esordisce l'autrice con formulazione felicemente icastica, «die Antike kennt uns nicht» (pag. 11 e segg.). L'antichità non ci conosce e quindi tutti questi racconti non ci sono destinati, ma erano destinati al pubblico dei contemporanei. Contemporanei che non erano naturalmente ingenui, ma sapevano distinguere, non meno di Niebuhr e Mommsen, fra leggende e realtà, fra mito e fatti storici. Ciò nonostante essi amavano raccontarsi determinate storie per descrivere quello che non conoscevano sulle origini di Roma e del suo diritto: «Was man nicht erklären kann, davon muß man erzählen» scrive Marie Theres Fögen. Questo mi ha fatto venire in mente una bella domanda che mia figlia, con la deliziosa perspicacia che solo i bambini manifestano in queste cose, qualche tempo fa mi ha posto. Ebbene, desiderosa di sapere se era realmente esistito un personaggio di cui le avevo raccontato - non ricordo se Aurora dalle dita di rosa, Eolo il dio del vento, Guglielmo Tell o la Regina Ginevra - mi ha posto senza mezzi termini di fronte ad un vero e proprio dilemma. Dopo un attimo di smarrimento mi sono salvato in extremis con la seguente risposta: «Sì certo, è esistito nella fantasia». E per adesso (anche se non so ancora per quanto tempo...), la risposta la soddisfa. In seguito, riflettendoci, mi sono reso conto come quella risposta fosse inconsciamente bachofeniana: «Was nicht geschehen sein kann, ist jedenfalls gedacht worden». Ciò che non è accaduto è stato comunque pensato, formulato, narrato. E questi pensieri, formulazioni, narrazioni sono comunque dati empiricamente accertabili. Sono comunque fonti storiche ed il fatto che scegliamo determinati miti, determinate leggende, determinate fantasie per raccontare ciò che ci sta a cuore è un circostanza fattuale che può spiegare tante cose. Come storici abbiamo il dovere di occuparci anche di questi dati. Come storici del diritto, in particolare, abbiamo il dovere di occuparci anche di tutte quelle fonti che raccontano la nostra materia, la nostra disciplina, la nostra scienza. La letteratura, la pittura, la scultura non sono meno significative di un frammento del Digesto o di un passo delle Istituzioni di Gaio, visto che anche quest'ultimi non meno delle altre fonti resteranno pur sempre accessi alla realtà indiretti, perché effettuati «in virtù di un'esperienza accumulata, della lingua con le sue convinzioni, dei paradigmi, delle teorie e delle ideologie» (Jerzy Topolski, Narrare la storia. Nuovi principi di metodologia storica, trad. ital. con la collaborazione di Raffaello Righini, Milano 1997, pag. 221; v. anche da una prospettiva filosofica Fabio Merlini, Incanti della storia e patologie della memoria. Studi sulla trasformazione 1 , Milano 1997, pag. 105). Se Lucrezia, Virginia, Tanaquilla, Appio Claudio, Gneo Flavio sono, in tutto o in parte, personaggi della fantasia, ciò non toglie che personaggi realmente esistiti come Livio, Cicerone, Tacito, Ovidio, Diodoro ne hanno parlato. Hanno raccontato storie su di loro. Storie del diritto appunto. E queste storie del diritto sono fonti storiche. Sono dei messaggi in bottiglia provenienti dal passato, che è peccato lasciare chiusi nella loro prigione di vetro, considerato che, come ben evidenziano talune scoperte della moderna archeologia, contaminazioni fra logica fantastica e logica oggettiva non sono mai da escludere a priori (v. adesso Andrea Carandini, Archeologia del mito. Emozione e ragione fra primitivi e moderni, Torino 2002, pag. 164 e segg.)

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Quello che si fa di questi messaggi, una volta rotta la bottiglia, è un altro discorso. E qui veniamo alla pars construens sia dell'opera di Bachofen che di quella dibattuta. Su questo, i due approcci divergono chiaramente. Su Bachofen, in questa sede non è opportuno dilungarsi, ribadendo comunque come il suo approccio sia gravato da un misticismo ed un idealismo oggettivo molto spiccati, tali da rendere difficilmente accettabili le sue conclusioni. È innegabile tuttavia che egli sia stato un geniale pioniere e che abbia aperto strade di ricerca quasi inimmaginabili senza il suo apporto. Per quanto riguarda le Römische Rechtsgeschichten, la sua parte propositiva è, come premesso dall'autrice stessa, decisamente luhmanniana. Al centro della ricerca non vi sono esseri umani in carne ed ossa ma comunicazioni. Il diritto viene descritto come sistema sociale, la cui evoluzione viene studiata mediante strumenti quali la variazione, la selezione e la stabilizzazione (v. in part. pag. 17). Su questi aspetti le mie divagazioni bachofeniane sono inevitabilmente destinate ad arenarsi. Se l'antichità non ci conosceva, nemmeno Bachofen poteva ovviamente conoscere Luhmann! E del resto non penso che avrebbe aderito alle sue teorie, sulle quali anche il sottoscritto coltiva determinate riserve, in particolare quelle espresse da Mario Bretone in Diritto e tempo nella tradizione europea (2. ed., Roma/ Bari 1996, pag. 36-37, 110-116, 141-148, 194, 198). Ma poco importa. Se Bachofen non conosceva Luhmann, Marie Theres Fögen conosce invece Bachofen. Egli però non fa parte dei suoi autori. Forse perché Bachofen, nonostante tutto, rimane un romanista scomodo. Il pregiudizio di Theodor Mommsen, di Ulrich von Wilamowitz o di Benedetto Croce grava ancora su di lui. Fatto sta che se non si può parlare di un vero e proprio ritorno a Bachofen, è indubbio che ci troviamo di fronte ad un ritorno di temi tipicamente bachofeniani, in primis il ruolo della donna nella storia del diritto, con l'attenzione ad eroine cariche di forti valenze simboliche come Virginia e Lucrezia; e poi il richiamo al simbolo come veicolo di informazioni di carattere storico ed etnologico, anche questo un campo di ricerca inaugurato da Bachofen, oltre che da Friedrich Creuzer con la sua Symbolik und Mythologie der alten Völker (1810-1812). Interessante a questo proposito osservare come Bachofen abbia avviato questo filone di ricerca lavorando su concetti elaborati da un giurista classico come Gaio, segnatamente sulle res extra commercium divini iuris. Ma il suo discorso non poteva più fermarsi a questo preliminare piano analitico. Così gli oggetti funerari e le mura della città acquisivano valore euristico, non per la loro sussunzione romanistica a concetti giuridici come quello di res sanctae o res religiosae, ma quali simboli, appunto, di religioni primordiali, suggerendo originalissime chiavi di lettura, recepite poi da altre scienze più che dalla romanistica.

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Questo non significa riproporre ancor'oggi le spericolate abduzioni di Bachofen sull'eterismo, sulla ginecocrazia o sulle origini della dote. Piuttosto occorre ricordare come, pur nella sua frequente amatorialità, egli abbia saputo porre dei quesiti scientifici originalissimi, cui altri, dopo di lui e sulla base di riscontri più affidabili di quelli di cui lui aveva potuto disporre, hanno dato risposte di pregevole portata innovativa. Fra queste mi permetterei ora di porre anche le risposte date da Marie Theres Fögen. Pur non rispondendo direttamente a Bachofen, l'autrice rielabora alcune delle grandi tematiche bachofeniane, ponendosi allo sbocco di una ben precisa linea di pensiero, a lungo respinta dall'ortodossia romanistica, ma che comunque covava sotto le ceneri, con buona pace di Niebuhr e di Mommsen, e sulla quale, ora che è tornata in superficie, vale la pena dibattere, come hanno precedentemente dibattuto, in maniera molto fruttuosa, altre discipline quali l'etnologia, la sociologia, l'archeologia, la psicanalisi. Se infatti, come scrive Eva Cantarella, la storia dell'isolamento di Bachofen «è la storia della difficoltà d'incontro tra campi del sapere, che trovano tuttora non poca difficoltà a comunicare e a integrarsi», libri come le Römische Rechtsgeschichten propugnano al contrario una stimolante forma di comunicazione fra i saperi non troppo dissimile da quella che il grande romanista basilese aveva inaugurato nell'Ottocento e dalla quale la storia del diritto non può che uscire rafforzata.

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Beitrag vom 11. Januar 2005
© 2005 fhi
ISSN: 1860-5605
Erstveröffentlichung
11. Januar 2005

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