Zeitschrift Aufsätze

Lauretta Maganzani*

La «diligentia quam suis» del depositario dal diritto romano alle codificazioni nazionali Casi e questioni di diritto civile nella pros pettiva storico-comparatistica

Introduzione

1Nel 1895, per i tipi della Casa Editrice Zanichelli di Bologna, l’avvocato Valentino Rivalta pubblicava una raccolta di «Dispute celebri di diritto civile estratte dalle dissensiones dei glossatori ed annotate per uso accademico e forense»: fra queste la disputa sulla negotiorum gestioprohibente domino e la risarcibilità delle spese sostenute dal gestor, quella sulla caccia e il momento perfezionativo dell’acquisto della proprietà sulla preda, quella sugli effetti della mora debendi del depositario e del comodatario in caso di naturalis interitus rei etc. Ogni Disputa era corredata di riferimenti alle fonti (dal diritto romano ai codici) e di succinte indicazioni bibliografiche.

2Su questa base, alcuni anni or sono, su iniziativa di Giovanni Negri, è partito dall’Università Cattolica di Piacenza un progetto di ricerca finanziato dal «MIUR.» dal titolo «Casi e questioni di diritto civile nella prospettiva storico-comparatistica del diritto europeo dall’età romana alle codificazioni nazionali»: il progetto che, fra le unità operative locali, contava l’Università di Ferrara (Diego Manfredini), la Terza Università di Roma (Vincenzo Mannino) e l’Università di Urbino (Chiara Tenella Sillani), si prefiggeva l’ «allestimento di un’antologia di casi pratici e questioni di diritto civile la cui soluzione, controversa nell’ambito del Corpus Iuris giustinianeo, ripropone, nella storia della tradizione romanistica europea, in sede dottrinale, giurisprudenziale e normativa, analoghi dissensi e/o analoghe uniformità, fino alle esperienze degli ordinamenti attuali» e, attraverso una raccolta di exempla significativi, intendeva ricostruire sul campo una storia antologica del diritto europeo «nella prospettiva di casi concreti affrontati nell’ottica di tutte le componenti formative del diritto (norme autoritative, dottrina, prassi giudiziaria)» individuando il momento di emersione storica di «prospettive, soluzioni, argomentazioni».

3Nell’alveo di questo progetto, dopo una prima sperimentazione didattica dell’unità di ricerca della sede di Piacenza dell’Università Cattolica sulla negotiorum gestioprohibente domino1, l’attenzione di chi scrive si è concentrata su una nota disputa giurisprudenziale, che costituisce un exemplum particolarmente significativo per la ricchezza del materiale documentario sul tema: è il famoso dissenso fra Nerva e Proculo ricordata da Celso nella cd. ‘lex quod Nerva’ (D. 16.3.32, Cels. 9 dig.), sulla cui base, a partire dai glossatori, è stata costruita la regola della diligentia quam suis del depositario per la quale, nella custodia della cosa depositata, il depositario è tenuto alla stessa diligenza che usa normalmente nel custodire le cose proprie:

Quod Nerva diceret latiorem culpam dolum esse, Proculo displicebat, mihi verissimum videtur. Nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens est, nisi tamen ad suum modum curam in deposito praestat, fraude non caret. Nec enim salva fide minorem is quam suis rebus diligentiam praestabit.

4Il testo è divenuto fra l’altro, a partire dall’età dei glossatori, un pilastro della dottrina della colpa e, come tale, la diligentia quam suis è rifluita nella regolamentazione del contratto di deposito di alcune codificazioni nazionali, molte delle quali ancora vigenti (Code Civil francese art. 1927, Codice Civile italiano del 1865 art. 1843, «BGB.» § 690, Codice Civile argentino art. 2202, Civil Code della Louisiana art. 2937, etc.)2.

5Scopo precipuo del romanista è la ricostruzione del significato originario del testo, nonché delle ragioni e della portata della selezione giustinianea, e a questo tende in primis la presente ricerca, anche con l’ausilio delle esegesi non di rado sagaci che i grandi del passato ne hanno fatto nei secoli della tradizione romanistica: non è raro, infatti, che una spiegazione antica contribuisca a chiarire la reale portata del passo nel contesto originario o a smascherare velleitarie letture attuali. Ma la storia esegetica di un testo, con le sue tappe, i suoi momenti salienti e le sue svolte metodologiche, deve anche, a mio parere, assurgere ad oggetto specifico dell’indagine romanistica, in quanto essa contribuisce a svelare i diversi abiti di cui, nei secoli, il testo è stato dagli interpreti rivestito a seconda dello spirito delle varie epoche e del sistema nel quale, di volta in volta, essi lo hanno voluto inserire. Ripercorrere la storia esegetica di un testo è dunque anche comprenderne la portata e l’influenza nella formazione del diritto europeo, ma nel contempo significa contestualizzarlo con più puntuale senso storico. Scopo della presente indagine è peraltro, e soprattutto, quello di ricostruire l’origine e le componenti storiche delle concettualizzazioni moderne, non sempre utilizzate dai romanisti del tutto consapevolmente in funzione euristica. Ripercorrere criticamente la tradizione romanistica confluita in queste concettualizzazioni significa decomporne gli elementi formativi al fine di verificarne l’efficienza costruttiva nell’esegesi dei testi antichi.

6La scelta della ‘lex quod Nerva’ come oggetto di indagine è, a questo riguardo, particolarmente significativa perché, alla disputa alto-imperiale fra Nerva e Proculo ripresa da Celso, a cui i romanisti si affannano da tempo a dare un significato coerente, si affianca, da una parte, la plurisecolare esperienza esegetica ante-codificazioni che, dai glossatori in poi, ne ha fatto un pilastro della sistematica della colpa3, dall’altra la dottrina e la giurisprudenza civilistiche post-codificazioni, che cercano invano di darsi ragione di un criterio «illogico» come la diligentia quam suis, spesso dimenticandone la matrice meramente storica.

7La nostra «storia esegetica» non partirà dall’epoca romana classica, che nella presente indagine costituisce semmai il punto di arrivo, ma dall’età giustinianea ove la diligentia quam suis, pur dai contorni ancora incerti, pare già assurgere, almeno a quanto risulta dalle Institutiones di Giustiniano, a punto di riferimento privilegiato per la graduazione della responsabilità dell’obbligato nei singoli rapporti.

1. La diligentia quam suis del depositario nella compilazione giustinianea e nei Basilici

8Se nei Digesta i richiami alla diligentia quam suis si presentano sparpagliati in una serie non omogenea di frammenti di ambiti e portata differenti, le cui contraddizioni nessuno è finora riuscito a sanare (oltre a D. 16.2.32 sul deposito, D. 17.2.72 sulla società, D. 10.2.25.16 sulla comunione, D. 27.3.1.pr. sulla tutela, D. 23.3.17.pr. e 24.3.24.5 sulla dote), nelle Institutiones essa viene più volte richiamata dai compilatori come termine di riferimento per la graduazione della diligentia di volta in volta richiesta al debitore nell’adempimento dell’obbligazione e, per converso, della misura della sua responsabilità per colpa4: così la diligentiaexacta’ od ‘exactissima’ rispettivamente richieste al comodatario nella custodia della cosa e al negotiorum gestor nella gestione degli affari, non vengono definite in sé, ma sottolineando l’insufficienza del grado di diligenza abituale dell’obbligato nel caso che un grado superiore sia almeno astrattamente ipotizzabile:

Iust. inst. 3.14.2: At is, qui utendum eccepit, sane quidam exactam diligentiam custodiendae rei praestare iubetur nec sufficit ei tantam diligentiam adhibuisse, quantam suis rebus adhibere solitus est, si modo alius diligentior poterit eam rem custodire.

Iust. inst. 3.27.1: Sicut autem is, qui utiliter gesserit negotia, habet obligatum dominum negotiorum, ita et contra iste quoque tenetur, ut administrationis rationem reddat. Quo casu ad exactissimam quisque diligentiam compellitur reddere rationem: nec sufficit talem diligentiam adhibere, qualem suis rebus adhibere soleret, si modo alius diligentior commodius administraturus esset negotia.

Similmente, ma in senso opposto, la diligenza abituale in suis rebus, in contrapposizione all’exactissima diligentia, diviene nella societas il punto di riferimento per la determinazione del grado di responsabilità dei socii nell’amministrazione delle res communes e della nozione di culpa ad essi applicabile:

Iust. inst. 3.25.9 (= D. 17.2.72): Socius socio utrum eo nomine tantum teneatur pro socio actione, si quid dolo commiserit, sicut is qui deponi apud se passus est, an etiam culpae, id est desidiae atque neglegentiae nomine, quaesitum est: praevaluit tamen etiam culpae nomine teneri eum. Culpa autem non ad exactissimam diligentiam dirigenda est: sufficit enim talem diligentiam in communibus rebus adhibere socium, qualem suis rebus adhibere solet. Nam qui parum diligentem socium sibi adsumit, de se queri [hoc est sibi imputare] debet.

9Come si vede, le Institutiones non sono ancora giunte ad identificare nella diligentia quam suis una categoria dogmatica generale – il che invece accadrà nell’alto medioevo – ma, con maggior concretezza, utilizzano il parametro della diligenza abituale dell’obbligato come chiave di lettura della sua responsabilità per colpa nel rapporto esaminato, offrendo così all’interprete uno strumento di identificazione, nel caso concreto, dell’esistenza della colpa.

Non a caso tale parametro non è utilizzato nella definizione istituzionale della responsabilità del depositario ove, per tradizione consolidata, la responsabilità è limitata al dolo:

Iust. inst. 3.14.3: Sed is ex eo solo tenetur, si quid dolo commiserit, culpae autem nomine, id est desidiae atque neglegentiae, non tenetur: itaque securus est qui parum diligenter custoditam rem furto amisit, quia qui negligenti amico rem custodiendam tradidit suae facilitati id imputare debet5.

10Già questo ci dice qualcosa sulla portata che la ‘lex quod Nerva’ deve aver assunto agli occhi dei compilatori e sulle ragioni della sua selezione per la raccolta giustinianea: essa non presentava un caso tipico di diligentia quam suis – come, ad esempio, D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9) in tema di societas – nemmeno nella prospettiva ristretta e concreta adottata dai giustinianei: serviva soltanto a meglio definire la responsabilità per dolo del depositario ed in più esprimeva, con le parole dei classici, l’equiparazione cara ai compilatori fra dolo e culpa lata (‘… latiorem culpam dolum esse …’)6. Ciò risulta confermato dai Basilici che, da una parte, riassumono il contenuto del passo dicendo che «agisce con dolo chi non applica alle cose depositate la diligenza che applica alle sue» (Bas. 13.2.32: ҆Ο μὴ τής παραθήκης ώς τών ιδίων επιμελούμενος δόλον ποιεί); dall’altra, in un significativo scolio di Stefano, individuano un caso di culpa lata, assimilata al dolo, nel non custodire la cosa affidata secondo le proprie possibilità e capacità (sch. 3: Στεφάνου. Σεμείωσαι ενταύθα, ότι ή λάτα κούλπα τώ δόλω προςέοικε, καί ότι λάταν κούλπαν δοκεί τις ποιεΐν. ένθα μή κατά τήν οίκείαν δύναμιν επιμελείται τού παρατεθέντος αύτφ πράγματος. Σεμείωσαι αύτό). Evidentemente per dare ragione ad un passo oscuro agli stessi scoliasti7, Stefano procede obliterando in parte il dato letterale: se Celso rilevava l’esistenza di una fraus nell’omissione della diligentia abituale in suis rebus (‘… fraude non caret. Nec enim salva fide minorem is quam suis rebus diligentiam praestabit’), Stefano allude più genericamente alla trascuratezza di chi, nella custodia, non sfrutta appieno le proprie capacità naturali. Lo scarto è lieve ma significativo ed attesta l’imbarazzo dei maestri bizantini di fronte ad un testo da cui soltanto in seguito sarà tratta la regola della diligentia quam suis del depositario come canone ermeneutico generale8. I Basilici del resto ripropongono la diligentia quam suis tutte le volte e per tutti i rapporti in cui essa compare nei Digesta9 ma, come ha rilevato il Nörr10, non paiono inquadrare tali riferimenti in un ripensamento completo e consapevole della problematica giustinianea della responsabilità contrattuale né si sforzano di superare le contraddizioni che, sul tema, la compilazione presenta.

2. La ‘lex quod Nerva’ prima della rinascita bolognese

11Le Institutiones di Giustiniano avevano ignorato la ‘lex quod Nerva’, eppure, nonostante la scarsa diffusione del Digesto nell’età alto-medievale, tracce della sua influenza sono rinvenibili ben prima della rinascita bolognese: da un lato essa compare «in pillole» in talune legislazioni barbariche, nel quadro della generica figura della commendatio comprendente in sé ipotesi eterogenee di affidamento in custodia gratuito od oneroso (di cose mobili, di animali, di denaro con facoltà di uso etc.). Ciò prova quanto il criterio del confronto fra il contegno dell’affidatario in suis e in alienis per la valutazione della sua responsabilità, fosse già in larga misura penetrato nel diritto consuetudinario cui queste leges si ispirano. Ma mentre il Digesto e gli stessi Basilici ascrivono a colpa grave l’assenza di diligentia quam suis del depositario in quanto infrazione della fides del depositante, le legislazioni barbariche, fondendo la regola derivata dalla ‘lex quod Nerva’ con quella di D. 13.6.5.4 in tema di comodato11, reinterpretano e banalizzano questo principio riducendolo a strumento di presunzione di responsabilità in caso di perimento fortuito della cosa affidata: così il titolo ‘de commendatis vel commodatis’ del Codex Euricianus, promulgato per i Visigoti non prima del 469 d.C. e, sulla sua strada, lo stesso titolo della lex Visigothorum della metà del VII secolo e della lex Baiuwariorum (del ceppo svevo) della metà dell’VIII12, pongono come discrimine della responsabilità dell’affidatario per perimento fortuito della cosa affidata (‘deruina aut incendio vel hostilitatis naufragio seu quolibet simili casu’) l’eguale o differente sorte dei beni in sua proprietà: ‘nihil cogatur exsolvere’ l’affidatario cui le res commendatae, per un incendio divampato nella sua casa, ‘cum rebus eius fuerint concrematae’ (Cod. Eur. CCLXXX, lex. Vis. V.5.3, lex Baiuw. 15.2-5); ‘sine ulla excusatione exsolvere cogatur’ l’affidatario che, in analoga circostanza, ‘sua omnia liberaverit et aliena perdiderit’ (Cod. Eur. CCLXXXII, lex. Vis. V.5.5).

12Codex Euricianus
[CCLXXX: Si cui aurum, argentum vel ornamenta]
[vel species fuerint commendatae, sive custodien-]
[dae traditae sive vendendae, et in domo ipsius]
[cum rebus eius fuerint incendio concrematae],
[una cu]m testibus qui commendata suscepe-
[rat p]raebeat sacramentum, nihil exinde
[suis p]rofuisse compendiis, et nihil cogatur
[exsol]vere, excepto auro et argento, quod
[ardere] non potuit …1314
[CCLXXXII. Qui commendata vel commodata]
[susceperit et de ruina aut incendio vel hosti]-
[litatis naufragio seu quolibet simili casu sua]
[omnia liberaverit et aliena perdiderit, quod]
[accepit sine aliqua excusatione exsolvere]
cogatur. Si vero partem aliquam de rebus
propriis liberasse cognoscitur, illi, cuius
res secum habuerat, iuxta modum perditae
rei vel liberatae restituat, quam iudex
ratione deducta estimaverit portionem15.

13Assai più consapevole e completa è la reinterpretazione della ‘lex quod Nerva’ di alcuni scritti giuridici estranei alla tradizione scientifica bolognese, risalenti all’XI o XII secolo. Le Exceptiones legum romanarum Petri16, sulla base del principio dell’utilitas contrahentium, elaborano un’originale costruzione dottrinale fondata sulla tripartizione custodia gravis, mediocris e levis, cioè sulla tipologia degli obblighi di custodia gravanti sul comodatario, sul conduttore e sul depositario: la custodia gravis è richiesta al comodatario che ‘tam caute et tam studiose debet adhiberi diligentiaut numquam ab alio suo pare, qui sapientior esset eo, melius posset custodiri’ (II.24); la custodiamediocris è pretesa in re locata ed è quella che il ‘bonus pater familias in re sua habere solet’ (II.23); la custodia levis è richiesta al depositario gratuito ed è quella che egli suole esibire nelle sue cose: essa definisce anche la misura della sua responsabilità perché ‘ea adhibita, si rem amiserit emendare non cogitur’ (II.21).

II.21: De re alterius suscepta in custodiam. Si quis rem alterius, gratis et sine ulla mercede accepta vel promissa, in custodiam susceperit, talem custodiam adhibeat, qualem rei sue exhibere solet. Ea adhibita, si rem amiserit, emendare non cogitur, nisi specialiter est promissum depositari ut si aliquo modo eam perderet, emendaret.

23: De re locata. In re locata non tam levis custodia adhibenda est ut in deposita, neque tam gravis ut in commodata, sed mediocris, id est talis qualem bonus paterfamilias in re sua habere solet.

24: De re commodata. In commodata vero, tam caute et tam studiose debet adhiberi diligentia ab eo, cui accomodata est, ut numquam ab alio suo pare, qui sapientior esset eo, melius posset custodiri. Quam si adhibuerit et maiore vi vel casu fortuito, id est qui provideri non potest, rem sibi commodatam amiserit, emendare non cogitur, nisi omnem custodiam repromiserit, id est quocumque modo amitteret, restitueret.

14Sotto il nome di custodia levis, la diligentia quam suis del depositario viene qui elevata a concetto dogmatico generale in contrapposizione alla custodia mediocris, cioè alla diligentia del bonus pater familias e a quella gravis, l’exactissima diligentia delle Istituzioni giustinianee. Se davvero l’opera è anteriore alla rinascita bolognese, essa attesta che già in quest’epoca la ‘lex quod Nerva’ era stata oggetto di un’ampia riflessione dottrinale che ne aveva esteso e generalizzato la portata ben oltre il dettato giustinianeo.

Più rispettoso della tradizione e del modello giustinianeo è senz’altro il Brachilogus iuris civilis, esposizione sistematica del diritto secondo lo schema delle Institutiones17. Ma nel titolo III.6 ‘de deposito’, ove tratta della responsabilità del depositario per dolo e culpa lata, anch’esso rivela l’ampia riflessione dottrinale sviluppatasi, già in età preirneriana, intorno alla ‘lex quod Nerva’ e alla diligentia quam suis del depositario: specifica, infatti, che è lata culpa anche custodire le cose depositate con minor accuratezza delle proprie e, per converso, definisce securus, per qualunque causa la cosa sia perita o deteriorata, il depositario che huiusmodi custodiam in deposito adhibuit:

III.6: De deposito. 1 Depositum vero est quod datur custodiendum gratuito. 2. In hoc autem contractu quia nulla utilitas depositarii, sed solummodo onus versatur, non nisi dolum et latam culpam prestare depositori vel eius heredi compellitur: lata culpa etiam esse videtur, si minus rem depositam sua propria custodierit; qui vero huismodi custodiam in deposito adhibuit, quocumque modo res amissa vel deteriorata fuerit, securus erit.

3. D. 16.3.32 nella Glossa

15Se la diligentia quam suis del depositario ci appare in veste di regola generale già prima del pieno affermarsi della scuola di Bologna, è soltanto con questa che la ‘lex quod Nerva’ diviene il centro di un ampio reticolato di richiami, riferimenti e citazioni di passi paralleli, che le conferiscono un ruolo centrale nel nuovo sistema della responsabilità contrattuale.

16Al centro della riflessione dei glossatori sta, in primo luogo, la frase d’esordio del testo celsino (‘… latiorem culpam dolum esse …’) che ben si prestava ad essere estrapolata dal contesto ed intesa in via generale come formulazione della dottrina della responsabilità del depositario per dolo e culpa lata. Ma occorreva anche fare i conti con il seguito del passo che, individuando una colpa grave nel ‘minorem quam suis rebus diligentiam praestare’, esigeva un coordinamento con il ‘non intelligere quod omnes intellegunt’ di D. 50.16.213.2 e 223.pr., altra famosa definizione di culpa lata presente nei Digesta. Occorreva inoltre indagare il significato preciso dell’espressione culpalatior’ e domandarsi se in essa non fosse individuabile una qualche peculiarità contenutistica rispetto alla comune culpa lata, tenuto anche conto del fatto che il testo celsino non si limitava ad equipararla al dolo ma ne affermava recisamente l’identità (‘… latiorem culpam dolum esse …’).

17I glossatori superarono queste difficoltà, da una parte identificando la culpa latior del testo con la comune culpa lata (gl. ‘latiorem: id est latam’), dall’altra riducendo la portata della prima frase (‘… latiorem culpam dolum esse …’) a mera equiparazione, sotto il profilo degli effetti, di due figure separate e distinte (gl. ‘dolum esse’: ‘… dolus fit ex fraude, et lata culpa ex fatuitate’), infine assumendo un concetto bifido di culpa lata consistente sia nel «non capire ciò che tutti capiscono» (secondo i fr. 213.2 e 223.pr. D. 50.16), sia nel «prestare, nella custodia della cosa affidata, minor diligenza che in suis» (secondo la ‘lex quod Nerva’). Così, nella lettura dei glossatori, il depositario rispondeva per dolo, per grave e inescusabile negligenza e per il mancato rispetto della diligentia quam suis18.

18L’idea che la latior culpa (= lata) della ‘lex quod Nerva’ non fosse identificabile col dolo ma soltanto ad esso equiparata, era supportata da svariati richiami testuali (D. 47.4.1.219, D. 36.1.23(22).320, D. 11.6.1.121, D. 44.7.1.522) e da una citazione (alquanto approssimativa) aristotelica23. Così le glosse alle parole ‘dolum esse’ della Lectura super Digesto Veteri di Odofredo e della Magna Glossa di Accursio citano tutti questi passi e concludono richiamando l’aristotelico ‘nihil est idem cui id ipsum simile est’:

(Odofredo, Lectura super Digesto Veteri) gl. ‘dolum esse’: id est dolo comparari ut supra si mensor falsum modum dixerit l. i § lata (D. 11.6.1.1). Unde ubi quis de dolo tenetur et de lata culpa ut hic: ex quibus apparet latam culpam non esse dolum, quia nemo est id ipsum quod est ei simile24.

(Magna Glossa) gl. ‘dolum esse’: id est dolo comparari. Ut est, ubi quis de dolo tenetur, ibidem teneatur et de lata culpa. Non autem est idem, cum dolus fit ex fraude, et lata culpa ex fatuitate. Praeterea dicitur similis esse: ut infra si is, qui testamento liber esse iussus erit l. i § ii (D. 47.4.1.2) et infra ad Trebell. l. mulier § si heres (D. 36.1.23[22].3) et supra si mens. fals. mo. dix. l. i § pen. (D. 11.6.1.1). Ergo non est idem, cum dicat Aristoteles: nihil est idem, cui id ipsum simile est25.

19Lo stesso si legge nella Summa super Codicem di Azone (tit.depositi’) che, accanto ai predetti passi, cita D. 48.8.7 Paul. l.s. de publ. iud.26, testo particolarmente significativo nella materia trattata: questo, a proposito della lex Cornelia de sicariis et veneficiis, negava la legittimità dell’equiparazione fra dolo e culpa lata in campo criminale ove, invece, era ineludibile la prova diretta della volontarietà del crimen. Non soltanto, dunque, per Azone era da escludere l’identificabilità fra dolo e culpalata, ma la loro stessa comparazione era ammissibile limitatamente alla pecuniaria causa:

Nec nam vere potest dici quod lata culpa sit dolus cum et in eadem lege dicatur ipsam prope dolum esse et alibi dicatur eam dolo comparari, ut ff. si mensor falsum modum dixerit l. i § lata (D. 11.6.1.1); si nam similis est dolo, ergo impossibile est eam dolum esse. Nam et Aristoteles ait: Nihil est id cui ipsum sit simile. Alibi dicitur quod lata culpa in doli crimen cadit quod cum praedicta determinatione est intellegendum ut ff. de actionibus et obligationibus l. i § is quoque (D. 44.7.1.5); alibi dicitur quod culpa dolo proxima dolum representat, ut ff. si quis testamento liber esse iussus erit l.i § non autem (D. 47.4.1.2). Alias alibi dicitur quod magna neglegentia sit dolus ut ff. de verb. sign. l. magna (D. 50.16.226). Et illud eodem modo expono ut diximus. Nam si vere esset dolus ergo veniret in legem Corneliam, quod lex negat ut ff. ad legem Corneliam de sicariis et veneficiis l. in lege (D. 48.8.7). Comparatur ergo dolo lata culpa quia si in pecuniaria causa aliquis teneatur mihi de dolo tenebitur et de lata culpa …27.

20Funzionali ad estendere la responsabilità del depositario per culpa lata oltre il dettato della ‘lex quod Nerva’, cioè anche al secondo senso attestato in D. 50.16.213.2 e 223.pr. (‘non intelligere quod omnes intellegunt’), erano poi i richiami, da una parte, a D. 50.16.223.pr. (‘lex latae’) nella glossa latiorem, dall’altra, a D. 24.3.24.5, un contrastato frammento ulpianeo in tema di dote, nella gl. ‘nam et si quis’ di Accursio:

gl. ‘latiorem’: id est latam cuius finis est non intelligere quod omnes intellegunt, ut infra de ver. sig. latae (= D. 50.16.226)28.

gl. ‘nam et si quis’: quasi dicat, et si forte aliquis non sit ita diligens sicut homines solent esse, fraude non caret, nisi ad suum modum, quem scilicet tenet in rebus suis, curam praestet in deposito. Sed quid si tantum praestet in deposito, quantum in rebus suis, sed in suis non tantum, quantum natura hominum desiderat; respondere tenetur quia est lata culpa: ut infra sol. matr. l. si constante § si maritus (D. 24.3.24.5). Accurs.29.

21Il caso di D. 24.3.24.5, Ulp. 33 ad ed., citato da Accursio, è quello di un marito saevus verso gli schiavi dotali, di cui la moglie, al momento dello scioglimento del matrimonio, chiede con l’actio rei uxoriae la condanna per saevitiae. Ulpiano ammette con certezza tale possibilità (‘constat’) nel caso di un marito che non abbia rispettato la diligentia quam suis (‘… diligentiam uxor eam demum ab eo exigat, quam rebus suis exiget, nec plus possit’), cioè sia stato saevus verso i servi dotales ma non verso i propri; ma lo stesso viene ammesso, pur con qualche maggior titubanza, nel caso di un uomo per natura spietato, le cui crudeltà non siano risparmiate a nessun membro della familia servile. Una tale immoderata saevitia non deve infatti restare impunita:

(D. 24.3.24.5) Si maritus saevus in servos dotales fuit, videdum, an de hoc possit conveniri. Et si quidem tantum in servos uxoris saevus fuit, constat eum teneri hoc nomine: si vero et in suos est natura talis, adhuc dicendum est immoderatam eius saevitiam hoc iudicio coercendam: quamvis enim diligentiam uxor eam demum ab eo exigat, quam rebus suis exiget, nec plus possit, attamen saevitia, quae in propriis culpanda est, in alienis coercenda est, hoc est in dotalibus.

22Applicato al deposito, il testo ulpianeo forniva facile appiglio per l’estensione della ‘lex quod Nerva’ e della responsabilità del depositario alla grave e inescusabile negligenza della ‘lex latae’ (D. 50.16.223.pr.): così, nella gl. ‘nam et si quis’ di Accursio, la citazione di D. 24.3.24.5 (sol. matr. l. si constante § si maritus) serve appunto a provare che il depositario risponde verso il depositante non solo se in deposito è meno diligente che in suis, ma anche se, indipendentemente da tale parametro, commette una colpa talmente grave da non potere restare impunita30.

23Secondo la lettura dei glossatori il depositario rispondeva, dunque, per dolo e per le due accezioni di culpa lata rinvenibili nelle fonti. Ma l’elaborazione della diligentia quam suis come categoria dogmatica generale esigeva ulteriori precisazioni concettuali, funzionali soprattutto a superare i contrasti esistenti fra i testi: in particolare, se la ‘lex quod Nerva’ aggravava la responsabilità del depositario configurando, nell’omissione della diligentia quam suis, un caso di culpa lata (‘… nisi tamen ad suum modum curam in deposito praestat fraude non caret …’), nella lex socius socio (D. 17.2.72, Gai 2 r. cott.) la prestazione della diligentia quam suis costituiva il limite della responsabilità per colpa del socio (… Culpa autem non ad exactissimam diligentiam dirigenda est: sufficit etenim talem diligentiam communibus rebus adhibere socium, qualem suis rebus adhibere solet …’).

24Alla contraddizione i glossatori non si arrendono e cercano una soluzione che armonizzi le due discipline alla luce dei diversi contesti, senza peraltro pregiudicare il principio dell’utilitas contrahentium. Così Azone – la cui soluzione viene recepita dalla Magna Glossa (gl. ‘solet’ a Iust. inst. 3.25.9.pr.) – nel titolo ‘pro socio’ della Summa Codicis riferisce al socio e al depositario doveri di diligentia di diverso contenuto: al socio viene richiesto di mantenere il livello di diligentia a lui abituale prima dell’assunzione in società (‘diligentiapraeteriti temporis’)31, al depositario di garantire, post depositionem, parità di trattamento fra le cose affidate e le proprie (‘consuetudo praesentis temporis’)32:

Item venit in hanc actionem bona fides ut dolus absit. Item culpa si non prestet eam diligentiam quam in rebus suis adhibere solet. Ultra autem non tenentur sibi imputaturo eo qui parum diligentem socium sibi assumit et sic dicitur de se queri ut ff. eo l. cum duobus § venit autem (D. 17.2.52.1) et l. socius socio (D. 17.2.72) et instituta eo § ult. (Iust. inst. 3.25.9). In depositario autem non spectatur praeteriti temporis consuetudo sed praesentis quod est post depositionem ut ad minus adeo sit diligens in depositis ut in suis ut diximus supra depositi. Et idem forte est in eo qui non est socius sed habet mecum rem communem, ut et ibi praesentis temporis diligentia quam adhibet in propriis praestanda sit in communibus, ut ff. fam. herc. heredes § non tantum (D. 10.2.25.16)33.

(Iust. inst. 3.25.9.pr.) gl. ‘solet’: Ante contractam societatem. Et in hoc discrepat a depositario qui ut in presenti tenetur sic ff. depo. l. quod nerva. Sic est in eo cum quo habeo rem communem sine societate, ut ff. fa. her. l. heredes § non tantum (D. 10.2.25.16)34.

25Questa soluzione non pregiudica, secondo Piacentino, l’applicazione del principio dell’utilitas perché il socius risponde pur sempre di culpa, quindi fortiter, il depositario di dolo e culpa lata, quindi leviter:

Placentini Summa Institutionum, in librum tertium Institutionum, de societate tit. XXIIII: Tenetur socius socio etiam neglegentiae nomine, sed hoc ita: si vel in suis diligens est, vel esse solet, alias minime. Ergo in medio constitutus est inter depositarium et coheredem. Quippe depositarius non tenetur, nisi ad eam diligentiam, quam in suis praestaret, et praestiterit, aut non, ergo ita distinguere possumus: depositarius tenetur leviter, socius fortiter, coheres fortius, commodatarius fortissime35.

26Come già nel Codex Euricianus e nelle leges Visigothorum e Baiuwariorum (§ 2), il riferimento evidente di Azone è a D. 13.6.5.4 (Ulp. 28 ad ed.) in tema di comodato (ove al comodatario viene imputato il perimento fortuito della cosa affidata se nella stessa circostanza ha salvato la sua), alla luce del quale la ‘lex quod Nerva’ viene letta e interpretata al di là del suo dato letterale36:

D. 13.6.5.4: Quo vero senectute contingit vel morbo, vel vi latronum ereptum est, aut quid simile accidit, dicendum est nihil eorum esse imputandum ei qui commodatum accepit, nisi aliqua culpa interveniat. Proinde et si incendio vel ruina aliquid contigit vel aliquid damnum fatale, non tenebitur, nisi forte, cum possit res commodatas salvas facere, suas praetulit.

27Ma il collegamento è sviante ed errato perché, mentre in D. 16.3.32 la responsabilità del depositario si arguisce dal confronto fra la sua diligenza abituale e quella attuale, in D. 13.6.5.4 è il confronto fra la sorte dei due diversi gruppi di beni nella stessa circostanza a far presumere l’esistenza della culpa (‘… nisi aliqua culpa interveniat’) e a fondare la responsabilità. Inoltre la soluzione, che è per il comodatario la diretta conseguenza dell’applicazione del principio dell’utilitas, non si adatta punto al depositario gratuito, cui nessuna norma o ragione pratica potrebbe imporre il sacrificio della propria cosa a favore di quella affidata. Ma i glossatori non si avvedono della forzatura e, nella gl. ‘salvas facere’ a D. 13.6.5.4, citando la ‘lex quod Nerva’, giungono ad imputare il damnum fatale al depositario che abbia sacrificato la cosa affidata alla propria, a meno che – aggiunge la glossa – la prima non fosse vilioris pretii di quella in sua proprietà:

gl. ‘salvas facere’ a D. 13.6.5.4: Simili enim modo debet custodire, ut hic, et infra deposi. l. quod nerva, sic et tutor pupilli pecuniam, ut infra de admin. tut. l. tutor (D. 26.7.13), … Sed quid si res commodata erat vilis pretii, sua vero pretiosa res erat? Respondere non tenetur …37

28E’ su questa nuova base interpretativa che Azone, nel titolo ‘depositi’ della Summa Codicis, elabora la nuova categoria dogmatica del «dolo presunto», che tanto successo avrà nei secoli successivi: alla culpa lata della ‘lex latae’ (D. 50.16.223.pr.), inescusabile negligenza, lontanissima dal dolo, di chi ex fatuitate non è nemmeno in grado di capire la stupidità e la pericolosità del proprio comportamento, si affianca la culpa lata della ‘lex quod Nerva’ che, pur non identificabile col dolo, si trova ad esso assai più vicina: la semplice disparità di trattamento fra le cose proprie e le altrui nella stessa circostanza fa, infatti, presumere nel depositario un’intenzione di frode perché, come dice Celso, ‘fraude non caret’ chi ‘minorem quam suis rebus diligentiam praestabit’. Così Azone, dopo aver richiamato D. 17.1.29.pr. in tema di mandato, dichiara che ‘dolus praesumitur’ e ‘abesse praesumitur bona fides’ ogniqualvolta ‘res suas habet salvas et res depositae non apparent’:

… Venit autem in actionem istam dolus tantum … et lata culpa; quam latam culpam vel latiorem nerva dixit dolum esse, quod sic intellego i. dolum praesumi, ut ff. man. l. si fideiussor primo responso (D. 17.1.29.pr.). … Praesumitur autem lata culpa dolus circa depositarium qui licet non sit adeo diligens ut natura desiderat vel ut homines consuerunt esse diligentes si tamen curam in deposito non praestet ad modum suum, idest quem observat in rebus suis propriis, fraude non caret nec non salva fide minorem depositis rebus diligentiam praestabit quam suis. Abesse nam praesumitur bona fides cum res suas habet salvas et res depositae non apparent … Exemplum pone. Si res suas reponebat in archa bene firmata. Res autem depositas relinquebat in domo supra bancha38.

29La nuova categoria del dolo presunto viene recepita dalla «Glossa ordinaria», che spiega così la parola ‘fraude’ del fr. 32:

gl. ‘fraude’: id est lata culpa quae fraudi comparatur. Vel dic fraude, scilicet praesumpta39.

30La riflessione dei glossatori sulla ‘lex quod Nerva’ aveva, dunque, portato ad identificare l’essenza della responsabilità per diligentia quam suis, non tanto nelle modalità concrete della custodia prestata dal depositario, quanto nel dato meramente formale della disparità di trattamento, nella stessa circostanza, fra le cose proprie e quelle affidate: essa faceva di per sé presumere l’esistenza della frode perché – come dirà Baldo – ‘quantum ad notitiam futuri pericoli, quod ?depositarius? cognoscit in se, cognoscit in alio40.

31Di qui a svincolare la teoria della responsabilità dal dato dell’obbiettiva riprovevolezza del comportamento dell’obbligato, cioè dal suo naturale connotato etico, il passo era breve: ed è manifesto nella «Glossa ordinaria» che, a spiegazione delle parole ‘minorem’ di D. 16.3.32 e ‘contractus’ di D. 50.17.23, individua un caso di dolo presunto non solo nel depositario mediamente diligente che in deposito non rispetti tale standard e sia pertanto negligens, ma anche nel depositario diligentissimus che, in deposito, sia soltanto diligens:

gl. ‘minorem’ quam debet: ut si in suis non est diligens ut alii homines: sed quid si in suis est diligentissimus, in depositis est ut alii homines? Videtur esse in fraude ut ibi …41.

gl. ‘contractus’ (a D. 50.17.23): Dolum tantum recipiunt depositum et precarium, ut supra depositi l. quod nerva … tamen hoc non excludit latam culpam, ut dictis legibus, quae dolo comparatur, ut supra si mensor fal. mo. di. l. i § ideo autem (D. 11.6.1.1). Sed excludit levem et levissimam. Plane et in his et exactissima diligentia praestatur interdum si depositarius, vel qui accedit precario, in suis est diligentissimus. Item si in suis est negligentissimus, non erit impunita eius negligentia: diligens nam debet esse ad eum modum quem hominum natura desiderat, ut supra depositi l. quod nerva42.

32La responsabilità del depositario, che nelle stesse dichiarazioni di intento dei glossatori doveva assumere proporzioni ridotte per il principio dell’utilitascontrahentium, ne assumeva invece di elefantiache, addirittura imputando il diligentissimus di culpa levissima (così espressamente la gl. ‘contractus’ a D. 50.17.23) laddove avrebbe dovuto rispondere soltanto di dolo e culpalata. L’essenza di tale infrazione non sta nelle modalità del suo atteggiamento, ma nella mera disparità di trattamento fra cose proprie ed altrui: quindi il diligentissimus ed il diligens sono tenuti rispettivamente all’exactissima e alla media diligentia e, se non la rispettano, saranno imputati di culpa lata = dolo presunto, pur avendo nella sostanza commesso una mera culpa levissima o levis.

33Certo, con un’applicazione rigorosa del principio, ciò che costituisce per il diligentissimus svantaggio, dovrebbe per il negligente tradursi in beneficio, visto l’abbassamento del livello di responsabilità derivante, nella specie, dall’applicazione della diligentia quam suis: ma tale conseguenza logica viene attenuata nella Magna Glossa, che non solo nega in via di principio ogni possibilità di scusante alla negligenza grave del depositario (e a questo fine cita, come già visto, D. 24.3.24.5) ma addirittura, nella gl. ‘nam et si quis’ a D. 16.3.32 e nella glossa ‘contractus’ a D. 50.17.23, con evidente forzatura del dato testuale, giunge ad identificare come culpalata il comportamento di chi non sia ‘diligens quantum natura hominum desiderat’ e questo stesso standard applichi alla custodia della cosa depositata:

gl. ‘nam et si quis’: Sed quid si tantum praestet in deposito, quantum in rebus suis, sed in suis non tantum, quantum natura hominum desiderat? respondere tenetur quia est lata culpa: ut infra sol. matr. l. si constante § si maritus (D. 24.3.24.5). Accurs.43.

gl. ‘contractus’: … Item si in suis est negligentissimus, non erit impunita eius negligentia: diligens nam debet esse ad eum modum quem hominum natura desiderat, ut supra depositi l. quod nerva44.

34Così, nell’opinione prevalente recepita dalla Magna Glossa, l’applicazione della ‘lex quod Nerva’ poteva aggravare la responsabilità del depositario ma, di regola, non attenuarla: non si trattò, tuttavia, di un’opinione incontrastata. Ce lo rivela un Tractatus de diligentia et dolo et culpa et fortuito casu della prima metà del XII secolo pubblicato dal Dolezalek45 nel 1982 che, nel titolo ‘de pro socio’ (sic!), a proposito della diligentia quam suis del socio, cita il parere di un certo Theuzo, maestro altrimenti ignoto, forse di scuola veronese46: nell’amministrazione delle cose comuni, per evitare la responsabilità, al socius non basterebbe, secondo Theuzo, l’applicazione della propria diligenza abituale, ma occorrerebbe comunque l’exacta diligentia. In mancanza si cadrebbe, infatti, nell’assurdo di equiparare socio e depositario sotto il profilo della responsabilità, applicando ad entrambi lo stesso trattamento di favore in evidente contrasto col principio dell’utilitas:

de pro socio. In pro socio actione dolus et culpa prestatur, ut D. de regulis i. Contractus (D. 50.17.23). Set sufficit talem diligentiam prestare qualem socius in suis rebus adhibere solet, ut D. e. Cum duo. § Venit, Socius socio (D. 17.2.52.2) et famil. herc. l. Heredes § Non tantum (D. 10.2.25.16), in instit. De societate § ult. (Iust. inst. 3.25.9). Nec negligentia socii est compensanda cum industria eius, sed ipsi imputanda est, ut D. pro socio Non ob (D. 17.2.25). Sententia vero Theuzonis est ut et si non sit diligens in suis rebus socius, oporteat eum prestare exactam diligentiam in communibus. Alioquin nihil distare hanc actionem a deposito, quod esset absurdum. Refert ut in instit. e. (Iust. inst. 3.25) et D. e. Cum du. § i (D. 17.2.52.2).

35Laddove Accursio e la dottrina prevalente accentuavano l’effetto aggravante della ‘lex quod Nerva’ sulla disciplina della responsabilità del depositario, Theuzo ne accentua all’opposto l’effetto attenuante: per lui è regola certa che al depositario meno diligente della media basti, per evitare la responsabilità, usare questo stesso grado di diligenza.

Ma questi contrasti vengono presto superati e la dottrina minoritaria abbandonata: la ‘lex quod Nerva’ è ormai norma generale47 dai precisi contorni interpretativi da cui, come si vedrà, le successive scuole faticheranno a staccarsi.

4. La ‘lex quod Nerva’ e la metodologia del commento

36L’esposizione della teorica della diligentia quam suis elaborata dai glossatori ne ha messo in luce alcuni punti critici, come l’irrisolta oscillazione fra i concetti di culpa lata e dolo nella configurazione dogmatica del «dolo presunto», l’indebito richiamo a D. 13.6.5.4 nell’interpretazione di D. 16.3.32 e l’ingiusta penalizzazione del depositario diligentissimus chiamato addirittura a rispondere per culpa levissima. I commentatori, nell’atto stesso di classificare, distinguere e precisare i concetti ricevuti dalla tradizione sulla scorta delle nuove tendenze sistematico-dialettiche, individuano tali lacune e in vario modo tentano di colmarle.

37Fra gli antesignani del metodo del commento, uno dei primi a intervenire ampiamente nel dibattito sulla ‘lex quod Nerva’ è Pierre de Belleperche, le cui soluzioni innovative, equilibrate e rigorose verranno, tuttavia, parzialmente obliterate dalla rivisitazione di Bartolo: nella Lectura Institutionum, in un’ampia esposizione della sistematica della colpa incidentalmente introdotta nel titolo ‘deobligationibus quae quasi ex delicto nascuntur’ (IV.1)48, il Bellapertica corregge l’interpretazione della glossa individuandone con mirabile acume tutti i lati oscuri.

38Come già visto, secondo i doctores, il depositario rispondeva, oltre che per dolo, per due forme diverse di culpa lata, da una parte l’omissione di diligentia quam suis altrimenti qualificata come dolo presunto (D. 16.3.32), dall’altra la grave e inescusabile negligenza di chi ‘non intelligit quod omnes intellegunt’ (D. 50.16.213.2 e 223.pr.). Secondo il Bellapertica la prima categoria (la culpa lata intesa come dolo presunto) confonde i profili del dolo – che è ‘calliditas’ – con quelli della colpa – che è ‘ignorantia’ – e trascura la testuale equiparazione della culpa latior al dolo dell’esordio del fr.32 (‘… latiorem culpam dolum esse’). L’omissione di diligentia quam suis non configura, dunque, una forma di culpa lata ma un caso puro e semplice di dolo, malevola intenzione del depositario desumibile dalla disparità di trattamento fra le cose proprie e quelle affidate. Non è peraltro isolabile, secondo l’autore, un’autonoma categoria di dolo presunto distinta da quella di dolo vero, perché le intenzioni, celate nell’animo, sono di necessità imprescrutabili ed ogni dolo è per sua natura presunto:

Lectura Institutionum IV.1, ‘de obl. quae ex quasi del. nasc.’ 1049: Sed certe omnis dolus est praesumptus. Nam dolus consistit in animo et ea quae sunt in animo est impossibile intelligere nisi per praesumptionem, et probatur hoc in pecudibus, ut supra de rerum divisio § pavonum (Iust. inst. 2.1.15). Ergo non est dare dolum nisi praesumptum, et propter hoc intellige sic quod lata culpa est dolus et dolus lata culpa est, id est, dolo similis est. Et sic intelleguntur glossae et sic intellegitur l. ff. depo. l. quod nerva. Nam ibi diffinitur dolus deinde ponitur exempum doli. Nam dolus est species culpae et quod iurisconsultus ponit exemplum lata culpa est quando aliquis in rebus suis et in alienis est negligens ultra communem hominum modum. Unde si quis melius servet res proprias quam depositum latior culpa est quae dolo non caret: imo dolus dicitur, et sic loquitur l. illa si bene intellegatur.

39Rimane, dunque, una sola categoria di culpa lata – quella di chi ‘ignorat illud quod omnes sciunt’ –, ma anch’essa, secondo il Bellapertica, deve essere precisata: non è infatti definibile in astratto – come hanno fatto i glossatori – ma si può soltanto desumere in concreto dal contesto, dalla situazione personale dell’agente e dalle sue effettive possibilità di rendersi conto della riprovevolezza del proprio comportamento:

750: Tertio quaero quid sit lata culpa. Doctores dicunt quod lata culpa est negligentia maior quam exigat communis modus hominum, id est qui ignorat illud quod omnes sciunt. … Certe doctores tentant illud diffinire quod est impossibile. Nam sicut est impossibile diffinire moram, ut ff. de usuris l. mora (D. 22.1.32.pr.), ita impossibile est diffinire latam culpam. Sic intelligas verba doctorum. Ille est in lata culpa qui ignorat illud quod omnes sciunt, vel debet intelligere si habet eandem causam sciendi: subaudi cum aliis. quid enim si dum fit bannum regis coram rusticis, ego sum in camera. Nunquid dices me esse in lata culpa si ignorem bannum quod omnes rustici sciunt. Unde intelligo de eo qui habet eandem causam sciendi cum aliis.

40Su questa base, partendo dalla critica alla diffinitio di ‘dolum’ formulata dagli antiqui doctores, l’autore rivede l’interpretatio della ‘lex quod Nerva’ precisandola con rigore ed equità.

41Dalla combinazione di D. 16.3.32, D. 13.6.5.4 e D. 26.7.7.pr. si era diffuso fra i doctores, anche contro l’insegnamento di grandi maestri della glossa (come Azone), l’uso di definire in via generale il dolo come infrazione della diligentia quam suis, obliterandone l’aspetto essenziale della calliditas (evidenziato, invece, in D. 4.3.1.2-3). Bellapertica mette in guardia dal rischio di generalizzare la ‘lex quod Nerva’ estrapolandola dal suo contesto. La diffinitio si riferisce al solo depositario e all’adempimento del suo obbligo di custodia e in questi meri termini deve essere intesa: in mancanza si giungerebbe all’assurdo di imputare di dolo lo studente di diritto che, ricevuto in deposito il codex Pandectarum di un compagno, annotasse con glosse il proprio esemplare ma non le riproducesse su quello del depositante:

3-451:…. Unde dicunt quod dolus est ex negligentia procedens ex eo quod minor diligentia adhibetur alienis rebus quam in suis verbi gratia. Tu ponis penes me rem tuam custodiendam ego eam negligenter custodio et meam diligenter: ecce dicunt ipsi quod hic est dolus ad hoc inducunt ff. deposi. l. quod nerva (D. 16.3.32) et ff. commo. l. si ut certo § plane (D. 13.6.5.4) et ff. de administra. tut. l. tutor § primo (D. 26.7.7.pr.). Sed certe ista diffinitio non est generalis. Nam bene potest esse dolus non habito respectu ad res proprias vel ad alienas. Dicas ergo et diffinias dolum ut Azo diffinuit. Nam dolus est calliditas ut ff. de dolo l. prima (D. 4.3.1.2-3). Item dico quod haec diffinitio non est vera. Nam potes esse quod ego non adhibeo tantam diligentiam in re aliena quantum in mea et tamen non sum in dolo, imo, quod plus est, nec in aliqua culpa. Nam pone: tu deposuisti penes me tuum ff., ego similiter habeo ff. certa quae corrigendo omnem diligentiam adhibeo quam possum, et circa ff. tuum solam literam non appono. nunquid sum in dolo? absit. Unde restringe hoc quod dicunt doctores quod minor negligentia inducit dolum ad hoc quod tenetur de natura contractus depositarius. Scilicet ad rem custodiendam et sic debet intellegi ff. depo. l. quod nerva.

42D. 16.3.32 presenta, dunque, per Bellapertica, un esempio di dolo del depositario desumibile dall’omissione di diligentia quam suis nella custodia del bene depositato. Il depositario risponde, poi, per culpa lata nell’accezione di D. 50.16.223.pr.

43Ma le novità non finiscono qui: la glossa, interpretando D. 16.3.32 alla luce di D. 13.6.5.4, estendeva la responsabilità del depositario al perimento fortuito della cosa affidata quando, nella stessa circostanza, egli avesse preferito salvare la propria, salvo che quest’ultima fosse ‘pretiosior’ e la preferenza fosse, dunque, giustificata. Il Bellapertica corregge questo assunto, precisando che al depositario non si chiede di usare verso la cosa depositata la stessa diligenza che usa verso la sua, ma la diligentia che ragionevolmente presterebbe se la cosa depositata fosse sua:

452: Sed pone etiam in custodia tu deposuisti penes me ff. tuum quod non valebat decem; ego habeo ff. quod XX valebat. Certe nec in isto casu teneo adhibere tantam diligentiam quantam in meo, quod probo. Nam posito quod ff. tuum esset meum, tamen non tantam diligentiam apponerem in minus valens quantam in pretiosius. Nam ubi est maius periculum, ibi cautius est agendum, ut ff. de carbo. edict. l. prima § sed et si quis (D. 37.10.1.5), quod autem sufficiat in re aliena me adhibere tantam diligentiam in custodiendo quantam adhiberem si esset mea probatur ff. de solutio. l. iij (D. 46.3.3.pr.) et ff. de praescript. verb. l. naturalis (D. 19.5.5).

44Ma l’equità suggerisce all’autore, in aperto contrasto con la dottrina dominante, che anche nel caso di beni di pari valore, il depositario sia legittimato a scegliere se salvare la propria cosa o quella affidata e il diritto non possa sanzionare ciò che costituisce una sua libera scelta di coscienza. La conferma testuale si trova, secondo l’autore, in un frammento ulpianeo sul sc. Silaniano, ove viene esclusa la punibilità del servus che, in una situazione di pericolo, abbia dovuto scegliere a quale dei suoi padroni recare aiuto:

D. 29.5.3.4, Ulp. 50 ad ed.: Si, cum omnes domini adgressuram paterentur, uni servus opem tulit, an sit excusandus, an vero quia omnibus non tulit plectendus? Et magis est, ut, si quidem omnibus ferre potuit, quamvis quibusdam tulit, supplicio adficiendum: si vero simul omnibus non potuit, excusandum, quia quibusdam opem tulerit. Nam illud durum est dicere, si, cum duobus auxilium ferre non possit, elegit alteri esse auxilio, electione crimen eum contraxisse.

Petrus de Bellapertica, Lectura Institutionum IV.1, 4-553: Sed pone quod res aliena sit aeque pretiosa sicut mea, et contingit incendium, ita quod utranque et alienam et meam custodire non possum: sed bene possum unam salvare. Quaeritur quam salvabo. Videtur quod alienam debeam salvare. Arg. ff. commo. l. si ut certo (D. 13.6.5.4) et ff. de admini. tuto. l. tutor qui repertorium (D. 26.7.7). Quid dicemus: ego dico quod erit hic locus cui velim gratificare et sanum consilium est ut mihi gratificem. Nam ordinata charitas incipit a seipso et quod sit hic locus gratificationi ego probo per l.: ecce quidam erat servus communis quorum: modo ita est quod servus quemlibet dominorum salvare tenetur in omni pericolo aequaliter. Ita contingit quod uterque invaditur ita quod quilibet clamat ad auxilium. Quem salvabit servus, cum utrunque salvare non possit? Certe videtur quod quem voluerit et sic relinquitur suae gratificationi. Ita est in casu proposito, arg. ff. ad sille. l. tertia § si cum omnes (D. 29.5.3.4).

45Questa soluzione innovativa non ha, tuttavia, grande fortuna54: al contrario i commentatori, richiamando la ‘lex quod Nerva’, formalizzeranno il principio dell’estensione della responsabilità del depositario al caso fortuito ‘si culpa praecedit casum55.

46Ultimo lato oscuro della ricostruzione della glossa era l’eccessivo aggravamento di responsabilità del depositarius diligentissimus. Per attenuare la rigidità della soluzione tradizionale ma, nel contempo, tutelare le aspettative del depositante, il Bellapertica escogita la media via di richiedere al diligentissimo, se non la diligentia exactissima, almeno una custodia più attenta e scrupolosa della media, purchè naturalmente ciò possa avvenire sine gravi damno suo:

1156: Quaero si quis est diligentissimus in re sua, an eum oporteat esse diligentissimum in re aliena. Glossae dicunt quod sic. Sed certe secundum hoc sequeretur quod depositarius teneretur de levissima culpa, quod esse non debet, ut ff. de regu. iur. l. contractus (D. 50.17.23). Alii dicunt quod propter hoc non oportet eum esse diligentissimum in re aliena, quia si sic, diligentia esset sibi damnosa quod esse non debet, ut ff. de separatio. l. debitor (D. 42.6.3). Et si diligentissimus in re sua deberet esse diligentissimus in re aliena, iam sequeretur quod esse deterioris conditionis quam si esset parum diligens in re sua. Quod esse non debet: quia non debet esse melioris conditionis fatuus quam peritus, ut ff. quod vi aut clam l. servius (D. 43.24.4). Ista videtur verior sed prima aequior et propter hoc ego teneo viam mediam et dico quod non debet esse diligentissimus, verumtamen tenetur ad maiorem diligentiam in re aliena quam tenetur alius non diligentissimus, si tamen diligentiam illam maiorem adhibere potest sine gravi damno suo.

47Ma anche questa proposta non troverà seguaci e, forse per la prepotente influenza di Bartolo, la dottrina tradizionale avrà maggior successo: risale, infatti, al 1343 l’ampia repetitio della ‘lex quod Nerva’ del commentario al Digestum Vetus di Bartolo57, che rappresenterà per lungo tempo il manifesto della teoria della responsabilità contrattuale nel diritto comune58.

48Anche l’argomentazione di Bartolo parte dalla critica agli antiqui doctores che, trascurando la lettera del testo, hanno confuso dolo e colpa, frode e inavvertenza, animus e ignorantia59: come per Pierre de Belleperche, la culpa latior della ‘lex quod Nerva’ non è una forma di culpa lata, ma un vero e proprio caso di dolo dedotto per praesumptionem dalla disparità di trattamento fra le cose del depositario e quelle affidate in custodia.

49Ma se il Bellapertica aveva sfumato il concetto di dolo presunto in quello generico di dolo, Bartolo lo presenta come figura autonoma del genusculpa60 distinta in sei species differenti61: la culpa latissima o dolo manifesto che si fonda su indizi manifesti, la culpalatior o dolo presunto che si fonda su indizi presuntivi, la culpalata, levis, levior e levissima, ossia le quattro forme di culpa propriamente dette62:

Dico ergo quod hec l. ita debet intellegi. Nam debetis scire quod quidam est dolus verus et iste appellatur culpa latissima, et est dolus presumptus et iste appellatur culpa latior ut hic. Est culpa lata in qua non est dolus verus nec presumptus cuius finis est non intelligere ut infra de verbo. significa. l. late (D. 50.16.223.pr.). Est etiam culpa levis, levior et levissima …63.

Omnis ergo dolus est presumptus et nullus dolus est manifestus? Respondeo. Quaedam sunt indicia manifesta et illa probata inducunt dolum manifestum ut dicit l. dolum, quaedam sunt indicia seu presumptiones non ita manifeste nec omnino dolum concludunt et ista de necessitate non inducunt dolum sed presumptive …64.

50La culpa latior, definita come ‘machinatio ad decipiendum fallendumque alterum adhibita presumptive65, ha, rispetto alla culpa latissima, minore forza probante e, come tale, in base a D. 48.8.7, è inutilizzabile nei giudizi criminali che esigono la prova diretta del dolo. Per la stessa ragione soltanto la culpa latior, non quella latissima, ammette l’excusatio del convenuto per presunzione contraria. Per Bartolo la praesumptio fraudis fondata sulla disparità di trattamento fra cose proprie ed altrui si vanifica sia quando i beni affidati siano vilioris pretii di quelli del depositario, sia quando siano comuni fra affidante ed affidatario: nel primo caso, la preferenza accordata ai propri beni è legittimata dal loro obbiettivo maggior valore66; nel secondo caso l’omissione di diligentia quam suis non giustifica una presunzione di dolo nell’affidatario-contitolare, perché il suo interesse diretto e personale all’incolumità della res communis porta di regola ad escludere la possibilità di un suo intento malevolo e fraudolento:

Iuxta praedicta quaero quid est differentia in effectu inter verum dolum et presumptum vel culpam latiorem. Respondeo … a vero dolo nulla est excusatio, a presumpto sic, ut si sit alia presumptio quae illam tollit, ut si res erat communis et aliae res depositarii erant pretiosiores, ut dixi supra in duobus ultimis commentariis. Item quia in causis criminalibus requiruntur luce meridiana clariores probationes ut l. sciant. C. de probationibus (C.I. 4.19.25)67; ille talis dolus non sufficit quia non debet quis ex presumptionibus damnari68.

51All’ulteriore riflessione del Bellapertica, che legittimava la scelta del depositario di salvare dal perimento fortuito la propria cosa a scapito di quella affidata anche nel caso di beni di eguale valore, Bartolo non accenna. Lo farà, invece, Baldo che, nel commento alla ‘lex quod Nerva’ del Commentarium al Digestum Vetus69, ripropone la regola tradizionale per cui il depositario è tenuto in tal caso a preferire la res aliena alla propria, rilevando che il brocardo ‘licitum est unicuique suam utilitatem praeponere’ e il suo corollario ‘licitum est unicuique salutem rerum suarum praeponere’ non valgono per il deposito a causa dei peculiari obblighi di custodia ivi gravanti sull’obbligato (‘ubi venit custodia, debet praeferri res aliena’). In verità la soluzione non convince e, ancora per lungo tempo, susciterà radicali polemiche70.

52E’ da notare che attraverso la teoria delle «presunzioni contrarie» Bartolo giunge anche a giustificare in modo nuovo la contraddizione esistente fra D. 16.3.32 – ove l’omissione di diligentia quam suis è presentata come culpa latior – e D. 17.2.72/D. 10.2.25.16, ove è presentata come culpa levis attenuata: con mirabile acume l’autore intuisce che la disparità di trattamento fra le cose proprie e quelle affidate può far presumere nel depositario un’intenzione malevola – cioè può configurare un’ipotesi di dolo presunto –, soltanto laddove riguardi una res aliena a cui l’affidatario non è direttamente e personalmente interessato. Viceversa la trascuratezza di una res communis, sia nel caso di comunione volontaria (la società di D. 17.2.72) che incidentale (la coeredità di D. 10.2.25.16), non fa presumere il dolo, ma suggerisce l’esistenza di una mera culpa levis, perché ‘non ita de facili praesumitur dolus in rebus communibus ex negligentia cum ad eum pertineat commodum et incommodum, sicut in rebus alienis71. Si può dunque concludere con Bartolo che ‘aut loquimur in rebus communibus et tunc non adhibere eam diligentiam quam in suis non est latior culpa, sed levis, aut loquimur in rebus alienis, et tunc est culpa latior ut hic, nisi sit aliqua presumptio ut hic72.

53Tutto questo spiegherebbe, secondo Bartolo, anche l’apparente aberrazione del depositario ‘diligentissimus’, costretto suo malgrado a rispondere di culpa levissima laddove la responsabilità è in linea di principio limitata al dolo: la trascuratezza di chi non è ‘ita fidelis alteri sicut sibi’ fa, infatti, presumere di per sé un’intenzione malevola, quale che sia il grado iniziale e normale di diligenza dell’obbligato. Né si può dire – con il glossatore Giovanni de Blenosco (o Blanasco) e, parzialmente, con Petrus de Bellapertica – che al diligentissimo nuoccia in tal caso la propria diligenza, perchè ciò che gli nuoce è, secondo Bartolo, il suo dolo presunto, desumibile direttamente dalla disparità di trattamento fra le cose proprie e le altrui:

Item opponitur, prout hic intellegitur de eo qui est plus diligens quam sint communiter homines diligentes in suis rebus, ergo videtur quod diligentia sua sit sibi damnosa quia si est minus diligens in alienis teneret et sic deterioris condicionis est iste quam minus diligens, supra l. non solum ff. de noxalibus (D. 9.4.13). Huius timore Joan. De Blenosco qui primus tractavit hanc materiam multum seriose, in materia quam fecit super titulum de actionibus non tenebat istam opinionem de eo qui erat plus diligens. Alii moderni tenent et est verum, nam eo ipso quod non est ita diligens in alienis sicut in suis fraude non caret. Nec dicitur quod sibi noceat diligentia sua, quia est falsum, immo nocet dolus suus presumptus, quia non est ita fidelis alteri sicut sibi73.

54Ma è evidente quanto la soluzione sia insoddisfacente sul piano dell’equità, il che, per lungo tempo, alimenterà le critiche: ancora in pieno cinquecento, nel Tractatus de contractibus et negotiationibus di Ludovico Lopez74, all’obbiezione dell’inconvenientia di privilegiare il ‘depositariusrudiset imperitus’ a quello ‘expertus etsolers’, il canonista non troverà di meglio che distinguere fra il foro esterno – ove vige la regola del dolo presunto – e quello della coscienza, ove ‘praesumptiocessat et veritas constat’:

… dolus imputabitur depositario ad damnum, neque sua diligentia tunc est damnosa, sed dolus praesumptus est, qui tantum in foro exteriori nocebit ei. Non autem in coscientia, ubi praesumptio cessat, et veritas constat, debet id facti nocere illi.

55Ma ciò non impedisce al dolo presunto, nell’elaborazione della glossa e di Bartolo, di penetrare profondamente nel circuito della prassi: ancora nel 1594, una decisione del Senato di Savoja riportata nel Codex Fabrianus75 su un caso di furto di pecuniae depositate in un cubiculum chiuso a chiave, condanna il depositario detentore delle chiavi se, cubiculoillaeso, risultino sottratte le sole pecuniae del depositante:

Depositarius quidem, qui neque culpam promisit, neque deposito se ultro obtulit, de culpa non tenetur, multoque minus de casu fortuito, sed tantum de dolo. Sed tamen dolum praesumptum esse sufficiet, ut conveniri possit. Finge depositas pecunias in eo loco, cuius claves semper penes depositarium fuerint, et illaeso cubiculo amissas subtractasque res depositas, ac praeterea nihil ex iis rebus, quae ad depositarium ipsum pertinebant. Negari non potest, quin doli praesumptio urgeat contra depositarium, ideoque teneri eum depositi aequum erit. … Nec depositario proderit, quod probet ex rebus subtractis quasdam in alterius manu et potestate visas esse, nisi probet etiam qua ratione fieri potuerit, ut ad possessorem res illae pervenerint. Cum alioqui necessario praesumendum fit, pervenisse facto et dolo eius qui claves habuit, sine quibus fieri non poterat, ut illaesis ianuis aut fenestris cubiculi, in quo res erant reconditae, quicquam ex iis subtraheretur.

5. La culpa ‘in concreto’ nei giuristi culti

56All’eco suscitato fra i commentatori dalla lectura Bartoli della ‘lex quod Nerva’, corrisponde fra gli umanisti l’eco eguale e contrario della critica, che si appunta soprattutto sulla divisione della culpa in sei gradi e sulla configurazione della culpa latior come categoria autonoma76: il primo fra i culti a riprendere ampiamente il tema, il tedesco Ulrico Zasio77, con opinione che diviene ben presto generale, critica Bartolo, ‘purioris linguae insuetus’, per aver frainteso l’espressione ‘culpa latior’ disconoscendovi un costrutto grammaticale tipico del latino classico che, qui come in altri luoghi giuridici o letterari78, usa il comparativuspro positivo (cd. comparativo assoluto) per meglio evidenziare il concetto-base, senza peraltro volerne creare una nuova species. Come già per la glossa, la culpa latior della ‘lex quod Nerva’ non è categoria autonoma, ma una mera forma di culpa lata che, per le sue modalità, fa presumere nel depositario un’intenzione dolosa:

1. Magis et minus diversas species non constituere … 3. Quibus consequens est culpam, sive eam latiorem sive latissimam, et item leviorem aut levissimam nomines, ea tamen graduum intentione species non diversificari … 7. Recte igitur Accursius in d.l. quod Nerva sub culpa latiore, latam intellexit, licet Bartolus putet ea expositione textum violari, quo tamen nihil est falsius. 8. Siquidem I.C. ibidem ornato schemate comparativum in positivo abutitur … Sed ad hanc loquendi ductum Bartolus purioris linguae insuetus, cum non adverteret, labi facile poterat. Quae cum ita sint, et graduum augmenta specificam differentiam non constituant, rectius mihi culpa in duas dumtaxat species dividi oportere videtur, ut fit lata et levis79.

57Ma il ritorno ad Accursio propugnato dagli umanisti non poteva che riproporre le difficoltà interpretative irrisolte dalla glossa, che Bartolo aveva tentato di superare isolando la culpa latior dalla culpa lata e inglobandola nel dolo: definire l’omissione di diligentia quam suis come una forma di culpa lata contrasta, infatti, con la lettera della ‘lex quod Nerva’ che, sia nell’esordio (‘latiorem culpam dolum esse’) che nella conclusione (fraude non caret …), parla espressamente di dolo. Il problema di fondo, che coinvolge l’intera sistematica della responsabilità contrattuale, è quello della corretta configurazione dogmatica della figura nel quadro dei criteri di imputabilità: stando alla lettera del testo, essa costituisce una forma di culpa lata che viene colpita come dolo, ma ciò evidentemente crea una singolare e incerta commistione fra due concetti che sono per loro natura separati e distinti.

58A questo problema i glossatori avevano risposto elaborando un concetto bifido di culpa lata di cui il depositario sarebbe stato contemporaneamente imputabile: da una parte il ‘minorem quam suis rebus diligentiam prestare’ della ‘lex quod Nerva’, dall’altra il ‘non intelligere quod omnes intellegunt’ della ‘lex latae’ (D. 50.16.223.pr.) esteso al deposito per applicazione di D. 24.3.24.5 in tema di dote (cfr. § 3). Di tale duplice responsabilità per culpa lata Accursio, forzando la lettera del testo, aveva anche trovato un riferimento letterale nel fr. 32 (nell’inciso ‘nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens est’) ma, così facendo, aveva finito per aggravare indebitamente la responsabilità del depositario richiedendogli addirittura, contro il principio dell’utilitas contrahentium, il rispetto dello standard medio di diligenza richiesto dalla natura hominum (gl. ‘nam et si quis’ a D. 16.3.32 e gl. ‘contractus’ a D. 50.17.23: cfr. § 3).

59Di questo errore interpretativo tutti gli umanisti si avvedono ed evitano di riproporlo, talvolta anche apertamente criticando, sul punto, la dottrina di Accursio (così ad esempio Antonio Fabro80, Pietro Fabro81 e Jacopo Gotofredo82). Quanto, invece, alla precisazione dei contorni dogmatici della figura e dei suoi rapporti con la culpa lata e col dolo, manca fra i culti una dottrina unitaria, essendo invece individuabili, pur nelle peculiarità dei singoli autori, tre diverse correnti interpretative: la dottrina maggioritaria, inaugurata da Zasio e riproposta nelle linee essenziali da moltissimi autori (Antonio83 e Pietro Fabro84, Jacopo Gotofredo85, Nicola Burgundio86, Jacobus Raevardus87, Giovanni D’Avezan88, Carolus Molinaeus89, Bartolomeo Cesio90, Wesembecius91, Vinnio92, Zoesius93 etc.) individua due tipi di culpa lata – quello della ‘lex quod Nerva’ e quello della ‘lex latae’ – ma equipara al dolo soltanto il primo (cd. dolo presunto), escludendo che la grave e inescusabile negligenza della ‘lex latae’ possa mai avere alcunchè di comune con la malevola intenzione insita nel dolo. Ciò troverebbe conferma in D. 50.16.226 – testo finora poco richiamato nelle discussioni dottrinali in tema di culpa – ove il giurista Paolo, nel I libro dei manualia, distingueva fra due casi diversi di colpa grave, uno denominato magna neglegentia e identificato con la culpa, l’altro denominato magna culpa e identificato col dolo (‘Magna negligentia culpa est: magna culpa dolus est’): l’alternativa troverebbe, infatti, riscontro nella culpalata della ‘lex latae’ e in quella della ‘lex quod Nerva94.

60Fra i maggiori e più originali rappresentanti di questa corrente interpretativa si conta in primo luogo Ulrico Zasio che, per distinguere la culpa lata della ‘lex quod Nerva’ da quella della ‘lex latae’, parla rispettivamente di ‘culpa versutiae’ ed ‘ignaviae’, ma questa qualificazione, non attestata dalle fonti, non trova in genere il consenso dei successori95:

10. Igitur latam culpam in duo genera distinguimus. 11. Est enim quaedam ignaviae culpa, quaedam versutiae. Culpa ignaviae est quae supinam neglegentiam refert, vel vitio naturae parum perspicacis, vel ex prava educatione contracta. … 13. Alia autem versutiae culpa eorum est qui ex versuto et malo proposito, animoque perfido et exulcerato, alienas vel res, vel negotia, affectata quadam improvidentia, maligne vel negligunt, vel dissimulant, cum in rebus suis sint praevidi et diligentes: et qui versutiam sub neglectionis vitium ita subvolvunt, ut manifesti quidam doli crimen, colore et velamine negligentiae a sese amoveant, doli tamen machinatione non careant. … 26. Lata culpa quae ignaviae est, dolo numquam aequiparatur, … De hac culpa loquitur d.l. latae ff. de verb. sig. …31. Lata culpa dolo proxima, quae dicitur versutiae, ubique dolo comparatur, paribusque iuris decisionibus utraque obsolvunt. … Licet ergo culpa versutiae velamento contengatur neglegentiae, pari tamen iure cum iusto dolo censebitur. Nam quid interest, an manifesto dolo machineris, an sub culpae obliquo ad dolum tendas? … 32. … deinde haec lata culpa dolo adeo est cognata, eique hactenus cohaeret, ut saepenumero I.C. eam culpam dolum nominet, ut in d.l. quod nerva et fa. l. magna ff. de verb. sig. cum similib. Quod tamen non intelligas, ut lata culpa vere sit dolus: hoc enim esse non potest, cum dolus iustam et manifestam imposturam inferat, at lata culpa sub velamento negligentiae fraudem subvolvat …96

61Egualmente poco seguìta è la proposta di Antonio Fabro di emendare il ‘non’ dall’inciso ‘nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat’ nell’intento di illuminare la reale portata del pensiero di Celso97: per Favre l’attuale redazione aveva condotto Accursio all’equivoco di imputare di culpa lata ogni depositario meno diligente della media salvo che avesse rispettato la diligentia quam suis; la nuova lettura dimostrerebbe, invece, che l’intento di Celso era quello di spiegare che anche un depositario mediamente diligente (‘nam et si quis ad eum modum quem hominum natura desiderat’) sarebbe stato imputato di culpa lata se non avesse rispettato la diligentia quam suis, cioè in sostanza che l’omissione di diligentia quam suis era colpita come culpa lata sulla sola base della disparità di trattamento fra cose proprie ed altrui indipendentemente dal grado iniziale e normale di diligenza dell’obbligato:

Dicemus hic ea tantum quae ad contextum legis brevius enarrandum pertinent, ac primum in versiculo illo qui statim sequitur, Nam et si quis non ad eum modum, tollendam esse negationem, quam Aloander iam ante nos feliciter sustulit. Sensus enim loci huius procul dubio ille est, si depositarius ad eum quidem modum, quem natura hominum desiderat diligens sit in re deposita custodienda, id est, eam diligentiam praestet, quam alius quilibet non diligentissimus paterfamilias, sed mediocriter diligens praestarit (natura siquidem in omnibus fere mediocritate contenta est), maiorem autem diligentiam in suis rebus adhibere soleat fraude illum non carere. Nec enim salva fide posse quem minorem alienis rebus quam suis diligentiam praestare. … Mirum vero non est, Accursium, caeterosque interpretes corrupta huius textus lectione deceptos iurisconsulti sententiam assequi non potuisse. Sic enim Accursius intellegit, ut si forte depositarius non sit ita diligens in re deposita custodienda, ut caeteri homines communiter esse solent, fraude non careat, nisi ad suum modum, quem scilicet tenet in rebus suis curam in deposito praestet, quod certe a Celsi sententia alienum est98.

62Ma l’emendazione viene in genere considerata superflua: ad esempio, Jacopo Gotofredo si associa ad Antonio Fabro nella critica ad Accursio, ma rigetta l’emendazione del ‘non’ perché il ‘sensus apertissimus’ del testo è che ‘etsi in deposito non veniat ea diligentia, quam hominum natura desiderat, attamen ad suum modum depositarium diligentem esse oportere’:

Sequuntur nunc duo alii diligentiae gradus, qui utrique indicantur per modum quem hominum natura desiderat: quaeque opposita latae culpae, in d.l. quod Nerva ff. depositi. Crassus enim Accursii error est et sequacium, qui haec verba accipiunt de lata culpa, quam depositarius praestat contra apertam Iurisconsulti mentem: nam ibi differenter opponitur in deposito diligentia in rebus suis (de qua mox) diligentiae ad eum modum quem natura hominum desiderat. Sicut et nimia eorum licentia est, qui in illis verbis, si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens sit, negativam non expungunt. Nam immo ea retinenda est: apertissimus enim illius loci sensus hic est, etsi in deposito non veniat ea diligentia, quam hominum natura desiderat, attamen ad suum modum depositarium diligentem esse oportere99.

63La seconda corrente interpretativa, che fa capo soprattutto a Connan, Corasius e Donello100, equipara più tradizionalmente al dolo entrambi i tipi di culpa lata (quello della ‘lex latae’ e quello della ‘lex quod Nerva’) e li ritiene entrambi fonte di responsabilità per il depositario. L’immediato riferimento testuale è a C.I. 4.34.1, passo poco richiamato dai cultori del precedente indirizzo, che, in un caso di rapina di ornamenta deposita nella quale anche il depositario ha trovato la morte, esclude l’imputabilità all’heres depositarii del detrimentum conseguente al perimento fortuito delle cose, sulla base della regola che, in deposito, la responsabilità è limitata al dolo e alla culpa lata101:

Imp. Alexander A. Mestrio militi: Si incursu latronum vel alio fortuito casu ornamenta deposita apud interfectum perierunt, detrimentum ad heredem eius qui depositum accepit, qui dolum solum et latam culpam, si non aliud specialiter convenit, prestare debuit, non pertinet. Quod si praetextu latrocinii commissi vel alterius fortuiti casus res, quae in potestate heredis sunt vel quas dolo desiit possedere, non restituuntur, tam depositi quam ad exhibendum actio, sed etiam in rem vindicatio competit. PP. IIII id. Iul. Maximo II et Urbano conss. [a. 234]

64Il testo è significativo perché l’estensione della responsabilità del depositario alla culpa lata vi è affermata con chiarezza, indipendentemente dai dubbi interpretativi suscitati dall’espressione culpa latior della ‘lex quod Nerva’: lo rileva, ad esempio, il Corasius102, che cita il passo in risposta al commentatore Giovanni Igneo il quale aveva invece sostenuto che ‘latam … culpam non praestat depositarius’:

Obiicies, culpam latiorem a lata, ob id diversam censeri, quod illam certum sit, in depositum venire, quia dolus est, d.l. quod Nerva. Latam autem culpam non praestet depositarius: sed de solo dolo teneatur, l. si ut certo, § nunc videndum, ff. commod. (D. 13.6.5.4) l. eum qui, § is autem ff. de furt. (D. 47.2.14.3), in qua sententia est Ioan. Igneus praeses Rhotomagen. dignissimus et gravissimus author, in l. contractus. ff. de regul. iur. (D. 50.17.23)103. Quae tamen, bona tanti praesidis venia, vera non videtur, cum et in deposito, praeter dolum, lata culpa veniat, l. I C. depos. (C.I. 4.34.1). Nec obstat utique, quod dicat legislator, in deposito solum dolum venire, l. contractus ff. de reg. iur. Nam immoderata haec negligentia, quam latam culpam dicimus, tam dissoluta est, et gravis, sicut paulo ante posui, ut ea in fraudis suspicionem veniat, atque ideo a lege comparata, cadat in doli crimen.

65Ma l’estensione della responsabilità del depositario all’inescusabile negligenza della ‘lex latae’ è, secondo questi autori, necessaria anche su un piano di politica del diritto: sarebbe troppo facile altrimenti – spiega bene Connan104 – nascondere sotto il velo dell’imbecillità un comportamento realmente malizioso:

Latae culpae finis est, non intelligere quod omnes intellegunt, id est eo usque potest hominis ignorantia excusari, ut non dolo peccasse videatur. Ultra illum finem non est veniae locus, ut si quis crystallinum quod susceperat custodiendum, sponte sua in terram proiecerit credens non esse fragile, lapsus est non gravitate aliqua, sed opinione falsa quidam et stulta profecto, certe non improba: et tamen latae culpae reus est, quia ea ignoraverit, quae norunt omnes. Atque haec culpa lata praeterquam in delictis dolo aequiparatur, quod nisi ita constitutum esset, facile quivis malitias suas et fraudes ignorantiae velo obtenderet, et tamquam adumbraret.

66La sintesi più compiuta di questo indirizzo si trova nel commento a C.I. 4.34.1 di Donello105, che distingue fra ‘lata culpa ex capto hominum communi’ – la grave negligenza della ‘lex latae’ di chi, ad esempio, getta ex superiore loco materiali pesanti sopra gli animali depositati –, e lata culpa ex captu privato (‘et soluta diligentia eius de cuius culpa quaeritur’), l’omissione di diligentia quam suis di chi, ad esempio, nell’imminenza di un’incursione nemica, ‘abstulit res suas et alio transtulit, res autem depositas in villa reliquit’:

Aestimatur autem lata culpa duabus ex rebus quae definitionem huius culpae continent. Aut enim aestimatur ex capto hominum communi, aut ex captu et soluta diligentia eius de cuius culpa quaeritur. Ex captu hominum communi, culpa lata intellegitur, cum quis peccavit et facto suo damnum dedit, dum non putat eventurum quod omnes homines eventurum intelligunt, pro captu hominum non dementium communi. Hoc est quod dicitur in L. latae, de verb. sign. … Hac de caussa tenebitur depositarius ob latam culpam huiusmodi, si proponas eum non cernentem dejecisse tegulas vel trabem ex superiore loco aedium, in eum locum ubi animalia deposita continebantur. … Ex captu privato et soluta diligentia eius, de cuius culpa quaeritur, lata culpa esse intellegitur, si quis diligentior quam caeteri in rebus suis custodiendis, non adhibeat in re deposita eandem diligentiam quam in suis praestat, L. quod Nerva, depos. L mulier, § sed enim, ad Trebell. (D. 36.1.23.3). Exempli caussa: cum nuntiaretur hostes esse in vicinia, aliquis qui res depositas in villa habebat … propter metum ejus pericoli abstulit res suas et alio transtulit, res autem depositas in villa reliquit, cum haberet satis spatii ad eas quoque transferendas, dicemus eum lata culpa peccasse, et ita damnum praestiturum: quia non, pro suo captu, diligens fuerit in rebus alienis, d. L. quod Nerva D. hoc. tit.

67Entrambe le forme di culpa lata sono, per Donello, imputabili al depositario ma l’equiparazione al dolo non è da intendere sul piano sostanziale, ma su quello dell’interpretatio iuris e degli effetti:

revera lata culpa dolus non est. Distinguuntur enim haec definitionibus, id est re ipsa et substantia sua. Quod autem dicitur lata culpa dolus esse, ideo dicitur, quia interpretatione juris et effectu, lata culpa dolus est; quoniam jure pro dolo habetur, jure effectum doli patitur. Et quod dicitur in L. quod Nerva, D. hoc. tit. eum qui lata culpa peccat, dolo non carere, sic accipiendum est, non ut certitudine definitionis et re ita se res habeat, sed quia ita se habeat violenta praesumptione, quae iure pro explorata habetur; et jus ita est, ut sempre lata culpa pro dolo habetur106.

68La terza corrente di pensiero risale ad un’originale intuizione di Francesco Duareno, che si distacca talmente dalla comune linea interpretativa da rimanere, salvo poche eccezioni107, ignorata108: nel commento alla lex si mora’ del titolo ‘soluto matrimonio dos quemadmodum petatur’ (D. 24.3.9), Duareno adotta una definizione unitaria di culpa lata che richiama sia la ‘lex latae’ che la ‘lex quod Nerva’, e che è ravvisabile, ad esempio, in chi abbia abbandonato di notte un bene sulla pubblica via e poi si stupisca di averlo perduto:

Culpa lata dicitur … cum quis non ad eum modum, quem communis hominum natura desiderat, diligens est, d. l. Quod Nerva, et in eo peccat, atque errat, quod omnes homines vulgo intellegunt, l. Latae De verb. signific. ut si quis rem ideo amiserit, quod nocturno tempore eam dimiserit in via publica, et causetur, se non putasse quenquam ablaturum esse109.

69Questo comportamento non è doloso nel senso proprio del termine (secondo la definitio canonica di D. 4.3.1), ma è tanto dissoluto e intollerabile da essere meritatamente trattato come tale, perché ‘a natura communi hominum abhorret’ e suscita, così, un fondato sospetto di frode:

Haec enim culpa, licet machinatio non sit, fraudandi, decipiendique alterius causa adhibita, ideoque a dolo distingui soleat, l. I de dolo malo (D. 4.3.1), tamen adeo dissoluta, ac intolerabilis est, ut merito comparetur dolo malo, et aeque ac dolus malus, praestetur. Et quia a natura communi hominum abhorret, vis creditur fraude, et malo animo carere, qui hujus culpae arguitur110.

70Ma la presunzione di dolo si elide se, in base alla ‘lex quod Nerva’, l’obbligato si dimostra in suis egualmente negligente:

Sed si appareat ex conjecturis, dolum malum abesse, ut, exempli gratia, si forte nihilo diligentior esse soleat in suis rebus, etc. quamlibet lata negligentia pro dolo non habebitur. D. l. Quod Nerva111.

71Se la dottrina maggioritaria individuava nell’omissione di diligentia quam suis un caso autonomo di culpa lata, Duareno, al contrario, individua nella diligentia quam suis una scusante giudiziale al comportamento gravemente negligente del depositario, applicabile nel caso che in suis egli sia stato egualmente negligente. Con un solo tocco da maestro la secolare dottrina del dolo presunto fondata sulla ‘lex quod Nerva’ viene istantaneamente dissolta. Molto tempo dopo il ragionamento ricompare in ambiente olandese, nel commento alla ‘lex quod Nerva’ di Gerardo Noodt112:

Venio ad Nervam. Is non minus vere dixit, culpam latam esse dolum: aestimata videlicet culpa lata non vi et potestate naturali, sed iuris praesumptione. Vix enim potest lata culpa, id est, supina et crassa ignorantia, qualis est, nescire quod omnes homines sciunt, videri sincera? Magis debet credi quaesita et affectata dissimulandi sceleris et doli gratia, natura passim homines non faciente stultos, sed quales eos esse oportet. Hoc igitur sensu Celsus verissimam esse praedicat Nervae sententiam: quae alioquin Proculo ad veritatem exacta, non male displicebat. Sed vere Celsus, animadverso, homines a natura non nasci stultos, sed rebus aptos, alios plus, alios minus: existimavit, culpam latam depositarii, futuram deponenti noxiam, in actione depositi non pro errore, sed pro dolo, habendam esse: donec judici liqueat, esse peccatum simplicitate vera et naturali, tum enim praesumptionem veritati manifestae et clarae cedere oportere. Id contingere ait Celsus, si depositarius dicatur pari simplicitate stultitiaque in re sua, inque re deposita, esse versatus.

72Ma la forza della tradizione prevale ed è proprio con la scuola culta che incomincia a diffondersi la contrapposizione tra culpa in concreto e culpa in abstracto113, che tanta fortuna avrà nella dottrina civilistica fino ai nostri giorni.

L’altro difficilis nodus114 della materia era tradizionalmente quello del contrasto fra le concezioni di diligentia quam suis emergenti da D. 16.3.32 – con funzione ed effetto aggravanti della responsabilità del depositario – e da D. 17.2.72/D. 10.2.25.16, con funzione ed effetto attenuanti della responsabilità del socio e del comunista.

73A questo problema Bartolo aveva già fornito una soluzione soddisfacente, che teneva conto della differenza obbiettiva esistente fra la custodia di una res aliena – nella quale l’omissione di diligentia quam suis poteva ben suggerire una presunzione di dolo nel depositario –, e l’amministrazione di res communes, ove tale presunzione si scontrava con l’interesse personale del socio e del comunista al buon esito delle operazioni: ad essa una prima corrente interpretativa (Cujacio, D’Avezan, Noodt)115 si adegua perché, come bene spiega Cujacio, per chi è pro parte dominus rei, l’omissione di diligentia quam suis è più da intendere come un re sua abuti che come un fraudem facere116:

Depositarius autem dolum dumtaxat et eam culpam praestat, quae doli facies habet, id est, latam culpam, l. 1 C. depos. (C.I. 4.34.1) L. quod Nerva ff. eod. Minus esse attentum in depositis, quam in suis rebus, in depositario lata culpa est, quia non potest non dolo malo facere is, qui res suas bene et gnaviter gerit, depositas autem male et ignaviter. In socio autem, vel eo, qui sine societate cum alio rem communem habet, minus esse attentum in communibus, quam in propriis rebus lata culpa non est, non potest enim quis sine fraude rem communem negligere, quoniam pro parte rei dominus est, quin etiam maius re sua abuti intellegitur, quam fraudem facere117. …

74Ma tale soluzione è tutt’altro che incontrastata e si moltiplicano, fra gli umanisti, i tentativi di scioglimento dell’enigma118: a Donello si deve, in particolare, un’intuizione che farà scuola, che isola, sotto il profilo della responsabilità, il deposito dagli altri contratti, per la particolare delicatezza dell’officium della custodia affidato al depositario e per la fiducia piena e totale che il deponente ripone in lui. Laddove si guardi all’ ‘officium quo se obstrinxit depositarius ad rem bona fide servandam’, l’omissione di diligentia quam suis, che di per sé non configura necessariamente un comportamento riprovevole, assume il connotato della riprovevolezza e della frode perché il depositario, non prestando la stessa cura destinata alle proprie cose, dimostra di aver disatteso contra bonam fidem l’impegno di custodia assunto con il contratto:

Dicendum est in hoc genere negligentiae, quae admittitur in rebus depositis et fidei accipientis commissis non factum tantum ipsum per se spectari, sed et officium, quo obstringitur, qui accepit. Si factum per se spectetur, non potest dici statim dolo facere eum qui rem negligat; quia non continuo dixeris eum dedita opera et consulto id facere, ut res pereat aut deterior fiat, ut ante ostendi. Sin spectetur officium quo se obstrinxit depositarius ad rem bona fide servandam, hic recte dixerimus eum contra eam fidem facere, eoque hactenus fraude non carere, si cum sciat et possit rem curare, non curet. Cum enim hanc custodiam ex bona fide in se receperit, quae potest illi in negligentia sua esse excusatio, ubi scivit quid facto esset opus ad rem servandam et potuit id facere? Scivisse enim apparet: quia ut providet, ita eadem facit in suis119.

75Fin qui la soluzione di Donello viene seguita e riproposta120: ma l’autore procede oltre e, nel tentativo di superare appieno la contraddizione, elabora una teoria complessa che non avrà grande seguito in dottrina anche perché, nel suo sforzo ricostruttivo, finisce col prescindere dalla lettera dei testi121. Per Donello la culpa va sempre distinta in culpa in faciendo (colpa commissiva) e culpa in omittendo122 (colpa omissiva o negligentia)123, ma tale distinzione rileva soprattutto per la culpa levis, perché di culpa lata, sia omissiva che commissiva, si risponde sempre, mentre fra i rapporti che ‘levem culpam recipiunt, quidam recipiunt eam tantum quae in faciendo est, non etiam eam quae est in omittendo negligendove, quidam utramque124. Poi, sulla base di D. 50.17.23, Donello enumera cinque rapporti che prevedono una responsabilità per culpalevisin faciendo ma non in omittendo, vale a dire la società, la comunione, la tutela, la cura e la dote125. Con queste premesse si chiarisce, secondo l’autore, il rapporto fra D. 50.17.23, D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9), D. 16.3.32: il precetto generale di D. 50.17.23 imputa al socio una responsabilità per culpa levis in faciendo, il che, com’è ovvio, non esclude la sua più grave responsabilità per culpa lata, sia in faciendo che in omittendo. L’omissione di diligentia quam suis è, secondo la descrizione di D. 16.3.32, un caso di culpa lata in omittendo. E al medesimo caso di culpa lata in omittendo fa riferimento D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9) quando tratta dell’omissione di diligentia quam suis del socio. Non vi dunque contraddizione fra D. 16.3.32 e D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9) perché entrambi si riferiscono alla medesima fattispecie:

XXVIII: Societas dicitur culpam recipere in d. L. contractus D. de reg. iur. ubi cum culpa distinguatur a dolo, jam saepe monui non aliam intellegi posse quam levem. Et tamen in § ult. Inst. De societ. diserte scriptum est, socium non majorem diligentiam adhibere debere rebus communibus, quam suis rebus solet: hac autem non adhibita, hujus negliegentiae, id est culpae quae in non faciendo sit, nomine ita eum teneri, ut non maiorem praestet. Atqui non eandem diligentiam adhibere alienis rebus fidei tuae commissis culpa est lata, non levis. L. quod Nerva. D. Depos. Ita quem prius dicebamus praestare debere socio culpam levem, eum nunc non nisi culpam latam praestare debere dicimus. Quae si de eadem culpa dicuntur, apparet esse contraria. Quomodo igitur haec explicamus? Dici haec nimirum de diversis culpis, non de una et eadem: ac quod dicitur socium socio negligentiae nomine non teneri nisi latae, perspicuum est dici quidam de culpa, sed de ea quae sit in non faciendo, ubi scilicet non fecit, quod eum pro diligentia debita prestare oportebat. Quod autem dicitur eum culpam levem prestare debere, sane verum esse; sed dictum accipiendum de culpa quae si recte a negligentia distinguitur ea sit culpa, quae sit in faciendo, ubi facto aliquo suo societati nocuit: quam quidem culpam omnem quanvis levem, atque adeo levissimam socius socio jure societatis praestabit. Idque ita declaratur in L. de illo in pr. D. de soc. (D. 17.2.23.pr.)126.

76Molto più aderente ai testi è la successiva proposta esegetica di Vinnio, che di fronte al nodus indissolubilis della contraddizione fra D. 16.3.32 e D. 17.2.72/D. 10.2.25.16, precisa che l’omissione di diligentia quam suis, valutata in genere dai giuristi come culpa levis127, viene definita nella ‘lex quod Nerva’ come culpa latior soltanto in quanto, nel caso concreto, Celso si riferisce ad un depositario già molto negligente in suis rebus (‘nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens est’), che in rebus depositis si rivela ancora più negligente128. Qui è naturale che il giurista abbia parlato di culpa latiorquoniam nullum hic aliud extremum dari potest’:

(2) Ait Justinianus, culpam in societate non ad exactissimam diligentiam dirigendam esse, sed sufficere talem diligentiam communibus rebus socium adhibere, qualem suis rebus adhibere solet. (3) Quae sunt ipsissima verba Caii in d.l. socius, 72 h.t. (D. 17.2.72). Hic vero nobis pene indissolubilem nodum nectit responsum Celsi in tit. quod Nerva, 32 depos. Ubi jurisconsultus refert et probat, quod Nerva dixit, latiorem culpam dolum esse, scilicet vi et effectu, ut non minus, quam dolus in deposito praestetur. Hujus autem culpae reum esse ait, qui minus diligens est in rebus alienis, quam in suis, sive, ut loquitur jurisconsultus, qui non ad suum modum curam in deposito praestat. At nihil amplius Justinianus a socio exigere videtur: inter quem tamen et depositarium hanc ipse differentiam antea constituit: quod socius praeter dolum etiam culpam et negligentiam praestet, depositarius non item. Et cuius igitur rei praestatio socium a depositario segregat? Non aliter videtur hic nodus expediri posse, quam si dicamus, jurisconsultos aliquando eum, qui rem alienam aut communem negligentius habet quam suam, ponere in lata culpa et proxima dolo, quam etiam praestat depositarius: aliquando vero id factum adscribere culpae levi et negligentiae, quam praestet socius, depositarius non praestet. Illud Celsus facit in d.l. quod Nerva, 32 depos. Hoc alii passim, ut Justinianus hic (Iust. inst. 3.25.9), Caius in d.l. socius, 72 (D. 17.2.72), item Paulus l. heredes 25 § non tantum, 16. famil. ercisc. (D. 10.2.25.16) leg. In rebus, 17 de jur. dot. (D. 23.3.17.pr.) et Ulp. L. 1 de tutel. et ration. distr. (D. 27.3.1.pr.). Sed animadvertendum est Celsum expresse proponere ignavum aliquem et dissolute negligentem, id est, talem qui nec, ut ait ipse, ad eum modum diligens sit, quem hominum natura desiderat. Hunc ait, si ne ad suum quidem modum curam rei alienae praestet, reum esse culpae latioris, doloque proximum. Et merito; quoniam nullum hic aliud extremum dari potest. At extra hunc casum, in nomine videlicet diligenti ad communem modum, sed bono alioqui et frugi patrefam. si quando is consuetam in suis rebus diligentiam in re aliena aut communi omiserit, levem culpam id reputabimus: atque omnino existimandum est, curam diligentis hominis considerari, quoties simpliciter ea diligentia in re aliena ad aliquo exigitur, quam prestare solet in rebus propriis, arg. d.l. quod Nerva, 32 depos129.

77Come si vede, rispetto all’età di Bartolo, la discussione sulla ‘lex quod Nerva’ si è ampliata dando luogo a risultati diversificati, ma l’originario nucleo interpretativo, ossia la figura del dolo presunto inaugurata da Azone a corollario del principio dell’utilitas contrahentium, non viene ancora del tutto scalfito.

6. La ‘diligentia in concreto’ dal giusnaturalismo alle prime codificazioni

78I secolari dubbi interpretativi sulla lettura tradizionale della ‘lex quod Nerva’ non avevano potuto scalfire né la dottrina della colpa né il principio dell’utilitas che ne costituiva l’intimo fondamento130. Ma la rivisitazione delle fonti alla luce della ragione avviata dal giusnaturalismo contribuì a sfatare alcuni preconcetti perpetuatisi nella tradizione, fornendo gli strumenti concettuali per il definitivo superamento, nei codici ottocenteschi131, dei principi cardine del sistema della responsabilità ereditato dal passato.

79Tale rifiuto non fu tuttavia generale, visto che alcuni importanti esponenti del giusnaturalismo apertamente difesero la dottrina tradizionale dagli attacchi dei critici, proprio in ragione dell’autorevolezza dei suoi antichi sostenitori132. Ciò si rivela con evidenza, ad esempio, nelle opere di Domat e di Pothier, che non solo ripropongono il principio dell’utilitas contrahentium e la disciplina classica della diligentia quam suis del depositario, ma giungono a formalizzare tale disciplina in regola positiva di condotta, laddove originariamente essa rilevava soltanto in negativo come un caso di culpa lata omissiva, cioè sotto il profilo della responsabilità del depositario per il caso di perimento o deterioramento della res133:

Domat, Loix civiles, I.VII.III.2: Le dépositaire est tenu d’avoir le même soin pour les choses déposées qu’il a pour les siennes. Et il seroit infidèle au dépôt, s’il y veilloit moins qu’à ce qui est à lui134.

Pothier, Traité du contrat de dépôt, in Traités des contrats de bienfaisance, II.3.II.1 Art. I, Cor. 1135: La fidélité, que le dépositaire s’oblige d’apporter à la garde de la chose qui lui a été confiée, l’oblige à apporter le même soin, à la garde des choses qui lui ont été confiées, qu’il apporte à la garde des siennes136.

80Analoga tendenza alla riproposizione dei principii tradizionali in una nuova veste sistematica, che li esalta generalizzandoli e formalizzandoli in regole positive di condotta, si osserva nell’ampio Tractatus de doli, culpae et neglegentiae praestationibus in quolibet negotio di Henricus de Coccejus (Heidelbergae, 1672)137 ove, ad una prima parte dedicata alla critica delle propositiones tradizionali138, segue la presentazione delle assertiones della nuova dottrina139. Le formulazioni ricevute dal passato vengono qui ricollocate in un rinnovato e più coerente contesto sistematico, nel tentativo di appianarne le contraddizioni e semplificarne il dettato.

81L’errore interpretativo più grave della dottrina tradizionale (l’autore cita in particolare Bachovius, Vinnius e Franskius) sta per Coccejus nell’aver ristretto la ‘diligentia in concreto’ della ‘lex quod Nerva’ al mero ambito del contratto di deposito, con la conseguente iniquità di estendere oltre misura la responsabilità del depositario diligentissimo, contro il principio dell’utilitas contrahentium.

Propositio IX. Diligentia et culpa in causa depositi, et quidam in hac sola, in concreto consideratur, ita, ut sive sit negligentissimus140sive diligentissimus depositarius, in lata sit culpa, si minorem rebus aliis, quam suis diligentiam praestet, Bachov. ad § 5 Q. m. r. c. ob. num 5. et ad Tr. I D. 10 Thes. 5. C. Disp. 26 th. 2 fin. Franskius Exerc. 9 q. 9.

Haec omnino erronea sunt, et plane falsum est, quod in deposito tantum consideretur diligentia et culpa in concreto. … (2) In deposito, non magis praestatur culpa in concreto, quam in reliquis contractibus. … (6) Nihil plane rationis habet, quod in deposito debeat considerari culpa in concreto, in reliquis in abstracto; nec imaginari quis possit, qua causa talis distinctio oriri queat, aut quo fondamento niti. … (7) Denique quod magis adhuc absurdum eveniret, ut tantundem praestetur in deposito, quantum in commodato; ut, inquam, tantundem praestet is, cujus nulla est utilitas, quantum is, cujus omnis est utilitas … Quid his absurdius? (8) Ratio abstracti et concreti, huc plane non quadrat141.

82In realtà la bipartizione ‘diligentia in abstracto’ e ‘in concreto’ va riferita, secondo l’autore, a tutti i contratti poiché ‘indistinte verum est quod salva fide nemo possit minorem curam alienis rebus, quas administrandas suscepit, quam suis, quia in tali casu praesumitur propositum aliquod laedendi alium’142.

83Tale bipartizione assume, tuttavia, connotati differenti a seconda del rapporto preso in considerazione: quando all’obbligato sia affidata la gestione di una res aliena, cioè nella maggioranza dei casi (deposito, gestione d’affari altrui, locazione, mandato etc.), l’omissione di ‘diligentia in concreto’ rappresenta una culpa lata equiparabile al dolo, poiché la disparità di trattamento fra cose proprie ed altrui fa presumere nell’obbligato un’intenzione malevola (è il classico dolo presunto di Azone). Quando, invece, all’obbligato sia affidata la gestione di una res communis, cioè nei rapporti di societas e rerum communio, l’omissione di ‘diligentia in concreto’ non può intendersi che come culpa levis (D. 17.2.72 [= Iust. inst. 3.25.9]; D. 10.2.25.16) perché il personale interesse del comunista alla salvaguardia della cosa annulla la presunzione di dolo altrimenti desumibile dalla disparità di trattamento fra le cose proprie e le altrui (nemo praesumitur iactare suum; quod fieret, si proposito doloso damnum rei communi inferret)143:

Assertio III. Illa tamen culpa in societate dolo non comparatur, et hoc effectu levis culpa dici potest.

Latae culpae effectus est, ut dolo comparetur, et dolus exinde praesumatur: ille autem effectus cum cesset in societate et reliquis communionibus, hoc effectu culpa lata non est, sed effectum habet culpae levis, quae dolo opponitur. Cessare autem hunc effectum in societatibus, et in iis ex lata culpa dolum non praesumi, probamus his rationibus. (1) Quia non praesumitur dolus, ubi quis causam habet gerendi … Socius autem, causam habet gerendi propter partem suam ... Non ergo in illo dolus est praesumendus ex lata culpa; sed plene probandus: quo casu, utpote in claris, non opus est conjecturis … (2) Cum lata culpa ideo dolo comparetur, quia, ut dictum, dolus est praesumtus, quod leges dolus inde praesumunt … hinc in societate et communionibus cessat illa praesumtio doli, et contrarium potius praesumitur, quia nemo videtur sibi velle obesse, et se laedere. Cum ergo socius gerat rem, quae est pro indiviso communis, non potest in ea damnum inferre parti socii, quin simul inferat portioni propriae, cum sit pro indiviso communia; quod nemo praesumitur ultro velle, quia naturale est unicuique, se ac sua diligere, Cic. 3 Finib., naturalia autem praesumuntur; sed et nemo praesumitur iactare suum; quod fieret, si proposito doloso damnum rei communi inferret144.

84Alla luce di queste precisazioni, che in gran parte ripercorrono solchi già tracciati dalla tradizione, la dottrina della culpa viene dal Coccejus riformulata in una trattazione nuova ed articolata: la distinzione culpa (diligentia) ‘in concreto’/‘in abstracto’, che per l’autore informa di sé l’intero sistema della responsabilità, ha l’effetto di moltiplicare i gradi della colpa, che da tre (lata, levis e levissima) diventano cinque (lata in abstracto, lata in concreto, levis in abstracto, levis in concreto, levissima). Il depositario, infatti, risponde per dolo e culpa lata sia in abstracto che in concreto; il mandatario, il gestore d’affari, il conduttore, il venditore etc. per dolo, per culpa lata in abstracto e in concreto e per culpa levis in astratto; il socio e il comunista per dolo, per culpa lata in abstracto e per culpa levis in abstracto e in concreto; il comodatario per dolo, per culpa lata in abstracto e in concreto, per culpa levis in astratto e per culpa levissima.

85Ma, come già osservato, queste autorevoli prese di posizione non impediscono ad autori sul punto più innovativi (ad esempio Pufendorf, Kreß, Le Brun), di mettere progressivamente in luce le intime contraddizioni del sistema, creando le premesse per il suo superamento: ciò avviene soprattutto ad opera di due pratici, Christianus Gottlob Kreß, avvocato di Halle, e Denis Le Brun, avvocato del Parlamento di Parigi, l’uno autore di una dissertazione per la licentia in utroque iure dal titolo De usu practico doctrinae difficillimae juris romani de culparum praestatione in contractibus, discussa nel 1705 all’Università di Halle praeside Christiano Thomasio e pubblicata nel 1731145, l’altro autore di un Essai sur la prestation des fautes, ou l’on examine combien les lois romaines en distinguent d’espèces, pubblicato a Parigi nel 1764 e di lì a poco criticamente recensito dal Pothier146: per i due autori, le tradizionali classificazioni della colpa e della diligenza tramandate dalla dottrina sono insensate, illogiche ed inique e creano ai pratici difficoltà applicative; il principio dell’utilitas che ne costituisce il fondamento è pura invenzione degli interpreti contraddetta dagli stessi giuristi romani: lo dimostrano le regole del mandato e della negotiorum gestio, ove gli obbligati sono tenuti ad exactissima diligentia benché non traggano dal rapporto alcuna utilità. Chiunque, contrattualmente o non, amministri una res aliena, è tenuto dunque a conservarla con ogni diligenza, perché se non avesse voluto ‘omnem diligentiam adhibere’, non avrebbe dovuto ‘?se? immiscere negotio et rei alienae147.

86Naufraga, dunque, la tripartizione della colpa e, con essa, ci si aspetterebbe che naufragasse anche la diligentia quam suis, che di questa tripartizione costituiva parte integrante. Ma ciò non accade: la figura, pur in diverse proporzioni a seconda degli autori, viene ridimensionata, ma mai del tutto abbandonata. Sopravvive, ad esempio, in Pufendorf, come dovere morale del depositario che, in forza dell’amicitia che lo lega al depositante e che informa di sé l’intero rapporto (‘nemo enim fere deponit, nisi apud amicum, aut de cujus probitate bene judicat’), salvi dal perimento la cosa depositata a scapito della propria. La diligentia quam suis non è qui regola giuridica suscettibile di sanzione in caso di inosservanza, ma mero dovere morale fondato sull’amicitia, non sanzionabile sul piano del diritto: in nessun caso, infatti, il depositario può essere costretto a sacrificare le proprie cose nell’interesse di quelle, anche più preziose, del depositante, poiché ‘intermissa nudae amicitiae et humanitatis officia ad refusionem detrimenti inde orti non obligant148:

§ 7. … Unde etsi legibus amicitiae satisfecerim, si res amici aeque curem, ac proprias; neque ut meas alterius rebus posthabeam, si utraeque paris sint pretii, quispiam salva fronte postulare queat; aequum tamen fuerit, ut quando utraque servari nequit, ego potius rem meam viliorem negligam, et pretiosiorem depositam servem v.g. incendio aborto, quis non judicaverit potius servandam esse cistam auro aut aliis pretiosis rebus, vel magni momenti instrumentis literisque plenam, quam vilem supellectilem? Ita tamen ut deponens teneatur mihi restituere pretium earum rerum, quae mihi perierunt, dum ipsius res prae meis servatum eo; non secus atque alias impensas in depositas res factas, aut damna, quae per illam accepi. Quod si tamen quis rem suam viliorem deposito pretiosiori praetulerit, ubi de tali diligentia et cura non fuit conventum, amicitiae duntaxat et humanitatis jura violasse censebitur, a praestanda rei aestimatione immunis. Nam neque inde factus est locupletior; et intermissa nudae amicitiae et humanitatis officia ad refusionem detrimenti inde orti non obligant149.

87Come vera e propria figura giuridica, la diligentia quam suis sopravvive, invece, nel nuovo sistema ideato dal Le Brun ove, alla diligenza del buon padre di famiglia imposta a chi sia obbligato a gestire una cosa altrui, cioè nella maggioranza dei contratti e «quasi-contratti» (deposito, comodato, locazione, mandato, vendita, tutela, negotiorum gestio etc.), si accosta la diligentia quam suis applicabile ai soci e ai comproprietari che gestiscono una cosa o un patrimonio comune. Amministrando, infatti, un bene indiviso, è a costoro impossibile astenersi «d’administrer les parts de leurs coassociés ou de leurs copropriétaires sans cesser d’administrer leurs propres parts»150. Conseguenza necessaria sul piano della logica, atta anche a conciliare equamente gli interessi delle parti, è che ad essi non venga richiesta, nell’amministazione della cosa comune, più della diligenza che adottano normalmente nelle proprie cose:

I … Voyons maintenant pourquoi les lois romaines distinguent deux espèces de diligence. Cette distinction est fondée sur ce qu’il y a des choses dont la propriété nous est commune avec d’autres personnes, et d’autres dont nous ne sommes que simples détenteurs, ou dont nous nous sommes engagés à faire la tradition, et qui, par cette obligation, peuvent être considérées comme ne nous appartenant plus. Dans les premières, il faut, antant qu’il est possibile, concilier nos droits avec ceux d’autrui. La meilleure manière de les concilier est de soigner les choses communes comme les nôtres. … La règle qui prescrit la diligence d’un bon père de famille, ne concernant que les choses qui appartiennent en totalité à autrui, ne reçoit point ici d’application. … Dans les choses dont nous sommes simples détenteurs, ou dont nous devons faire la tradition, notre capacité réelle ou présumée est notre boussole. La manière dont nous administrons nos biens n’a point de rapport avec la manière dont nous devons administrer ceux des autres151.

88L’autore è consapevole che la lettura tradizionale della ‘lex quod Nerva’, che presuppone la regola generale della diligentia quam suis del depositario, contraddice apertamente la sua ricostruzione: ma per Le Brun il testo prova soltanto che «la faute grossière poussée à l’excès, est un dol». Celso, infatti, presenta il caso d’ «un homme d’une extrème négligence dans ses affaires, qui se charge d’un depôt, et qui le néglige encore plus que ses propres biens; et il décide que ce dépositaire n’est point exempt de dol»152.

89Forse senza intuirlo fino in fondo, il Le Brun ha qui posto le basi per il definitivo superamento della contraddizione, da sempre parsa insuperabile, fra la diligentia quam suis del depositario (D. 16.3.32) e la diligentia quam suis del socio e del comunista (D. 17.2.72 [= Iust. inst. 3.25.9], D. 10.2.25.16). Di queste intuizioni si farà tesoro in sede di esegesi della ‘lex quod Nerva’, nella parte finale di questo lavoro (§ 9).

90Con qualche ritardo i codici seguono gli sviluppi della dottrina. Così, mentre le codificazioni settecentesche, ancora tributarie dello ius commune, mantengono generalmente inalterata la sistematica tradizionale153, il Codice napoleonico del 1804154, l’ «ABGB.» del 1811155 e il Codice Civile italiano del 1865156 abbandonano il principio dell’utilitas contrahentium e la conseguente tripartizione della colpa, a favore di un unico grado di diligenza media, imposto ad ogni debitore nell’adempimento della sua obbligazione157.

91Ma anche qui, come nelle opere di dottrina, il superamento dei principii tradizionali non porta con sé l’abbandono della diligentia quam suis: l’influenza della ‘lex quod Nerva’ e della sua tradizione interpretativa è tale158 che la figura rimane imperante nella disciplina del contratto di deposito (secondo le formulazioni positive già notate in Domat e Pothier) sia nella codificazione francese che in tutti i codici che da essa dipendono159, fra cui in particolare il Codice Civile italiano del 1865:

Art. 1927 c.c. francese: Le dépositaire doit apporter, dans la garde de la chose déposée, les mêmes soins qu’il apporte dans la garde des choses qui lui appartiennent.

Art. 1928: La disposition de l’article précédent doit être appliquée avec plus de rigueur: 1. si le dépositaire s’est offert lui-même pour recevoir le dépôt; 2. s’il a stipulé un salaire pour la garde du dépôt; 3. si le dépôt a été fait uniquement pour l’intérêt du dépositaire; 4. si il a été convenu expressément que le dépositaire répondrait de toute espèce de faute160.

Art. 1843 c.c. italiano del 1865: «Il depositario deve usare nel custodire la cosa depositata la stessa diligenza che usa nel custodire le cose proprie»;

art. 1844: «La disposizione del precedente articolo si deve applicare con maggior rigore, 1. quando il depositario si è offerto a ricevere il deposito; 2. quando ha stipulato una rimunerazione per la custodia del deposito; 3. quando il deposito si è fatto unicamente per l’interesse del depositario; 4. quando si è convenuto espressamente che il depositario sarà obbligato per qualunque colpa».

92Nella civilistica italiana dell’epoca, operante su un codice di matrice francese ma tributaria, sotto il profilo scientifico, della metodologia pandettistica, si ebbe un vivace dibattito sull’interpretazione ed applicazione degli artt.1843-1844 e in particolare sul significato dell’espressione «maggior rigore» ivi contenuta: secondo alcuni la diligentia quam suis dell’art.1843 costituiva mero strumento di attenuazione della responsabilità del depositario gratuito, salvo il ritorno alla disciplina comune della diligenza del buon padre di famiglia ex art. 1224 nei casi previsti dall’art.1844161. Secondo altri l’art. 1843 non costituiva norma eccezionale ma vera e propria regola speciale applicabile, pur se con «maggior rigore», anche nei casi previsti dall’art. 1844 in ragione del particolare affidamento riposto dal depositante sul depositario da lui scelto: per costoro in tema di deposito occorreva sempre tener conto, per la diagnosi della responsabilità, delle capacità individuali del soggetto, fossero queste maggiori o minori della media162.

93Ma la seconda soluzione creava difficoltà applicative per l’ambiguità dell’espressione «maggior rigore» dell’art.1844: così la giurisprudenza maggioritaria si orientò a favore della prima soluzione, con l’effetto pratico di limitare l’applicazione della diligentia quam suis ai pochi casi di deposito gratuito, richiedendo per il resto la comune diligenza del buon padre di famiglia ex art. 1224163. Analogo percorso fu compiuto dalla dottrina francese, che tuttora riconosce comunemente alla disciplina dell’art. 1927 mero carattere suppletivo164, interpretando l’espressione «plus de rigeur» dell’art. 1928 come ritorno alla comune «diligence d’un bon père de famille» dell’art. 1137.

94Fra i codici dell’epoca, soltanto l’ «ABGB.» austriaco abbandonò la diligentia in concreto perché, secondo Franz von Zeiller, relatore della sua revisione finale, si trattava di «cosa … pel giudice impossibile quasi a rilevare, ed in cui il cittadino diligente a peggior condizione si troverebbe di quello non diligente»165. La diligentia quam suis è, invece, ampiamente presente nella codificazione sassone del 1865166 (come del resto lo sarà nel «BGB.» del 1900) su influenza della rivisitazione pandettistica delle fonti romane (cfr. § 7): la troviamo, infatti, prevista nel § 730 in via generale167, nel § 1371 in tema di società, nel § 1655 in tema di dote e nel § 1949 in tema di tutela168.

7. La ‘neglegentia rebus suis consueta’ da Hasse al «BGB.»

95Per tanti secoli la ‘lex quod Nerva’ era stata il centro del dibattito scientifico sulla dottrina della colpa e della diligentia quam suis. Per tanti secoli il pensiero giuridico, nel suo mai sopito affanno di sistematizzazione della sconnessa disciplina romana della responsabilità contrattuale, aveva fatto del frammento di Celso un punto cardine di ogni suo ragionamento. Nel settecento, per la prima volta, la revisione delle fonti avviato da alcuni giuristi pratici, come il Le Brun, aveva cominciato a scalzare la ‘lex quod Nerva’ dal suo piedistallo, da una parte dimostrandone la natura di caso singolo non generalizzabile, dall’altra ravvisando in rapporti diversi dal deposito, come la società (D. 17.2.72 = Iust. inst. 3.25.9), la comunione (D. 10.2.25.16) e la dote (in particolare D. 24.3.24.5), il solo vero ambito di applicazione della culpa in concreto propriamente detta, intesa non più come un caso di culpa lata, ma come attenuazione di culpa levis. Tuttavia si trattava ancora di casi isolati e, agli albori dell’Ottocento, il primato concettuale della ‘lex quod Nerva’ rimaneva immutato, anche per la massiccia receptio nei codici della regola della diligentia quam suis del depositario.

96I tempi erano tuttavia maturi per un cambiamento di prospettiva: ed esso ebbe luogo ad opera della Pandettistica che, rivisitando con nuova mentalità i frammenti sulla diligentia quam suis, scardinò finalmente l’edificio concettuale fondato sulla ‘lex quod Nerva’ e le sue false interpretazioni. Quest’ultima venne così riletta e reinterpretata con maggior aderenza al dato testuale, libera dalla tradizione che per secoli ne aveva sviato la comprensione.

97Il cambiamento prese l’avvio soprattutto con la pubblicazione a Kiel nel 1815 della monografia di Johann Christian Hasse «Die culpa des römischen Recht» (riapparsa a Bonn in II edizione ampliata a cura di August Bethmann-Hollweg nel 1838)169, i cui risultati innovativi, benché non recepiti in blocco dalla Pandettistica, costituirono certamente un punto di non ritorno nella lunga tradizione di studi sulla colpa e la diligentia quam suis.

98«Niente è più facile – osservava Hasse – del sistema romano della colpa»170, che si distingue in culpa lata – il ‘non intelligere quod omnes intellegunt’ della ‘lex latae’ (D. 50.16.213.2) e il ‘minorem quam suis rebus diligentiam praestare’ della ‘lex quod Nerva’ – e culpa levis, l’omissione del grado di diligentia normale nel bonus et diligens pater familias. A seconda del rapporto preso in considerazione e dell’utilitas di volta in volta ricavata, i contraenti rispondono soltanto di dolo e culpa lata – come nel deposito – o anche di culpa levis, come nei rapporti stipulati nell’interesse comune delle parti. In entrambe le sue forme, la culpa lata è in pratica difficilmente distinguibile dal dolo: ciò spiega la loro tradizionale equiparazione, dovuta al fatto che, come bene dirà il Windscheid, «la disattenzione di cui [il danneggiante] si rese colpevole è così di comune pericolo nel primo caso, così vergognosa nel secondo, ch’egli non può lagnarsi di sottostare alle conseguenze giuridiche del dolo»171. A tal punto le due figure sono vicine che non di rado i giuristi romani mostrano di utilizzare l’appellatio doli per casi propri di culpa lata: ciò poteva accadere – spiega Hasse – perché il pretore romano non attribuiva al termine «dolo» il significato ristretto di volontarietà del danno (animus nocendi), ma l’accezione più ampia di consapevolezza del pericolo a cui la cosa altrui veniva sottoposta: quindi il debitore che, nell’adempimento della sua obbligazione, commettesse una colpa di qualsiasi entità – levis o lata – non abituale, tuttavia, nelle sue cose, rispondeva di culpa lata – equiparata al dolo – perché non aveva evitato alla controparte un pericolo di cui era consapevole e che in suis avrebbe certamente evitato172. Ciò risulta dal fr. 32 di Celso, di cui Hasse dà una lettura nuova (anche se per certi versi non del tutto perspicua), pur non disconoscendogli un ruolo centrale nella dottrina romana della culpa in concreto. Celso, che inizia riferendo la discussa tesi di Nerva sull’equiparabilità della culpa lata al dolo, cercherebbe qui di provare la correttezza della tesi del suo predecessore con un argomento a potiori: se una semplice culpa levis, quale è quella descritta nel ‘nam et si quis non ad eum modum quem hominum natura desiderat diligens est …’, viene addirittura considerata dolo (‘fraude non caret’) quando l’autore di essa è solito evitarla in suis (nisi tamen ad suum modum curam in deposito praestat), a maggior ragione essa potrà essere considerata culpa lata secondo la tesi di Nerva riportata in principio:

Die Frage im Anfange ist auf die eigentlich grobe Schuld, culpa lata, wenn wenigstens der Vorwurf eintritt, einer habe nicht erkannt, was sonst alle erkennen, gestellt. Ob diese als dolus angesehen werden könne, wurde bezweifelt, Celsus entscheidet für die bejahende Partei. Sein Beweis ist ein argumentum a potiori. Schon wenn jemanden kein anderer Vorwurf treffen kann, als daß er nur nicht alles das erfüllte, was ein Anderer erfüllen würde, welcher alles das leistete, was menschliche Natur verlangt, d.h. was ein bonus et diligens pater familias zu leisten pflegt, denn dieser erfüllt die von der Natur dem Menschen vorgeschriebene Bestimmung, wenn er also auch nur eine leichte Schuld beging; so kann man ihn nicht von aller argen Denkungsart frei sprechen, sobald sich zeigt, daß auch so kleine Versehen ihm im Eignen nicht vorzukommen pflegen, denn in der That gehört es allemal zur redlichen Gesinnung, welche jeder Contrahent bei dem andern voraussetzen muß, daß er wenigstens in dem besondern Verpflichtungsverhältniß sich nicht nachlässiger benehmen werde, als er gewöhnlich bei Verrichtungen auf eigne Rechnung thut, es mag übrigens der Grad dieser Nachlässigkeit kleiner oder größer sein. Kann nun also eine culpa levis unter Umständen in einem gewissen Sinne dolus sein, mit dem sich keine obligatio verträgt, so muß dies um so mehr von jeder an sich groben Schuld gelten. Der Schluß verstand sich von selbst, daher ward er nicht ausgeführt. Zieht man nun diese, wie mir scheint, ganz natürliche Erklärung den vielen künstlichen und sinnentstellenden Andrer vor, so sieht man auch, daß hier die culpa in concreto, nicht culpa lata genannt wird, sondern es wird nur eine culpa levis, die zugleich culpa in concreto ist, für dolus erklärt, und daraus geschlossen, daß um so eher eine jede culpa lata, sie mag nun zugleich culpa in concreto sein, oder nicht, für dolus gelten müsse173.

99Dunque per Hasse, con la ‘lex quod Nerva’ Celso non si soffermava sulla diligentia quam suis come autonoma categoria dogmatica, ma tentava di meglio definire i concetti edittali di dolo e culpa lata, ampliandone i confini: infatti, per il pretore romano rientrava nel dolo, e a fortiori nella culpa lata, anche la neglegentia rebus suis non consueta.

100Con ciò, tuttavia, non si superava ancora la contraddizione fra il fr. 32 e i frammenti in tema di società, comunione e dote, ove la diligentia quam suis veniva presentata come attenuazione di culpa levis. A questo fine Hasse precisa che di culpa lata – commissiva od omissiva –, anche nella forma descritta dal fr. 32, si rispondeva sempre, senza poter mai trovare scusanti al proprio comportamento gravemente negligente richiamandosi alla propria negligenza abituale. Diversamente in taluni rapporti in cui si rispondeva anche per culpa levis – come la società, la comunione, la dote e la tutela – per particolari ragioni174, il diritto romano aveva introdotto un correttivo a favore del debitore, attribuendogli, in caso di azione esercitata da parte del creditore, la possibilità di discolparsi ope exceptionis opponendo la ‘neglegentia rebus suis consueta’; al debitore convenuto per culpa levis spettava, in tali casi, per evitare la condanna, l’onere di dimostrare di essere abitualmente in suis parimenti negligente:

bei den Contracten, welche diligentia quam suis etc. prästiren lassen, das iudicium auf culpa levis geht, und nur in einzelnen Fällen, wenn gerade der Handelnde als ein gewöhnlich Nachlässiger befunden wird, die Beschränkung der Beflissenheit eintritt, muß hier in der Regel jegliches leichte Versehen verantwortlich machen, und muß es präsumirt werden, daß der in Anspruch genommene durchweg und auch in der gerade in Frage stehenden Art der Thätigkeit ein Fleißiger zu sein pflege. Eine culpa levis ist hier zum Klaggrunde hinreichend, und nimmermehr kann es hier erforderlich sein, daß der Kläger sich auf den gewöhnlichen Fleiß des Andern berufe, vielmehr muß dieser letztere es zu seiner Entschuldigung anführen, es zum Gegenstande seiner exceptio machen, daß er ein Nachlässiger auch in Eignen sei, nicht aber genöthigt werden können, mehr zu leisten, als er in seinen eignen Dingen zu leisten gewohnt sei175.

101Tale scusante valeva tuttavia per i soli comportamenti omissivi, perché per i danni prodotti con culpa in faciendo il debitore rispondeva sempre, in base alla lex Aquilia, anche per una negligenza di lievissima entità (D. 9.2.44.pr.: ‘In lege Aquilia et levissima culpa venit’): nessuna gradazione di culpa aveva, infatti, rilievo nella responsabilità extracontrattuale ex lege Aquilia, applicabile a qualunque soggetto, indipendentemente dalla sua posizione all’interno del rapporto obbligatorio.

102Nel nuovo sistema di Hasse la diligentia quam suis viene così dissolta come autonoma categoria dogmatica e, nello stesso tempo, sono superate le contraddizioni testuali che per secoli avevano occupato gli interpreti: la ‘neglegentia rebus suis non consueta’ della ‘lex quod Nerva’ non costituisce, infatti, che un mero caso di culpa lata equiparata al dolo; la ‘neglegentia rebus suis consueta’ della lex socius socio (Iust. inst. 3.25.9 = D. 17.2.72) e degli altri frammenti in tema di comunione, dote e tutela, perde la sua autonomia per ridursi a mezzo di difesa giudiziale apprestato dal diritto a favore di particolari debitori rispetto ad un’accusa di culpa levis.

103Nella dottrina dell’epoca le intuizioni di Hasse non riscossero sempre generale e incondizionato consenso176. Non di rado esse furono sottoposte a critica177 e, qualche volta, radicalmente disattese178: in particolare venne generalmente rifiutata la scelta di mantenere inalterata la tradizionale forma della culpa lata in concreto, giudicata in genere fonte di equivoci e poco fondata sul piano testuale179. Ma, al di là delle singole soluzioni ed esegesi, più o meno apprezzate dai successivi studiosi, il nuovo approccio determinò un radicale cambiamento nella definizione dogmatica dei principii cardine della responsabilità contrattuale e, più in generale, nella stessa mentalità giuridica del tempo: da questo momento, infatti, l’omissione di diligentia quam suis, tradizionalmente accostata alla culpa lata della ‘lex quod Nerva’, perse con essa ogni contatto, per divenire forma di culpa levis attenuata posta a beneficio del socio, del comunista, del marito e del tutore180, in ragione dei particolari rapporti di fiducia o fraternità riconoscibili all’interno di questo tipo di obligationes, dell’onere particolarmente gravoso imposto al tutore o della condizione sui generis del comproprietario che amministra una cosa comune181.

104Così la «rivoluzione» di Hasse cambiò il corso della storia esegetica della ‘lex quod Nerva’, che dalla Pandettistica venne generalmente presentata come il frutto più maturo della riflessione dogmatica di Celso sui concetti di dolo e culpa lata, sul loro fondamento, sul loro contenuto e reciproca connessione182.

105La ‘lex quod Nerva’ perse dunque il suo primato nella dottrina della diligentia quam suis ma ciò non ne comportò l’uscita dai circuiti delle trattazioni scientifiche sulla responsabilità contrattuale e l’obsolescenza come oggetto di studio: la sua tradizione millenaria era troppo forte, la sua storia esegetica troppo radicata perché una qualsiasi rivisitazione scientifica della dottrina della colpa potesse ragionevolmente pensare di discostarsene. Così ‘lex quod Nerva’ rimase nonostante tutto protagonista del rinnovato dibattito sulla responsabilità contrattuale, a volte elevata a base testuale della rifondazione dogmatica del concetto di culpa lata tentata da alcuni pandettisti (come Hesse183, Binding184, Friedrich Mommsen185), a volte, al contrario, sminuita come opinione personale ed isolata di Celso, espressa in un momento in cui la dottrina della colpa non si era ancora del tutto consolidata (Dernburg186, Regelsberger187, Perozzi188).

106Questo, in sintesi, lo stato della dottrina tedesca sulla culpalata e la diligentia quam suis alla vigilia dei lavori preparatori della nuova codificazione: e il Windscheid, membro autorevole della prima commissione, tentò di applicarne rigorosamente i risultati, proponendo di limitare il beneficio della diligentia quam suis ai soli casi in cui, per particolari ragioni attinenti alla natura del rapporto, esso apparisse equamente conforme agli interessi delle parti (contratto di società, rapporti patrimoniali fra coniugi). La responsabilità in concreto fu, invece, nel primo progetto, esclusa dalla disciplina del contratto di deposito in ragione della rinnovata interpretazione della ‘lex quod Nerva’ operata dalla Pandettistica, che aveva fatto giustizia dei malintesi del passato: secondo i «Motive» (in cinque volumi) che accompagnavano l’ «Erster Entwurf» del «BGB.», la comune responsabilità per culpa levis, applicabile senza distinzione al deposito gratuito ed oneroso, sarebbe stata anche funzionale ad evitare un’ingiustificata disparità di trattamento fra depositario e mandatario gratuiti189.

107Ma, nonostante tutto, la forza della tradizione prevalse e l’esito dei lavori fu opposto a quello prefigurato: la «Kommission für die zweite Lesung», dominata da germanisti desiderosi di far valere le peculiarità del diritto nazionale contro il diritto romano e la precedente leadership romanistica190, riesumò in funzione polemica la diligentia quam suis del depositario richiamandosi proprio alla sua inveterata tradizione, rifluita da una parte nelle consuetudini dei Länder, dall’altra nei precedenti codicistici prussiano e sassone191: così la diligentia quam suis del depositario, faticosamente estromessa dal dibattito scientifico come lettura infondata di un testo malinteso, ritornò baldanzosa ed immutata nella disciplina codicistica, come se i cento, lunghi anni della rivisitazione pandettistica delle fonti romane, nulla avessero prodotto di determinante e significativo.

108Qui sta l’origine del § 690 del «BGB.» sull’attenuazione di responsabilità del depositario gratuito, fonte tuttora, insieme agli altri casi di culpa in concreto mantenuti dal codice192, di dissensi dottrinali di larga portata, fra chi reputa tale misura inutile e dannosa, e chi si sforza di giustificarla alla luce dell’equità e della giustizia del caso singolo193.

8. D. 16.3.32 e la romanistica del XX secolo

109Fino agli inizi del novecento gli approfondimenti tematici sulla culpa in concreto del depositario e in generale sulla diligentia quam suis non si erano mai disgiunti dall’analisi esegetica della ‘lex quod Nerva’, da sempre considerata caposaldo – ed insieme nodo problematico – dell’intera disciplina della responsabilità contrattuale, romana e positiva. Ma la trasposizione della lex in regola codificata di molti paesi (Francia, Italia, Germania, Argentina, Brasile, Costa Rica, Venezuela, Perù, Quebec etc.194) non potè che determinare la divaricazione fra gli studi di diritto positivo, interessati all’interpretazione della norma nell’ambito della regolamentazione codicistica della responsabilità e ai suoi problemi applicativi, e quelli di diritto romano, interessati al significato e alla portata del frammento nel suo contesto storico, alla luce della disciplina antica della responsabilità contrattuale195. Contemporaneamente, fra i due poli, perse di interesse fra i romanisti196 lo straordinario patrimonio esegetico del diritto intermedio197. Poiché la scelta programmatica del presente studio è quella di seguire le sorti della ‘lex quod Nerva’ durante i lunghi secoli della sua storia esegetica al fine di proporne un’interpretazione più consapevole e storicamente fondata, si lasceranno da parte le problematiche attinenti agli esiti codicistici e dogmatici della regola (salvo i pochi accenni dei paragrafi precedenti) per concentrarsi sugli sviluppi dottrinali della lex nel quadro delle nuove metodologie scientifiche della ricerca romanistica del XX secolo, nella prospettiva indicata nell’introduzione a questo lavoro, cui rinvio.

110Com’è noto, il definitivo superamento della vigenza positiva dello jus commune nell’Europa del primo novecento aprì le porte al consolidamento del cd. metodo critico, che si proponeva un complessivo riesame testuale, sotto il profilo filologico e storico, del Corpus Iuris (e delle fonti giuridiche minori pervenute al di fuori di esso) teso anche ad individuarne l’eventuale presenza di interpolazioni giustinianee. Per la ‘lex quod Nerva’ tale rinnovamento fu di particolare significato perché, al di là del concreto dissidio fra Nerva e Proculo sorto all’epoca del primo impero e poco dopo ripreso da Celso, il testo era stato per lo più presentato (persino dai giuristi culti) come il manifesto astorico di un principio giuridico fondamentale, elevato a pilastro della sistematica della responsabilità contrattuale ereditata dal passato. Ora, per la prima volta, la fonte veniva rivista alla luce del contesto storico della scuola proculiana e, sulla scorta della Palingenesia Iuris Civilis di Otto Lenel pubblicata nel 1889, veniva anche rivalutata sulla base della sua collocazione palingenetica (rivelata dall’inscriptio) nel titolo ‘de tutelis’ dei Digesta di Celso (n. 91).

111Notoriamente alle novità metodologiche della critica del testo, non sempre corrispose un adeguato rigore scientifico negli studi esegetici dell’epoca, ed in effetti, qui come altrove, non rari sono gli eccessi di chi, senza plausibile ragione, giunge a svalutare la ‘lex quod Nerva’ come prodotto deteriore di una logica bizantina schematica e generalizzante, sulla sola base di una sua presunta contraddittorietà interna o della presenza di parole ritenute arbitrariamente «sospette»198.

112Più produttivo fu invece l’apporto di quegli esponenti della critica che, riprendendo una suggestione del Pernice199 e riflettendo sulla collocazione palingenetica del frammento, riferivano il passo al contesto originario della tutela, ipotizzando che Giustiniano lo avesse spostato nel titolo ‘depositi vel contra’, interpolandone alcune parole, proprio al fine di confermare con una fonte classica l’equiparazione cara ai compilatori fra culpalata e dolo200. Ciò apportava una nuova chiave di lettura, idonea forse a svelare aspetti inesplorati del testo, e non è dunque un caso che, ancora negli ultimi decenni, la tesi sia stata riproposta da personalità scientifiche di rilievo, che hanno fatto della ‘lex quod Nerva’ un caposaldo della controversa disciplina romana della responsabilità del tutore201. Molti hanno giustamente rilevato202 che, vista l’abitudine dei giuristi romani di argomentare per connessioni di idee, digressioni e paragoni, la variazione tematica di un frammento dal contesto dominante non è di per sé prova sufficiente di interpolazione. Tuttavia, di fronte al dato oggettivo della collocazione palingenetica del testo in un ambito certamente riferito alla tutela, il generico riferimento alla tecnica argomentativa dei giuristi romani non basta ad escludere con certezza ipotesi interpolazionistiche: il sospetto di interpolazione può, infatti, essere ragionevolmente escluso soltanto nel caso di evidente discrasia fra il contenuto della lex e la portata concettuale della diligentia quam suis del tutore, quale risulta dalle numerose attestazioni delle fonti sul tema. A questo nodo problematico si cercherà di dare una risposta esauriente nella parte finale di questo studio, in sede di rivalutazione esegetica del frammento.

113Fra i primi sostenitori dell’attinenza del passo alla responsabilità del tutore vi fu Ludwig Mitteis con la sua magistrale monografia del 1908 «Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians»203: occorre, tuttavia, precisare che, ben al di là di questa minuta ipotesi interpolazionistica, l’opera inaugurò un filone interpretativo che, con le dovute varianti, va tuttora per la maggiore fra gli esegeti della ‘lex quod Nerva’, compresi quelli che ne sostengono la totale genuinità e l’originaria pertinenza al contratto di deposito.

114Mettendo a frutto un’intuizione della Pandettistica (§ 7), Mitteis presentò la ‘lex quod Nerva’ come attestazione significativa degli sforzi della giurisprudenza alto-imperiale verso l’ampliamento interpretativo del concetto di dolo: il che serviva, in particolare, nei rapporti tutelati da azioni infamanti (ad esempio tutela e società) che, secondo l’autore, non potevano prevedere un grado di responsabilità più pesante del dolo, proprio a causa della gravità della sanzione inflitta all’obbligato in caso di condanna. Con tale interpretazione estensiva la giurisprudenza avrebbe inteso rendere possibile la condanna dell’obbligato in ipotesi di grave negligenza, nonostante che fossero prive dei requisiti della consapevolezza o volontarietà del danno tipico del dolo propriamente detto204. Così, nel fr. 32, Nerva e Celso avrebbero formulato il principio nuovo e non da tutti condiviso che «die Zurücksetzung fremder Angelegenheiten gegen die eigenen unehrlich ist»205 e che la mancanza di fedeltà di chi è meno diligente in alienis che in suis deve essere considerata dolo anche se non presenta gli estremi della consapevolezza/volontarietà del danno secondo l’accezione più ristretta del termine. Interpolati erano, invece, per Mitteis, tutti i testi in cui la diligentia quam suis non fosse presentata come ampliamento del concetto di dolo, ma come attenuazione della responsabilità per colpa: unica eccezione poteva forse essere D. 17.2.72 in tema di società, a patto di considerarlo (a dire il vero contro la lettera del testo, che parla espressamente di culpa levis) come attestazione del tentativo gaiano di estendere la classica responsabilità per dolo del socio oltre i suoi originari limiti concettuali206.

115In seguito molti studi207 misero opportunamente in luce l’erroneità del supposto legame fra condanna infamante e responsabilità per dolo, dimostrando, attraverso nuove attestazioni epigrafiche o con la semplice rilettura non prevenuta delle fonti giuridiche tradizionali, che il criterio della colpa era applicato già in età classica a molti rapporti tutelati da azioni infamanti, primo fra tutti quello di società. Praticamente incontrastata rimane comunque, fino ai nostri giorni, l’intuizione di fondo del Mitteis che la ‘lex quod Nerva’ fosse espressione del cammino della giurisprudenza classica verso l’estensione del concetto di dolo a gravi infrazioni della fides prive dell’evidenza della consapevolezza/volontarietà del danno: in seguito i giustinianei, nella loro opera di stilizzazione dogmatica dei concetti giuridici ereditati dal passato, avrebbero relegato questi casi gravi di infrazione involontaria della fides nella categoria residuale della culpa lata. Sulla base della ‘lex quod Nerva’ interpretata secondo questi presupposti, si è anche tentato in dottrina di formulare una nuova categoria concettuale, quella del cd. «dolo relativo», rilevabile in chi, già negligente in suis, si riveli nella custodia del deposito ancor più negligente: secondo questa lettura, Celso avrebbe creato la nuova figura del dolo relativo al fine di difendere la proposta di Nerva di equiparare al dolo la grave negligenza del depositario, contro l’obbiezione di Proculo che escludeva tale possibilità nel caso di un depositario già gravemente negligente in suis208.

116In ogni caso, per l’attuale dottrina dominante, la ‘lex quod Nerva’ contiene un nucleo genuino del pensiero classico ed attesta per quest’epoca l’esistenza di un concetto elastico di dolo, nel quale rientravano ipotesi di grave infrazione della fides, volontarie o non, come, nel caso di specie, l’omissione di diligentia quam suis del depositario209.

117L’osservazione contiene senza dubbio un fondo di verità210, ma va a mio parere precisata alla luce di un’attenta rilettura del passo nella sua integrità strutturale e contenutistica perché, in questa generica formulazione, essa finisce coll’attribuire ai giuristi romani l’idea, logicamente e storicamente inaccettabile, che a qualcuno – e a maggior ragione al depositario, titolare di un contratto gratuito – possa tout court essere imposto dal diritto l’obbligo di trattare le cose affidate come le proprie, sanzionandolo di dolo in caso di inosservanza. Riprendendo un’acuta osservazione del Pufendorf (§ 6), la diligentia quam suis così intesa può tutt’al più ergersi ad obbligo morale, ma non può assurgere ad obbligo giuridico sanzionato sul piano del diritto: il disagio dei giuristi di ogni epoca di fronte all’iniquità di questa formulazione emerge con chiarezza dal tentativo ricorrente211 di interpretare D. 16.3.32, contro la lettera del testo, alla luce di D. 13.6.5.4 in tema di comodato, cioè come statuizione della responsabilità del depositario che, in caso di perimento fortuito della cosa affidata, abbia, nella stessa circostanza, salvato la propria. Si aggiunga che la suddetta impostazione, salvando la classicità del fr. 32 come tentativo di interpretazione estensiva del concetto di dolo, giunge di regola a sacrificare, come frutto di interpolazione o di modifica postclassica, i testi ove la figura emerge sotto un diverso profilo, cioè come attenuazione (nella società e in un frammento sulla dote) o aggravamento (nella tutela e in un altro frammento sulla dote) della responsabilità per colpa212. In realtà l’antitesi tra classico e postclassico-giustinianeo non risolve i problemi di una figura giuridica che si presenta contraddittoria anche all’interno della disciplina dei singoli istituti (si veda, ad esempio, la contraddizione fra D. 23.3.17.pr. e D. 24.3.24.5 in tema di dote).

118Da ultimo occorre ricordare la posizione del Cannata, che ha supposto la presenza nel testo di un’ampia glossa postclassica213 da ‘nisi tamen’ a ‘praestat’ e da ‘nec enim’ alla fine214, cioè proprio nella parte riferita alla diligentia quam suis215: nel contesto originario Nerva e Celso si sarebbero limitati a qualificare come doloso il comportamento del depositario che avesse usato nella custodia «una diligenza inferiore a quella corrispondente al comportamento che può definirsi come «il comportamento umano» … perché chi affida ad un soggetto la propria cosa ha diritto di attendersi che questi si comporterà da persona normale»216. L’autore considera la fattispecie del fr. 32 come un caso di «dolo tipizzato», cioè come un comportamento tipico, considerato dai giuristi doloso sulla sola base dei suoi connotati esteriori: l’individuazione di casi di «dolo tipizzato» sarebbe stata, infatti, una necessità di fronte alle difficoltà pratiche connesse all’accertamento giudiziale del dolo in quanto «stato dell’anima».

119Ma il taglio radicale che questa ricostruzione presuppone non solo appare di per sé ingiustificato di fronte alla piena comprensibilità del testo nella lezione tramandata (cfr. § 9), ma finisce coll’attribuire ai giuristi l’idea – secondo me inaccettabile sia sul piano logico che sotto il profilo storico – che un comportamento possa essere giudicato doloso soltanto perché meno diligente della media: si tratta in realtà di una prospettiva non nuova che, già lumeggiata su altre basi da Accursio, è stata più volte criticata, a partire dalla scuola dei commentatori, nell’intero corso della tradizione romanistica (cfr. § 3 ss.).

120Alla luce delle suggestioni della dottrina del novecento, si rivela ora opportuna una revisione dei testi che parta da una nozione di diligentia quam suis non aprioristica ed unitaria, ma variabile e modellata sulle esigenze concrete dei singoli rapporti217.

9. Per una rilettura conclusiva della ‘lex quod Nerva’ alla luce degli altri testi sulla diligentia quam suis

121a. Al di là delle svariate letture date alla ‘lex quod Nerva’ nel corso dei secoli e della diversa portata di volta in volta riconosciutale per la ricostruzione della dottrina della colpa e della diligentia quam suis, comune a molti studi esegetici è il tentativo di individuare nella lex la statuizione di un principio generale (quello del «dolo presunto» a partire dai glossatori, quello del «dolo ampliato» a partire dalla Pandettistica) senza una corrispondente ed adeguata considerazione del dato testuale: in realtà, come sporadicamente messo in luce, nel corso dei secoli, da diversi esponenti della dottrina (già Vinnio218, poi Le Brun219, Glück220, von Löhr221, Sertorio222, Rotondi223, Cian224, Hoffmann225, Hausmaninger226), il testo non statuisce il principio generale che l’omissione di diligentia quam suis del depositario sia dolo, ma descrive il caso specifico di un depositario abitualmente più negligente in suis di quanto la natura hominum227 richieda, che in deposito sia ancor più negligente228 e con ciò tradisca l’affidamento riposto in lui dal depositante, annullando l’operatività del principio ‘de se queri debet’ (in base al quale chi abbia assunto un depositario negligente, deve imputare a sé ogni conseguente danno)229. Infatti, come bene spiega il Rotondi, «chi affida un oggetto a persona notoriamente trascurata de se queri debet: ma ognuno deve avere il diritto di aspettarsi che quella persona sia almeno tanto diligente quanto lo è usualmente»230. In tale lettura, come chiarisce il Sertorio, trova giustificazione anche il comparativo latior della frase d’esordio (… latiorem culpam dolum esse …) che indica che «il supposto depositario avrebbe commesso per le cose depositate una colpa più grave di quelle, pur già latae, che soleva commettere per sé»231.

122Ma, dati per certi questi presupposti, la piena comprensione del passo richiede, a mio parere, un’ulteriore precisazione. Secondo la lettura attualmente dominante232 il testo documenterebbe l’intento dei giuristi alto-imperiali di estendere la responsabilità per dolo del depositario a casi privi del requisito della consapevolezza delle conseguenze dannose del proprio comportamento, e proverebbe l’elasticità classica del criterio del dolo in contrapposizione alla staticità e rigidità del concetto giustinianeo. A sostegno di questa tesi la dottrina è solita citare alcuni frammenti del titolo ‘depositi vel contra’ del Digesto, ove i giuristi mostrano di estendere la tutela del depositante a casi di mancata o difettosa restituzione della cosa depositata indipendentemente dalla verifica dell’intenzionalità del suo comportamento e della consapevolezza delle sue conseguenze: è il caso, ad esempio, del depositario condannato, secondo l’opinione di Giuliano, sul semplice presupposto del suo rifiuto di restituire la cosa (D. 16.3.1.22), del sequester condannato per aver liberato, spinto dalla misericordia e non allo scopo specifico di consentirgli la fuga, uno schiavo miseramente legato in attesa di processo (D. 16.3.7.pr.), o di chi, ricevuto un deposito da uno schiavo, venga condannato per averlo restituito allo stesso schiavo, nonostante potesse, valutando le circostanze, sospettare che la volontà del dominus era contraria alla restituzione (D. 16.3.11.pr.):

D. 16.3.1.22 Ulp. 30 ad ed.: Est autem et apud Iulianum libro tertio decimo digestorum scriptum eum qui rem deposuit statim posse depositi actione agere: hoc enim ipso dolo malo facere eum qui suscepit, quod reposcenti rem non reddat. Marcellus autem ait non semper videri posse dolo malo facere eum, qui reposcenti non reddat: quid enim si in provincia res sit vel in horreis, quorum aperiendorum condemnationis tempore non sit facultas? Vel condicio depositionis non exstitit?

D. 16.3.7.pr. Ulp. 30 ad ed.: Si hominem apud se depositum ut quaestio de eo haberetur, ac propterea vinctum vel ad malam mansionem extensum sequester solverit misericordia ductus, dolo proximum esse quod factum est arbitror, quia cum sciret, cui rei pararetur, intempestive misericordiam exercuit, cum posset non suscipere talem causam quam decipere.

D. 16.3.11.pr. Ulp. 41 ad Sab.: Quod servus deposuit, is apud quem depositum est servo rectissime reddet ex bona fide: nec enim convenit bonae fidei abnegare id quod quis accepit, sed debebit reddere ei a quo accepit, sic tamen, si sine dolo omni reddat, hoc est, ut nec culpae quidem suspicio sit. Denique Sabinus hoc explicuit addendo: «nec ulla causa intervenit, quare putare possit dominum reddi nolle». Hoc ita est, si potuit suspicari, iusta scilicet ratione motus: ceterum sufficit bonam fidem adesse. Sed et si ante eius rei furtum fecerat servus, si tamen ignoravit is apud quem deposuit vel credidit dominum non invitum fore huius solutionis, liberari potest: bona enim fides exigitur. Non tantum autem si remanenti in servitute fuerit solutum, sed etiam si manumisso vel alienato, ex iustis causis liberatio contingit, scilicet si quis ignorans manumissum vel alienatum solvit. Idemque et in omnibus debitoribus servandum Pomponius scribit.

123Ma a ben vedere, intendere questi casi come attestazione di un consapevole tentativo giurisprudenziale di ampliamento sostanziale del concetto di dolo233 appare incongruente con il tenore dei testi, che impostano il problema sotto il mero profilo processuale: in D. 16.3.1.22 Giuliano prospetta come doloso il contegno del depositario che rifiuta la restituzione di fronte all’espressa domanda del deponente. Marcello rileva l’eventualità di cause oggettive che giustifichino il rifiuto di restituzione e che quindi escludano il dolo attuale. Nella prospettiva del testo ulpianeo, che mette a confronto Giuliano con Marcello, il punto di vista è quello processuale della mancata restituzione dolosa e dell’eventualità di circostanze a difesa del convenuto che escludano il dolo. Nel fr. 7.pr. D. 16.3 Ulpiano rifiuta, seppure che un certo imbarazzo, l’idea che l’esercizio della misericordia da parte del sequestratario infedele lo giustifichi di fronte all’azione dei codeponenti che ne fanno valere il dolo234. In D. 16.3.11.pr. non deve stupire la menzione del dolo del depositario, non consapevole per sua colpa della contraria volontà del dominus dello schiavo deponente alla restituzione allo schiavo stesso: ancora una volta il depositario non può difendersi nell’actio depositi esperita dal dominus per questa restituzione contraria alla sua volontà, adducendo la sua ignoranza colposa235. In questo modo i sospetti di interpolazione vengono mitigati e i testi mantengono la loro interna coerenza logica.

124In tale quadro si chiarisce meglio anche la portata del fr. 32, che costituisce attestazione significativa dei tentativi giurisprudenziali dell’epoca di estendere l’operatività dell’actio depositi in factum e in ius a casi di grave infrazione della fides che non rientrerebbero di per sé nella fattispecie tipica del dolo236.

125b. Come già notato (§ 8) il fr. 32 di Celso, in ragione dell’originaria collocazione palingenetica, è stato non di rado in dottrina riferito alla tutela, quasi che la disputa fra Nerva e Proculo alludesse alla possibile estensione della responsabilità per dolo del tutore al caso dell’omissione della diligentia abituale nei suoi affari. Si dimostrerà ora che l’incoerenza sostanziale rilevabile fra il concetto di diligentia quam suis del tutore e il caso descritto dalla ‘lex quod Nerva’, consente ragionevolmente di escludere tale sospetto.

126Com’è noto, il tema della responsabilità del tutore in età classica è stato oggetto in dottrina di un’annosa disputa237 fra chi, soprattutto in passato, la considerava limitata al dolo238, chi pensava ad un criterio di imputabilità oggettiva fondato sul mero nesso di causalità fra interposizione gestoria ed evento dannoso239, e chi – con opinione oggi maggioritaria – ritiene genuine le svariate attestazioni delle fonti sull’estensione della sua responsabilità fino alla colpa240. Comunque, nonostante le differenze di opinione, è comune fra gli interpreti l’idea che la gestione del patrimonio pupillare debba essere informata ai criteri generali della fides et diligentia241, ossia dell’accuratezza, oculatezza, attenzione, premura e partecipazione affettiva e psicologica242 agli interessi del pupillo, da cui discende, come da genus a species, la lunga serie di obblighi specifici ricordati nelle fonti, come quello della tempestiva assunzione dell’ufficio, dell’accurata redazione dell’inventario, della regolare tenuta dei conti, dell’oculato investimento del patrimonio pupillare in nomina idonea o beni immobiliari, dell’educazione e cura della persona del pupillo, e così via243.

127In tale contesto rientrano con piena coerenza, al di là dei sospetti di interpolazione frequentemente avanzati244, i frammenti attestanti la cd. diligentia quam suis del tutore, che alludono proprio alla «fattiva devozione agli interessi del pupillo» che deve indurre il tutore ad «un impegno non inferiore a quella cura che egli porta negli affari propri»245: accezione, del resto, non infrequente, anche al di fuori del campo specifico della tutela, nelle fonti extra-giuridiche, prime fra tutte quelle evangeliche246. E’ il caso, ad esempio, di D. 27.3.1.pr., Ulp. 36 ad ed., ove la ‘diligentia quanta in suis rebus’ del tutore si aggiunge alla statuizione generale dei criteri di imputabilità della colpa e del dolo, come «grado di chiusura» della sua responsabilità247: qui, come giustamente ha osservato il MacCormack, «the sense is that the tutor is required to take proper care … and is liable for failure to take such care … Diligentia is mentioned explicitly because of the importance of the fault constituted by the failure to take care»248:

In omnibus quae fecit tutor, cum facere non deberet, item in his quae non fecit, rationem reddet hoc iudicio, prestando dolum, culpam et quantam in suis rebus diligentiam.

128Analoga prospettiva è quella di D. 26.7.33.pr., Call. 4 de cogn. che, a dispetto delle critiche di illogicità e dei sospetti di interpolazione249, indica soltanto che, nella gestione del patrimonio pupillare, si chiede a tutori e curatori di prestare la diligenza che un pater familias attento e sollecito presta normalmente nelle sue cose:

A tutoribus et curatoribus pupillorum eadem diligentia exigenda est circa administrationem rerum pupillarium, quam pater familias rebus suis ex bona fide praebere debet.

129Benché il criterio ivi seguito sia eminentemente astratto, anche qui come nel frammento precedente ciò che preme al giurista è precisare che dal tutore si pretende una gestione attiva, attenta, accurata, sollecita, come è di regola quella di chi amministra una cosa propria: interpretazione, questa, conforme alla testimonianza dei Basilici ove, nello scolio OÙc (n. 4) a D. 27.3.1.pr. = Bas. 38.3.1, lo scoliasta anonimo interpreta la diligentia quam suis ivi richiamata come la diligentia exacta dell’ ™pimel¾j ¥nqropoj proprio sulla base del confronto del testo con D. 26.7.33.pr. di Callistrato250.

130Coerenti con tale impostazione di fondo sono anche le trattazioni casistiche dei giuristi, che proprio del confronto fra le scelte del tutore in rebus suis e in rebus pupilli, fanno sovente un criterio diagnostico della sua responsabilità nel caso concreto. Così per Scevola, che imputa ai tutori la perdita economica derivante al pupillo dal loro atteggiamento omissivo quando, in seguito ad un incendio distruttivo dell’intera documentazione di credito, pupillare e personale, essi abbiano salvaguardato gli interessi propri (convocando i debitori per chieder loro il pagamento o la novatioobligationum) ma non quelli del pupillo. E’ interessante notare che nel passo la diligentia quam suis non compare come autonomo criterio di responsabilità, ma come mero elemento diagnostico dell’esistenza del dolo o della colpa in capo ai tutori nel caso concreto251 (‘… si adprobatum fuerit eos tutores hoc per dolum vel culpam praetermisisse’):

D. 26.7.57.pr., Scev. 4 dig.: Chirographis debitorum incendio exustis cum ex inventario tutores convenire eos possent ad solvendam pecuniam aut novationem facendam cogere, cum idem circa [priores] ?proprios? debitores propter eundem casum fecissent, id omisissent circa debitores pupillorum, an, si quis propter hanc cessationem eorum pupilli damnum contraxerunt, iudicio tutelae consequantur? Respondit, si adprobatum fuerit eos tutores hoc per dolum vel culpam praetermisisse, praestari ab his hoc debere252.

131Analogo criterio è utilizzato da Gaio per statuire la responsabilità del tutor che abbia lasciato infruttuoso il denaro pupillare con la scusa di non aver trovato nomina idonea, ma abbia oculatamente e con successo collocato il proprio:

D. 26.7.13.1, Gai 12 ad ed. prov.: Non est audiendus tutor, cum dicat ideo cessasse pupillarem pecuniam, quod idonea nomina non inveniret, si arguatur eo tempore suam pecuniam bene collocasse.

132Lo stesso confronto serve al pretore per valutare la scusabilità del tutore che, assentandosi improvvisamente, abbia lasciato il pupillo in condizioni miserevoli facendogli mancare addirittura gli alimenta: egli, infatti, non sarà rimosso, ma soltanto temporaneamente affiancato da un curatore se, per un’assenza necessaria ed improvvisa, si sia trovato nell’impossibilità di provvedere non solo agli interessi del pupillo, ma anche ai suoi propri:

D. 27.2.6, Tryph. 14 disp.: Si absens sit tutor et alimenta pupillus desideret, si quidem neglegentia et nimia cessatio in administratione tutoris obiciatur, quae etiam ex hoc arguatur, quod per absentiam eius deserta derelictaque sunt pupilli negotia, evocatis adfinibus atque amicis tutoris praetor edicto proposito causa cognita etiam absente tutore vel removendum eum, qui dignus tali nota videbitur, decernet vel adiungendum curatorem: et ita qui datus erit, expediet alimenta pupillo. Si vero necessaria absentia tutoris et improvisa acciderit, forte quod subito ad cognitionem principalem profectus nec rei suae providere nec consulere pupillo potuerit et speratur redire et idoneus sit tutor nec expediat alium adiungi et pupillus alimenta de re sua postulet: recte constituetur ad hoc solum, ut ex re pupilli alimenta expediat.

133Identico criterio è infine attestato in ordine alla valutazione dell’accoglibilità dell’excusatio tutelae in caso di adversa valetudo del chiamato all’officium: essa, infatti, per disposizione imperiale, può essere accolta soltanto in caso di impedimento serio, comprovato dall’impossibilità di provvedere anche ai propri interessi personali:

D. 27.1.10.8, Mod. 3 exc.: … Adversa quoque valetudo excusat, sed ea quae impedimento est, quo minus quis suis rebus superesse possit, ut imperator noster cum patre rescripsit253.

134Quanto tale peculiare accezione di diligentia quam suis fosse radicata nella mentalità del tempo, lo dimostra la Novella giustinianea 72 dell’anno 538 che, al capo VIII, raccomandando ai curatori una gestione patrimoniale particolarmente accurata nel caso di difficoltà economiche del pupillo, usa l’espressione æj ¨n ™pˆ to‹j ˜autîn pr£gmasi per indicare la richiesta di massima partecipazione, psicologica ed affettiva, agli interessi di quello. Come si vedrà, in seguito al progressivo avvicinamento della potestà maritale alla tutela come altrettanti uffici protettivi, questa stessa accezione di diligentia quam suis verrà, in età giustinianea, estesa all’amministrazione dei beni dotali254. Lo dimostrano C.I. 5.14.11.4, una costituzione giustinianea del 530 riferita alla conservazione dei documenti parafernali di credito della moglie, e D. 23.3.17.pr., un testo tratto dal VII libro del commentario ad Sabinum di Paolo ove, alla classica responsabilità del marito per dolo e colpa, viene aggiunta la menzione della diligentia quam suis probabilmente su imitazione di D. 27.3.1.pr. in tema di tutela255:

C.I. 5.14.11.4: Dum autem apud maritum remanent eaedem cautiones, et dolum et diligentiam maritus circa eas prestare debet, qualem circa suas res habere invenitur ne ex eius malignitate vel desidia aliqua muliebri accedat iactura. Quod si evenerit, ipse tandem de proprio resarcire compelletur256.

D. 23.3.17.pr.: In rebus dotalibus virum prestare oportet tam dolum quam culpam, quia causa sua dotem accipit: sed etiam diligentiam praestabit, quam in suis rebus exhibet.

135E’ evidente che l’accezione di diligentia quam suis del tutore qui ricostruita, non ha nulla a che fare con quella attestata dalla ‘lex quod Nerva’ e, in generale, con l’accezione unitaria che a questa espressione è stata data sin dai primi secoli della tradizione romanistica257: piuttosto, i frequenti malintesi dottrinali sul tema sono proprio dipesi dal tentativo di esaminare i testi secondo una concezione preconcetta, sacrificando le peculiarità dei singoli rapporti. In realtà la diligentia quam suis è un mero parametro di fatto di cui talvolta, per particolari ragioni, i giuristi si servono come criterio di determinazione della responsabilità dell’obbligato.

136In ogni caso, la grave negligenza assimilabile al dolo della ‘lex quod Nerva’, che legittima il depositante ad esperire l’actio depositi quando il depositario, già negligente in suis, sia nella custodia del deposito ancor più negligente, non ha nulla a che fare con il surplus di diligenza attiva richiesta al tutore nella gestione del patrimonio pupillare in funzione protettiva. E’ quindi da escludere che D. 16.3.32 si sia originariamente riferito alla tutela.

137c. La trattazione non sarebbe completa senza un riferimento ai testi in cui la diligentia quam suis compare in funzione attenuativa della responsabilità per colpa258: si è visto, infatti, che sin dai glossatori la contraddizione fra D. 16.3.32 in tema di deposito, ove la diligentia quam suis aggrava la responsabilità dell’obbligato, e D. 17.2.72 (= Iust. inst. 3.25.9) in tema di società e D. 10.2.25.16 in tema di comunione ove, invece, ne attenua la responsabilità per colpa, costituisce un topos del dibattito scientifico sulla responsabilità contrattuale.

138Indizi utili alla soluzione del problema si possono ricavare in primo luogo da D. 10.2.25.16, nonostante la poca considerazione di cui il testo ha generalmente goduto nelle trattazioni romanistiche sul tema:

D. 10.2.25.16, Paul. 23 ad ed.: Non tantum dolum, sed et culpam in re hereditaria praestare debet coheres, quoniam cum coherede non contrahimus, sed incidimus in eum: non tamen diligentiam praestare debet, qualem diligens pater familias, quoniam hic propter suam partem causam habuit gerendi et ideo negotiorum gestorum ei actio non competit: talem igitur diligentiam praestare debet, qualem in suis rebus. Eadem sunt, si duobus res legata sit: nam et hoc coniunxit ad societatem non consensus, sed res.

139Secondo la lezione della Florentina, il frammento esordisce dicendo che la responsabilità del coerede per danni arrecati in re hereditaria non si limita al dolo ma si estende alla colpa a causa del carattere incidentale della comunione. Il riferimento evidente è al contratto di società, in cui per Paolo si risponde in misura più ridotta (soltanto per dolo) perché ‘de se queri debet’ chi ha scelto un socio negligente. Tuttavia elemento diagnostico dell’esistenza della colpa in capo al comunista non è, come di consueto, l’assenza della diligentia del bonus pater familias, ma l’assenza di diligentia quam suis, perché questi (sia coerede che collegatario) ‘propter suam partem causam habuit gerendi et ideo negotiorum gestorum ei actio non competit’.

140La diversa interpretazione del testo resa in età bizantina dallo scolio KinoÚmenon (n. 13) ad Bas. 42.3.25 ha spinto gli editori259 a proporre una diversa lettura che, alla statuizione iniziale della responsabilità del coerede per dolo e colpa, fa seguire l’attenuazione della diligentia quam suis fondata, oltre che sulla gestione propter suam partem, sul carattere incidentale della comunione:

non tantum dolum sed et culpam in re hereditaria praestare debet coheres: quoniam tamen cum coherede non contrahimus, sed incidimus in eum, non talem diligentiam praestare debet, qualem diligens pater familias: nam quoniam hic propter suam partem causam habuit gerendi, ideo negotiorum gestorum in eum actio non competit …

141Tuttavia, seguendo questo indirizzo, il beneficio della diligentia quam suis deriverebbe al comunista dall’inapplicabilità del principio ‘de se queri debet’, perché egli, contrariamente al socio, non ha potuto scegliere i compartecipi alla comunione. Ma è noto che, all’opposto, lo stesso principio viene presentato in D. 17.2.72 come motivazione della concessione del beneficio nella società, il che crea fra i due testi un insanabile contrasto. Emerge inoltre con evidenza l’assenza di un legame logico fra la prima motivazione (il carattere incidentale della comunione) e la seconda (la gestione propter suam partem del comunista). La genuinità di questa seconda motivazione è, invece, confermata dalla sua coerenza con il contesto complessivo del passo, i cui §§ 17 e 18 trattano proprio di problematiche attinenti a danni arrecati alla comunione da uno solo dei suoi membri a causa di decisioni o posizioni assunte singolarmente o della gestione isolata della res communis. Infatti il § 17 allude al caso di un legato di homo incertus: il legatario muore ma, fra i coeredi, uno non acconsente alla scelta dell’homo proposta dagli altri e così impedisce a tutti l’acquisto del legato. Secondo Paolo, questi potrà essere condannato nel iudicium familiae herciscundae intentato dai coeredi al quanti intersit eorum. Lo stesso accade nel caso opposto, quando, cioè, fra più coeredi a cui spettava la scelta dell’homo da dare in legato, uno solo non abbia consentito alla proposta degli altri. I coeredi, condannati nel processo intentato dal legatario per mancato adempimento del legato, possono rivalersi contro di lui con l’actio familiae herciscundae:

D. 10.2.25.17: Si incerto homine legato et postea defuncto legatario, aliquis ex heredibus legatarii non consentiendo impedierit legatum, is qui impedit hoc iudicio ceteris quanti intersit eorum damnabitur. Idem est, si e contrario unus ex heredibus, a quibus generaliter homo legatus est quem ipsi elegerint, noluerit consentire, ut praestetur quem solvi omnibus expediebat, et ideo conventi a legatario iudicio pluris damnati fuerint.

142Un caso analogo è presentato nel § 18, ove si dichiara tenuto a titolo di colpa il coerede che, avendo adìto prima degli altri (istituiti, ad esempio, sotto condizione), abbia con la sua inerzia determinato l’estinzione per non uso delle servitù costituite a favore dei fondi ereditari:

D. 10.2.25.18: Item culpae nomine tenetur, qui, cum ante alios ipse adisset hereditatem, servitutes praediis hereditariis debitas passus est non utendo amitti.

143Sono tutti casi in cui un coerede è condannato con l’actio familiae herciscundae perché col suo comportamento ha impedito un’acquisto o ha cagionato una perdita a tutti gli altri membri della comunione. Ciò suggerisce di cercare la vera motivazione dell’attenuazione di responsabilità alla diligentia quam suis enunciata nel § 16 dello stesso frammento, proprio nella gestione propter suam partem del comunista e nella rilevata assenza, in capo a lui, di legittimazione – attiva e passiva – all’actio negotiorum gestorum, cioè, in ultima analisi, nel rapporto esistente fra azioni divisorie e actio negotiorum gestorum.

144Tale rapporto viene bene evidenziato da Ulpiano nel fr. 6.2 del titolo ‘communi dividundo’ quando, in un caso di gestione isolata di un fondo comune da parte di uno dei comproprietari, precisa che l’azione esercitata dagli altri per ottenere il risarcimento dei danni (arrecati dal «gestore» all’intero) o la divisione dei lucri, sarà l’actio communi dividundo se la gestione della sua parte è inscindibile dalla gestione del tutto – cioè se si tratta di communio pro indiviso260 –, l’actio negotiorum gestorum nel caso contrario (cd. communio pro diviso)261:

D. 10.3.6.2, Ulp. 19 ad ed.: Sive autem locando fundum commune sive colendo de fundo communi quid socius consecutus sit, communi dividundo iudicio tenebitur, et si quidem communi nomine id fecit, neque lucrum neque damnum sentire eum oportet, si vero non communi nomine, sed ut lucretur solus, magis esse oportet, ut damnum ad ipsum respiciat. Hoc autem ideo praestat communi dividundo iudicio, quia videtur partem suam non potuisse expedite locare. Ceterum non alias communi dividundo iudicium locus erit, ut et Papinianus scribit, nisi id demum gessit, sine quo partem suam recte administrare non potuit: alioquin si potuit, habet negotiorum gestorum actionem eaque tenetur.

145Nel primo caso il gestore agisce per sé stesso, perché gli sarebbe stato impossibile gestire la propria parte senza gestire contemporaneamente quella degli altri. Nel secondo caso agisce volutamente per altri, nella consapevolezza di obbligarli a sé e di poter poi ottenere il rimborso delle spese con l’actio negotiorum gestorum contraria262.

146Su questa base la limitazione di responsabilità alla diligentia quam suis nella comunione, affermata da Paolo, trova una coerente spiegazione: al membro di una communiopro indiviso che gestisca da solo la res communis, non può essere chiesta più diligenza di quella che normalmente usa nelle sue cose perché ‘propter suam partem causam habuit gerendi’, cioè non avrebbe potuto gestire la cosa propria senza gestire contemporaneamente quella degli altri263. Così se nel corso di tale gestione solitaria egli reca danno alla communio, la colpa – e la conseguente condanna nell’azione divisoria intentata dai comproprietari per il risarcimento – sarà rilevabile unicamente nell’omissione della diligentia abituale nelle sue cose (‘talem igitur diligentiam prestare debet, qualem in suis rebus’).

147D. 10.2.25.16 si riferisce esclusivamente alla comunione fra coeredi e collegatari. Tuttavia è evidente che la gestio propter suam partem che giustifica l’attenuazione di responsabilità del comunista, vale anche per quel socio che, essendo comproprietario del patrimonio comune della societas, lo abbia gestito singolarmente e in tale occasione abbia provocato un danno alla res communis: anch’egli, infatti, non potrebbe gestire la propria parte senza gestire contemporaneamente quella degli altri. Per questa ragione, in tali circostanze, i consoci non possono pretendere dal socio-gestore più della diligenza abituale nei suoi affari e, in caso di danno arrecato alla res communis per una sua scelta gestionale sbagliata, non possono ottenerne la condanna giudiziale al risarcimento se non provandone una neglegentiarebus suis non consueta’: a questo solo parametro concreto il giudice dovrà attenersi nella valutazione della colpa, non a quello astratto della diligenza del buon padre di famiglia. Ciò vale non solo se i soci esercitino per il risarcimento l’azione divisoria communi dividundo, ma anche se preferiscano esperire l’actio pro socio: infatti l’alternatività fra le due azioni nel caso di res communes sociorum, più volte rilevata dalle fonti (cfr. D. 17.2.31-34, 43, ma soprattutto D. 17.2.38.1264) induce a ritenere che anche alla seconda dovessero essere adattati i criteri di clemenza nella valutazione della colpa formulati per la prima. Che tale speciale considerazione per il socio «gestore» della res communis non fosse estranea alla mentalità dei giuristi del tempo, lo dimostra anche il fr. 51.pr. D. 17.2 (Ulp. 30 ad Sab.) ove, in un caso di furto della res communis da parte di un socio, si precisa che l’actio furti richiede il dolo ma che tale condizione psicologica è difficilmente rilevabile in colui che, essendo dominus partis, ‘iure potius sua re uti quam furti consilium inire’.

148In questa luce il fr. 72 D. 17.2 (= Iust. inst. 3.25.9) trova, a mio parere, una spiegazione coerente:

Socius socio etiam culpae nomine tenetur, id est desidiae atque neglegentiae. Culpa autem non ad exactissimam diligentiam dirigenda est: sufficit etenim talem diligentiam communibus rebus adhibere, qualem suis rebus adhibere solet, quia qui parum diligentem sibi socium adquirit, de se queri debet.

149Infatti, osservando con attenzione il dato testuale, si nota che il passo non riguarda, come generalmente si sostiene265, l’attività del socio nel suo complesso ma, come occasionalmente rilevato da qualche esponente della dottrina più risalente266, si concentra sul problema della gestione di res communes della societas da parte di uno dei soci membri della comunione (‘sufficit etenim talem diligentiam communibus rebus adhibere, qualem suis rebus adhibere solet’)267. Il testo enuncia dunque il principio che al socio comproprietario e gerente di res communes societatis non può essere richiesta dagli altri soci, nella gestione del patrimonio comune, più della diligenza abituale nelle sue cose perché propter suam partem causam habuit gerendi, cioè non avrebbe potuto gestire la propria parte senza gestire contemporaneamente quella degli altri. Per questa ragione la diagnosi della responsabilità per colpa del socio che, nel corso della gestione della res communis, abbia recato danno alla societas si deve conformare al parametro della diligentia quam suis, che non è standard autonomo di responsabilità, ma mero indirizzo di «clemenza» nell’individuazione della colpa nel caso concreto, da applicarsi nei ristretti limiti sopra indicati. L’autore delle res cottidianae – sia questi Gaio o un postclassico – ha riportato questa regola forse senza capirne l’originario fondamento: per questo l’ha giustificata col principio de se queri debet268 (‘qui parum diligentem sibi socium adquiritde se queri debet’) che tuttavia, come già notato dal Pernice, non rappresenta nel contesto una vera e propria motivazione, ma si riduce alla «notazione di un dato di fatto e non va al di là di una magra consolazione»269.

150Tale interpretazione si colloca coerentemente nel quadro delle nostre conoscenze sui dibattiti giurisprudenziali dei primi secoli dell’impero (richiamati proprio da D. 17.2.72 = Iust. inst. 3.25.9) sull’opportunità di estendere la responsabilità del socio, fino ad allora limitata al dolo, al criterio più rigoroso della colpa. Lo stesso Paolo, in D. 10.2.25.16, sopra citato, sembra alludere ad una responsabilità del socio limitata al dolo. Se, infatti, da D. 17.2.52.2 (Ulp. 31 ad ed.) sappiamo che Celso propose di rendere responsabili per colpa il socio d’opera e il socio «gestore» di res communes, è del tutto verosimile che, nel corso dello stesso dibattito, lui stesso o un altro giurista del tempo possano aver rilevato l’opportunità di attenuare alla diligentia quam suis la responsabilità per colpa del socio-gestore di res communes, come nella comunione incidentale, in ragione della cd. ‘gestio propter suam partem’.

151d. La diligentia quam suis presenta effetto attenuativo della responsabilità per colpa dell’obbligato anche in D. 24.3.24.5 in tema di dote, ove Ulpiano, chiedendosi se la moglie sia legittimata ad agire con l’actio rei uxoriae270 contro il consorte che abbia crudelmente maltrattato gli schiavi dotali, distingue fra un marito saevustantum in servos uxoris, ed un marito crudele di natura, che non risparmi dalle sevizie nemmeno i propri schiavi. In teoria, secondo Ulpiano, l’azione sarebbe ammessa nel solo primo caso, perché nel secondo la regola della diligentia quam suis imposta al marito nell’amministrazione dei beni dotali è stata formalmente rispettata (‘diligentiam uxor eam demum ab eo exigat, quam rebus suis exiget, nec plus possit’). L’equità suggerisce, tuttavia, al giurista di estendere la legittimazione anche al secondo caso, perché la ‘saevitia, quae in propriis culpanda est, in alienis coercenda est’:

Si maritus saevus in servos dotales fuit, videndum, an de hoc possit conveniri. Et si quidem tantum in servos uxoris saevus fuit, constat eum teneri hoc nomine: si vero et in suos est natura talis, adhuc dicendum est immoderatam eius saevitiam hoc iudicio coercendam: quamvis enim diligentiam uxor eam demum ab eo exigat, quam rebus suis exiget, nec plus possit, attamen saevitia, quae in propriis culpanda est, in alienis coercenda est, hoc est in dotalibus.

152Se D. 24.3.24.5 fosse l’unica attestazione delle fonti sulla diligentia quam suis del marito nell’amministrazione dei beni dotali, pochi dubbi potrebbero sussistere sulla sua originaria portata attenuativa della responsabilità di questi. Ma, come già visto (sub b), nel fr. 17.pr. del titolo 23.3, la diligentia quam suis del marito indica, all’opposto, il particolare grado di diligenza attiva a lui richiesta nell’amministrazione della dote, in ragione dell’ufficio protettivo assunto nei confronti della moglie, assimilabile a quello del tutore nei confronti del pupillo. Tuttavia l’origine giustinianea di questa assimilazione del marito al tutore è suggerita dal già citato C.I. 5.14.11.4, ove Giustiniano prevede il surplus di diligenza attiva a cui il marito, in ragione del suo ufficio protettivo, è tenuto nei confronti degli interessi economici della moglie. Inoltre che, in età classica, la diligentia quam suis del marito fosse intesa nel senso attenuante di D. 24.3.24.5 e non in quello aggravante di D. 23.3.17.pr., è attestato dalla disciplina stessa della dote in quest’epoca e dalla speciale natura degli obblighi del marito su di essa: è noto, infatti, che il patrimonio dotale, trasferito in piena proprietà al consorte al momento del matrimonio, rientrava tendenzialmente in perpetuo fra i suoi beni, salvo l’obbligo di restituzione nel caso di scioglimento del vincolo per divorzio o morte (cfr. D. 23.3.1). La restituzione riguardava, tuttavia, l’entità iniziale del patrimonio, non i frutti percepiti (frutti naturali, interessi maturati, canoni di locazione etc.) e gli eventuali incrementi (cfr. ad esempio D. 23.3.7.pr., 1), cosicché al marito non si chiedeva una gestione attiva come quella imposta al tutore, ma la mera conservazione del receptum in ragione dell’eventuale obbligo di restituzione. Così, in caso di scioglimento del vincolo, il marito o i suoi eredi dovevano restituire tutto quanto ricevuto in identica quantità e qualità (salvo il naturale deterioramento di alcuni beni, come gli indumenti): ciò non poneva problemi nel caso di beni fungibili, da restituire comunque nella quantità iniziale nonostante le eventuali perdite dipendenti, ad esempio, da cattiva gestione o da scelte sbagliate (cfr. ad esempio D. 23.3.42)271. Poteva, invece, risultare problematica la restituzione dei beni infungibili, nel caso di loro perimento o deterioramento: per evitare le difficoltà era usuale la previa aestimatio di questi beni, che trasferiva in capo al marito ogni rischio di perimento, anche fortuito (cfr. ad esempio D. 23.3.10.pr., C.I. 5.12.5)272. In mancanza, sin dall’età repubblicana, il marito rispondeva sino ai limiti della colpa, cosicché, ad esempio, Caio Gracco, per sententia di Publio Mucio Scevola, fu ritenuto responsabile della perdita dei beni della moglie Licinnia avvenuta nel corso della seditio in cui lui stesso aveva trovato la morte, perché si disse che questa era stata da lui provocata con colpa (D. 24.3.66.pr.).

153Collocando in tale panorama il dettato di D. 24.3.24.5, il beneficio della diligentia quam suis ivi richiamato si può spiegare alla luce della circostanza che, amministrando una cosa formalmente propria (benchè propria della moglie per considerazione sociale), il marito non può essere tenuto ad una diligenza superiore a quella abituale.

154Tuttavia lascia perplessi che, in età classica, possa essere stato previsto in via generale un obbligo – benché attenuato – di diligenza in capo ad un soggetto che, dei beni dotali, è proprietario pieno ed incondizionato: nella società e nella comunione, infatti, la regola della diligentia quam suis si spiega alla luce della circostanza che il socio e il comunista, gestendo la propria pars, gestiscono inevitabilmente anche quella degli altri (cd. gestio propter suam partem): ma il marito, pur in previsione di una restituzione e nonostante la concezione sociale della dote come patrimonio della donna destinato ai bisogni suoi e della sua famiglia273, gestisce pur sempre un patrimonio totalmente suo.

155La soluzione a questo problema va cercata nel contesto del passo ove, come si vedrà, la regola della diligentia quam suis del marito viene formulata in un ambito più specifico di quanto finora sia stato in dottrina prospettato.

156Nella Palingenesia Iuris Civilis di Otto Lenel, il fr. 24.5 rientra nel titolo ‘de re uxoria’ (edict. XX) sotto la rubrica ‘soluto matrimonio dos quemadmodum petatur’ (edict. 113), dopo una serie di testi dedicati a problematiche connesse alla legittimazione attiva della moglie o del pater (Ulp. n. 954 ss.) e alla possibilità di azione constante matrimonio nel caso di rischio per la solvibilità del marito (Ulp. n. 957). Il § 5 del fr. 24 è collocato in Ulp. n. 958, preceduto soltanto dal § 4, mentre i paragrafi precedenti dello stesso frammento sono collocati separatamente in Ulp. n. 957.

157Il § 4 del fr. 24 descrive il caso di un marito che, per volontà della moglie, abbia manomesso schiavi dotali. L’ossequio al desiderio della moglie lo esime ovviamente dall’obbligo di restituzione, al momento dello scioglimento del matrimonio, degli stessi schiavi o del loro valore. Tuttavia ci si chiede se alla moglie competa almeno la restituzione dei bona percepiti o dovuti ex obligatione dai liberti in base al diritto di patronato. Per Ulpiano la pretesa è fondata nel solo caso che la moglie, manifestando il desiderio della manomissione, abbia inteso, non donare gli schiavi al marito, ma contrarre con lui un negotium in tal senso. Allora, nell’actio rei uxoriae di restituzione, ella potrà pretendere quanto percepito a tale titolo dal marito ed egli sarà inoltre tenuto a prestare officio iudicis una cautio di restituzione di tutto ciò che in futuro riceverà ex bonis liberti vel ex obligatione:

Si vir voluntate mulieris servos dotales manumiserit, si quidem donare ei mulier voluit, nec de libertatis causa impositis ei praestandis tenebitur: quod si negotium inter eos gestum est, utique tenebitur, ut officio iudicis caveat restituturum se mulieri, quidquid ad eum ex bonis liberti vel ex obligatione pervenisset274.

158Il testo riguarda dunque la condemnatio dell’actio rei uxoriae ed eventuali pretese della moglie, ulteriori rispetto alla mera restituzione della dote. Allo stesso campo attiene evidentemente il § 5, ove non viene formulato un criterio generale, ma ci si limita a chiedere se la moglie, attraverso l’actio rei uxoriae, possa anche pretendere, oltre alla restituzione della dote, un risarcimento per saevitiae commesse dal marito sugli schiavi dotali (anche indipendentemente da un loro danneggiamento fisico, che nel passo non è menzionato): ciò era del resto tecnicamente possibile vista la struttura della formula al quod aequius melius erit, che lasciava al iudex un ampio potere discrezionale, consentendogli di applicare retentiones a favore del marito, ma anche di aumentarne la condanna qualora particolari ragioni lo richiedessero.

159In questo specifico quadro deve essere collocata la notazione ulpianea sulla diligentia quam suis del marito, che non costituisce regola generale, ma è funzionale a precisare il limite della richiesta della moglie di includere nell’entità della condanna dell’actio rei uxoriae un risarcimento per le saevitiae commesse dal marito sugli schiavi dotali.

160e. L’analisi dei testi ha dimostrato che il concetto di diligentia quam suis non può essere assunto in modo unitario275, ma costituisce un parametro variabile fondato sul confronto fra la scelta comportamentale dell’obbligato nell’adempimento dell’obbligazione e il suo atteggiamento in rebus suis, di cui i giuristi si servono per la diagnosi della sua responsabilità quando la natura del rapporto lo consenta e lo giustifichi. Così nella tutela (e nella dote di età giustiniaea), ove è richiesta all’obbligato una diligenza attiva tesa al massimo profitto nell’interesse del pupillo, il confronto fra il comportamento attuale del tutore e quello abituale o fra le scelte da lui assunte nella medesima circostanza in rebus pupilli e in rebus suis, può essere elemento diagnostico di responsabilità quando la diligentia in suis si sia nei fatti rivelata superiore. Viceversa, nella comunione e nella società (e, nei limiti indicati sopra, nella dote), la gestio propter suam partem dell’obbligato spinge i giuristi a limitare la sua responsabilità, conformandola al grado di diligenza abituale nelle sue cose.

161Una conferma di quanto detto si trae dal confronto con altre testimonianze giurisprudenziali che, pur non abitualmente richiamate sul tema, presentano identico modulo argomentativo e analogo criterio diagnostico di responsabilità: D. 19.1.54.pr. presenta il caso di uno schiavo venduto, che si sia rotto una gamba durante una mansione pericolosa impostagli dal venditore prima della traditio. Labeone esclude la responsabilità del venditore nel caso che la mansione fosse abituale per lo schiavo. Paolo dissente e rifiuta il principio, affidandosi al più sicuro criterio astratto della diligentia del buon padre di famiglia:

Lab. 2 pith.: Si servus quem vendideras iussu tuo aliquid fecit et ex eo crus fregit, ita demum ea res tuo periculo non est, si id imperasti, quod solebat ante venditionem facere, et si id imperasti, quod etiam non vendito servo imperaturus eras. Paulus: minime: nam si periculosam rem ante venditionem facere solitus est, culpa tua id factum esse videbitur: puta enim eum fuisse servum, qui per catadromum discendere aut in cloacam demitti solitus esset. Idem iuris erit, si eam rem imperare solitus fueris, quam prudens et diligens paterfamilias imperaturus ei servo non fuerit. …

162In D. 7.9.1.3 Ulpiano fa dipendere la definizione concreta del contenuto dell’obbligo dell’usufruttuario (assunto con la cautio boni viri arbitratu) di non rendere deteriore la causa ususfructus, dall’atteggiamento che, in un caso simile, egli avrebbe assunto in re sua:

Ulp. 79 ad ed.: Cavere autem debet viri boni arbitratu perceptu iri usum fructum, hoc est non deteriorem se causam usus fructus facturum, quae in re sua faceret.

163In D. 9.2.39 Pomponio fissa i limiti della reazione consentita al proprietario di un fondo contro l’irruzione di alienum pecus (oltrepassando i quali, sarà tenuto ex lege Aquilia) sulla base dell’entità che la reazione stessa avrebbe avuto se l’animale fosse stato suo:

Pomp. 17 ad Q. Muc.: Quintus Mucius scribit: equa cum in alieno pasceretur, in cogendo quod praegnas erat eiecit: quaerebatur, dominus eius possetne cum eo qui coegisset lege Aquilia agere, quia equam in iciendo ruperat. Si percussisset aut consulto vehementius egisset, visum est agere posse. Pomponius. Quamvis alienum pecus in agro suo quis deprehendit, sic illud expellere debet, quomodo si suum deprehendisset, quondam si quid ex ea re damnum cepit, habet proprias actiones. Itaque qui pecus alienum in agro suo deprehenderit, non iure id includit, nec agere illud aliter debet quam ut supra diximus quasi suum: sed vel abigere debet sine damno vel admonere dominum, ut suum recipiat.

164In D. 13.6.5.4, infine, la responsabilità del comodatario per il perimento della cosa comodata viene eccezionalmente estesa al damnum fatale se, nella stessa circostanza, egli abbia potuto salvare la sua:

Ulp. 28 ad ed.: … proinde et si incendio vel ruina aliquid contigit vel aliquid damnum fatale, non tenebitur, nisi forte, cum possit res commodatas salvas facere, suas praetulit.

165A questa regola non si sottrae la ‘lex quod Nerva’, a dispetto della lunga tradizione di studi che vi ha voluto sempre individuare la statuizione di un principio generale: per Nerva e Celso la tutela processuale del depositante, subordinata generalmente alla prova del dolo del convenuto, poteva di fatto e per ragioni di equità essere estesa a un caso di culpa latior quando, nel caso concreto, si rilevasse che la negligenza del depositario nella custodia era stata ancora maggiore della sua negligenza abituale.

Aufsatz vom 7. August 2006
© 2006 fhi
ISSN: 1860-5605
Erstveröffentlichung
7. August 2006

  • Zitiervorschlag Lauretta Maganzani, La «diligentia quam suis» del depositario dal diritto romano alle codificazioni nazionali (7. August 2006), in forum historiae iuris, https://forhistiur.net2006-08-maganzani