1. Colonie e colonialismo nel mondo romano
1L’importanza di alcuni temi relativi allo sviluppo del colonialismo e del tentativo, un tempo compiuto, di legittimarne le sue ragioni pongono, anche oggi, lo storico del diritto di fronte alla necessità, ora ribadita o stimolata1, di una riflessione sul rapporto tra questa forma di diffusione e di controllo territoriale e le modalità giuridiche che furono proprie dell’esperienza antica2, e romana in specie, anche in relazione ai movimenti migratori dovuti alla ricerca di nuove risorse3. Perché se l’espansione di Roma e della sua civiltà nel Mediterraneo costituisce un fatto storicamente inoppugnabile, meno agevole e assai discutibile è cercare di dar conto dei fattori di spinta, degli obiettivi e delle attitudini con i quali, in tale processo di espansione, i Romani seppero confrontarsi4. Appare evidente, allora, come il problema di fondo qui evocato sia quello del cd. imperialismo romano (o, per meglio dire, della sua forma peculiare di colonialismo5), su cui, dalla proposta storiografica di Polibio in avanti, ci si interroga6, spostando talora l’accento su un’impostazione militare di carattere difensivo o aggressivo, o privilegiando invece gli aspetti economici del fenomeno7, il cui disegno sarebbe stato promosso a partire dallo scontro con Cartagine8. Proprio partendo da un tale presupposto contesto, il campo d’indagine sarà ristretto in funzione di un approccio all’immagine della colonia nel periodo della sua formazione e della consapevole utilizzazione da parte di Roma: la quale, varrà forse la pena ricordarlo, secondo una tradizione sottovalutata9, avrebbe sviluppato il proprio destino da iniziale e modesta propaggine di Alba che era10.
2Non si può dubitare del rilievo assunto dalle colonie di Roma nel corso della sua storia, e certo non esclusivamente per il ruolo da esse giocato anche solo in funzione del controllo dei nuovi assetti territoriali che via via si andarono formando, a partire dal IV sec. a.C. in poi11. Le colonie, che nel tempo replicheranno le stesse articolazioni istituzionali dell’urbs12, di essa apparvero ai Romani come «piccole raffigurazioni e copie»13, ex civitate quasi propagatae14. La loro menzione era quindi rituale, accanto perlomeno a quella dei municipi, quando si discuteva delle strutture organizzative della res publica15: Augusto, che tentò per una vita di accreditarsene come il ‘restauratore’, più volte nel suo testamento politico cita, a rimarcarne il carattere politico-costituzionale, i suoi provvedimenti in tema di colonie16.
3Com’è noto, poi, l’eco del retaggio trasmesso non mancò di essere richiamata (o addirittura sfruttata) per fini politici nelle campagne italiane di occupazione militare tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e gli anni ’30 del secolo scorso17. D’altro canto, la specificità della colonizzazione romana, all’interno di quella antica e con riguardo ai fenomeni dell’età moderna, è spesso stata al centro del dibattito tra gli studiosi, ciò che ha dato vita ad una proficua stagione di ricerche, invero spesso sollecitate dai ritrovamenti di carattere epigrafico, episodici o sistematici18, che hanno interessato parti consistenti degli originari domini dell’impero romano ed in particolare la penisola iberica. In generale, sotto questo punto di vista, si usa distinguere il carattere della colonizzazione romana dalle altre dell’antichità (e in specie da quella greca) sulla base della unitarietà e della organicità del ‘modello’19, costituito in rapporto con la madrepatria, e della ufficialità delle deduzioni, a prescindere dal prevalere degli scopi strategici, economici o demografici che le avessero determinate20.
4Si dovrà perciò anzitutto chiarire che, in tema di colonie, esiste una serie di nodi terminologici cui far riferimento e da non sottovalutare.
5Su un primo piano l’allusione è certamente al percorso semantico compiuto dal segno latino colonia fino agli usi agevolmente verificabili nelle lingue odierne. Un percorso che si può dire ‘di successo’, ma che sicuramente ha in parte tradito l’originario significato del vocabolo21. Le colonie della res publica Romana avevano infatti una vocazione squisitamente cittadina, mentre l’accezione comunemente impiegata dall’evo moderno si ricollega ai più o meno vasti possedimenti transmarini delle potenze europee, accumulati dall’epoca delle grandi esplorazioni geografiche, che avrebbero dato il via ai vari ‘colonialismi’: spagnolo, portoghese, francese, inglese, olandese22.
6Su livelli ed interessi diversi si situano invece le opinioni dei Romani al riguardo della nozione di colonia. Il legame etimologico con il verbo colere, e quindi «coltivare», è sicuro23. Di più: la nascita e la vita stessa della colonia è fermamente connessa alle attività di assegnazione e coltivazione della terra, come esplicitato in un rinomato brano varroniano24.
7Ciò che potrà sembrare sorprendente è la confusione cui rimandano, in modo proprio o meno, altri testi famosi, come quelli di Aulo Gellio o di Siculo Flacco25.
8Il primo, uomo del II sec. d.C. di grande curiosità intellettuale, nel costruire un capitolo celebre delle sue Notti Attiche sulla differenza tra municipio e colonia, non nasconde che, ai suoi tempi, le parole di quel lessico fossero facili e comuni nell’uso, ma che in realtà implicassero gravi imprecisioni linguistiche, al punto che si giungesse ad assurdità, prima logiche che giuridiche, per le quali il cittadino di una colonia credesse tranquillamente di essere un municeps26. L’ignoranza in materia era riconosciuta e aveva condotto a provvedimenti celebri27:
9Sic adeo et municipia quid et quo iure sint quantumque a colonia differant, ignoramus existimamusque meliore condicione esse colonias quam municipia28.
10Un disorientamento analogo, ma inconsapevole (e apparentemente più grave per un ‘tecnico’), si ritrova in un passo di Siculo Flacco, agrimensore di incerta collocazione temporale29, che affermava:
11Coloniae autem inde dictae sunt, quod Romani in ea municipia miserint colonos, uel ad ipsos priores municipiorum populos coercendos, uel ad hostium incursus repellendos30.
12Ma la promiscuità terminologica municipal-coloniale non deve sorprendere. In realtà, si trattava con tutta verosimiglianza degli esiti culturali del cd. processo di municipalizzazione dell’Italia e successivamente dell’impero che avrebbe gradualmente portato ad un appiattimento delle distinzioni tra le varie tipologie cittadine. Un appiattimento che dall’epoca di Costantino, «dominus urbium»31, si sarebbe definitivamente compiuto: non per caso, nella composizione delle rubriche dei titoli del Digesto giustinianeo, spicca l’assenza di un rinvio alle colonie, seppure in presenza, dal punto di vista dei contenuti, di numerosi richiami ai problemi statutari delle stesse32
2. Inquadramento giuridico degli schemi coloniari protorepubblicani
13La deduzione di colonie da parte di Roma si sviluppò invece come una delle tipologie dell’organizzazione territoriale accanto alle altre due (l’incorporazione delle aree conquistate nella cittadinanza attraverso i municipi ed un efficace rete di alleanze33), e conobbe momenti cruciali con la conclusione del foedus Cassianum (493 a.C.) e, soprattutto, all’indomani della vittoria nel bellum Latinum (338 a.C.) quando, forte di un’egemonia non più in discussione, Roma decise di sciogliere la lega latina stessa34.
14Lo schema delle fondazioni seguito, che dal punto di vista materiale si basava preliminarmente su «operazioni di limitazione e di divisione del territorio»35 fu duplice, con una distinzione tra coloniae civium Romanorum e coloniae Latinae: queste ultime, generalmente situate nell’entroterra, costituivano in origine e fino alla sua dissoluzione, un’emanazione tipica della lega latina, che Roma continuò ad adottare conservandone il nome di colonie latine. Con una consistenza demografica oscillante tra i 2000 e i 6000 coloni, si trattava, in effetti, di nuclei urbani che godevano di un apprezzabile grado di autogoverno: sempre deprivato, però, di qualunque potestà nel campo delle relazioni esterne, con l’obbligo di rifornimento di unità militari in favore di Roma, in base al numero dei propri iuniores. Peraltro, in virtù del loro status qualificato, i Latini coloniarii, in generale beneficiavano del commercium, del conubium e del suffragium (qualora fossero stati presenti a Roma in un giorno di voto)36.
15Le coloniae civium Romanorum, anche dette coloniae maritimae a causa della tradizionale disposizione litoranea, rappresentarono piccoli nuclei cittadini, fondati con un numero standard di 300 coloni, con la specifica funzione della difesa delle coste, come evidenziato dai primi tre casi tradizionalmente attestati di Ostia, Anzio e Terracina37. I coloni mantenevano a tutti gli effetti la cittadinanza romana e, di regola, erano esonerati dal servizio militare38.
16Esiste ed è noto in materia un problema considerevole di anticipazioni di eventi, legato agli stili e all’atteggiamento generale all’annalistica romana: già Romolo avrebbe dedotto alcune colonie, stando ai racconti di Dionigi di Alicarnasso e di Livio39. Si è parlato, in proposito, di «pseudostoria dell’età regia»40 a causa delle tendenze che già si vorrebbero proprie dei protagonisti di queste vicende, quale segno distintivo di una certa quale ideologia e, per quanto ad esempio gli studi sui parallelismi tra colonizzazione etrusca e romana abbiano aperto una breccia su certe concezioni troppo rigide sul periodo monarchico41, sembra non potersi negare che «le narrazioni sulle fasi più antiche della storia di Roma vennero svolgendosi, nel quadro della storiografia romana, dalla fine del III secolo a.C. all’età augustea con un processo di continuo arricchimento»42.
17Del resto, il complesso di circostanze in cui si realizzò il foedus Cassianum deve aver fornito a Roma, e a prescindere dalla precisa portata dello stesso, un’esperienza giuridico-politica di notevole livello43. Il trattato, infatti, sembra aver prodotto una colonizzazione comune di Latini, Ernici e Romani44, o, perlomeno, una serie di insediamenti strategici volti alla difesa dagli attacchi dei Volsci e degli Equi45, che, nel contestuale conflitto, avevano subito notevoli perdite territoriali46.
18La deduzione delle colonie, in questo periodo, potrebbe essere intesa come il prodotto di una politica comune federale tra i Romani, i Latini e gli Ernici, fatta salva l’esigenza di quelle puntualizzazioni (come per i casi emergenti di Signia, Velitrae, Norba) che già mettono in luce, per l’età arcaica, il ruolo di punta svolto da Roma e che impediscono, quindi, il disegno di un quadro generalizzante47. Un quadro che, all’indomani della vittoriosa guerra latina, Roma avrebbe potuto modificare, ma che, tutto sommato, si astenne dal fare. Al contrario, e a parte trattamenti riservati a situazioni peculiari, la sperimentata efficacia delle colonie latine come baluardi militari, offrì a Roma l’opportunità preziosa di conservarne il ‘modello’ che, in qualche modo servì quale essenza di un rinnovato nomen Latinum, calco per la formazione di altre colonie che, «dovendo la loro esistenza solamente a Roma, l’avrebbero aiutata a mantenere il suo predominio»48. Ed è in effetti propriamente sul finire del IV secolo che si delinea in modo chiaro la differenza tra colonie romane e colonie latine49.
19La fondazione di colonie latine proseguì infatti con le modalità del tutto analoghe a quelle attuate in precedenza.
20I coloni che popolano queste nuove colonie perdono la loro cittadinanza d’origine, e, come più volte attestato, ciò avviene per scelta volontaria50.
21Ciascun individuo, cioè, entra a far parte di un’altra città, una nuova entità urbana autogovernata, i cui cives condividono la sfera dei diritti privati con quella dei cittadini romani: ma, certo, ciascuna colonia elegge propri magistrati, impone propri tributi, amministra la giustizia e mantiene un proprio corpo armato di sicurezza51.
22Senza dubbio la forma coloniaria contribuì non poco alla formazione, nella parte centrale della penisola, di una collettività che si andò facendo comunità52. Essa, così come trovava nel latino un idioma standard, che avrebbe finito per cancellare le altre lingue originarie, individuò nello ius civile di Roma uno strumento unificante ideale per la cura dei propri assetti giuridici53.
23D’altra parte, se il ruolo originariamente concepito per queste colonie riguardò l’aspetto bellico (in vista del consolidamento dei territori da poco conquistati e ostili, o, forse in funzione di presidii militari, ‘teste di ponte’ per l’ulteriore espansione), fu però la costruzione, la diffusione e la crescita di una rete di città autoamministrantesi che godevano delle terre via via assoggettate a costituire ben presto l’attrattiva maggiore dal punto di vista sociale.
24La ‘romanizzazione’ della penisola così concepita altro insomma non sarebbe stato che il graduale diffondersi del modello cittadino ‘impostato’ da Roma54, sebbene la piena consapevolezza di questa politica non sia dimostrabile come scopo principale dell’oligarchia romana55.
25Sull’idea in sé di romanizzazione, connessa al propagarsi delle colonie, non sono mancati interventi della critica tesi a sottolineare la strettissima relazione esistente tra i due fenomeni, e di come i primi centri siano in definitiva considerabili come veri focolai di detta romanizzazione, cui aveva giovato la derivazione dal modello coloniale latino che i Romani, però, avevano plasmato fino ad ottenere uno strumento flessibile ai bisogni di utilizzazione e di controllo del territorio, ancor oggi caratteristico di certo tipo di paesaggio mediterraneo56. Inoltre, un altro aspetto della matrice della propagazione urbana attraverso coloniae Latinae, deve essere considerato centrale per la valutazione del fenomeno57. Si tratta, chiaramente, delle motivazioni di natura sociale che avevano mosso, per così dire, ‘dal basso’ un tale meccanismo; con il che non vengono rinnegate le finalità di carattere politico-militare, per cui, certo, le colonie esplicavano una funzione di controllo dei territori ‘sottomessi’ da poco ed erano dedotte nei punti chiave delle regioni di recente conquista.
26Ma non minore considerazione paiono meritare gli obiettivi di tipo economico-sociale sperati (e raggiunti) da parte di numerose famiglie plebee più povere, con l’agognato accesso alla terra che le assegnazioni coloniarie garantivano58. E per questa lettura, se si vuole, depongono i dati contingenti relativi alla notevole quantità di colonie latine dedotte da Roma in uno spazio temporale relativamente breve (ultimo trentennio del IV sec. - prima decade del III a.C.), alla loro dimensione demografica e delle parcelle fondiarie, tanto da aver generato significativamente, nelle parole di Livio, un chiaro desiderium plebis59.
27Roma, come anticipato, durante quest’arco temporale fondò anche coloniaecivium Romanorum; ma il loro numero, rispetto alle Latinae, fu notevolmente più basso, ciò che induce anche a riflettere sulla minore importanza e sull’utilizzazione di questa formula da parte dei Romani, precipuamente per obiettivi di difesa strategica.
28Del resto, il carattere meramente militare delle colonie in questione si desume dal fatto che furono fondate soltanto lungo le coste, come ad Ostia o ad Antium e le altre dedotte di lì a poco (tutte sul litorale tirrenico) divennero vere e proprie ‘fortezze’ militari60; non a caso i coloni sono nominati dalle fonti coloni maritimi e le coloniae qualificate maritimae61: dal momento che i coloni, cives Romani, dovevano svolgere il ruolo specifico di guardiani delle coste e difensori in caso di attacco via mare, godevano della vacatio militiae et rei navalis,cioè erano esonerati dal prestare servizio nelle legioni e nella flotta62.
29Naturalmente se si unisce a ciò anche il fatto che le guarnigioni erano composte da soli trecento uomini, e la terra assegnata a costoro era relativamente poca, solo i ‘rinomati’ due iugeri63, si comprende perché i cittadini romani mostrarono un’avversione nei confronti del ‘reclutamento’ richiesto per la deduzione di tali colonie, che è ben attestata da Livio64 e che contribuisce a mettere in chiaro un ulteriore punto distintivo in seno alla classificazione delle colonie di cittadini romani e di quelle cosiddette Latinae.
3. Linee di sviluppo ulteriore
30Ora, come visto, il disegno di questo particolare tipo di ‘colonizzazione’ già dalla fine del IV sec. poteva dirsi avviato e praticato in modo preciso dalla saggezza politica dei Romani. Proprio in base a questo spirito di ordine pratico, nell’età medio-repubblicana ed oltre, Roma proseguì nell’organizzazione dell’assetto territoriale, principalmente con la diffusione di centri urbani quali i municipi e le colonie (latine). Queste due diverse tipologie cittadine conobbero, in fasi diverse, articolazioni differenti, che rispondevano però sempre a esigenze concrete65. Necessari sarebbero, ovviamente, l’esame degli esiti relativi alla vittoria nelle guerre puniche e, di conseguenza, una valutazione sulla struttura organizzativa provinciale successiva ad esse, in virtù delle prime esperienze maturate in Sicilia e in Sardegna, poi messe a frutto a partire dalle realtà territoriali spagnole66; dei rapporti con la crisi della repubblica67, dei condizionamenti del primo impianto provinciale sulla gestione nell’età del principato68; di quanto risultassero di poi radicati gli assetti cittadini nell’impero e sulla diffusione del ‘diritto latino’69. Ma i limiti collegati alla sede presente non permettono, oltre che per cenni, l’esame dei vari passaggi che condussero alle situazioni d’epilogo di età imperiale; della forma di ‘soggettività giuridica’ (per usare un’espressione impropria, ma efficace70) da sempre riconosciuta alle colonie latine; di come, in particolare, l’estensione del diritto latino ad ampie zone dell’impero, che ebbe come punti di riferimento giuridici (più o meno lontani) l’esperienza del foedus Cassianum, quella degli esiti del bellum sociale, l’impianto sistematico delle colonie latine sul territorio e dei municipi latini nel principato, presenti ancora zone d’ombra meritevoli di indagine71.
31La nascita delle colonie, infatti, non implicò solamente operazioni di tipo fisico (già di per sé rilevantissime) come la fondazione di un nucleo materiale da abitare o la centuriatio. Le città romane comportarono la strutturazione costante di un’architettura politica che ne segnò in modo indelebile un percorso di ordinata salute civica.
32In definitiva, il modello riprodotto era quello dell’Urbe, con due (o quattro) magistrati nelle cui mani era concentrato il potere esecutivo, una curia di senatori locali (decurioni) ed un’assemblea popolare. Ma, evidentemente perché situati all’interno di un sistema più piccolo, i meccanismi che vi si generavano erano spesso di tipo virtuoso, come insegnano le dinamiche dell’evergetismo politico, ma anche la disponibilità dei servizi e delle infrastrutture72.
33Roma, inoltre, sin da subito provvide a dotare gli appartenenti alle colonie di status differenziati in rapporto al godimento della cittadinanza, che consentiva la stessa partecipazione politica ai “cittadini locali”, ma che comunque garantiva un grado altamente apprezzabile di autonomia alle comunità.
34Molti tra gli imperatori si adoperarono in modo consistente per essere ricordati come fondatori (o ri-fondatori) di città, o patroni delle stesse. Vi furono (e sono in parte noti) energiche e motivate richieste di transizione da uno status cittadino all’altro, come nei casi di Praeneste (che da colonia ottenne di tornare ad essere un municipio con Tiberio) o di Italica (da municipio a colonia sotto Adriano) e, ancora, di Canosa (da municipio a colonia), sempre nel II sec. d.C.: l’Editto di Caracalla73, con la concessione a tutto l’impero della cittadinanza romana rappresentò una sorta di livellamento delle diverse articolazioni e un passo rilevantissimo di quella certa forma di ‘romanizzazione’ che l’urbanizzazione portava naturalmente con sé74.
35Aveva evidentemente ragione Filippo V di Macedonia quando, nel 214 a.C., in una delle lettere famose indirizzata ai Larissei, aveva sottolineato alcuni segreti, a suo dire, del successo del popolo romano:
36... Se i cittadini di pieno diritto saranno nel numero più alto possibile, la vostra pólis sarà forte e i vostri campi non rimarranno incolti, come sono ora per vostra vergogna. Questa è la meta cui dovete mirare, e io penso che nemmeno fra voi si udirà una sola voce contraria. Voi avete avuto modo di osservare altre comunità che seguono una politica liberale nell’estensione della cittadinanza. Un buon esempio è quello di Roma: quando i Romani affrancano i loro schiavi li ammettono in seno alla loro cittadinanza e consentono loro di accedere alle cariche pubbliche. Grazie a questa politica, essi non hanno soltanto reso più grande della patria, ma sono anche riusciti a inviare colonie in poco meno di settanta località75.
37Dedizione all’agricoltura, allargamento della cittadinanza, assimilazione dei liberti, diffusione dei nuclei urbani sul territorio: aspetti che evidenziano funzioni proprie dello strumento coloniario. Si tratta di un testo molto conosciuto e, in realtà, spesso richiamato76, ma del quale non di frequente si segnala la proliferazione di colonie come segno estrinseco della prosperità di un popolo77. Nel giro di pochi anni, ormai battuto e con poche speranze, Filippo avrebbe stretto un’alleanza con i Romani; con la sconfitta del figlio Perseo a Pidna, si sarebbe poi compiuto il mezzo secolo, o poco più, occorso a Roma per la sua «conquista del mondo», secondo la visione di Polibio78. Era nato un ‘impero’, ma per avere un ‘imperatore’ Roma avrebbe atteso altri 140 anni79.
4. Politica coloniale italiana e ‘mito di Roma’
38Molti altri anni sarebbero passati prima che un giovane regno d’Italia cercasse (e trovasse) un sostegno di matrice anche culturale80 per le proprie velleità coloniali81.
39La grandezza di Roma era lì, in effetti già costitutiva di una porzione importante della teoria risorgimentale del riscatto nazionale82. Com’è noto, alle tre diverse ondate di espansione coloniale in cui, a grandi linee, si può sintetizzare la politica italiana di ampliamento territoriale, corrisposero riferimenti anche ufficiali ad un’idea di ‘missione di cilviltà’83, legata all’impronta lasciata da Roma nella storia, che, se certo non furono d’impulso per la mera progettazione militare delle differenti imprese, giocarono però un ruolo non indifferente quanto alla maturazione delle visioni espansionistiche nell’intellighenzia dell’epoca e, ciò che più conta, alla formazione della coeva opinione pubblica84.
40In tutte e tre le ‘grandi’ spedizioni belliche85, le due nel Corno d’Africa (la prima86, sul finire del XIX sec., e la seconda87, di 50 anni posteriore) e quella per la conquista della Tripolitania e della Cirenaica (dal 1911)88, non mancarono richiami anche forti e (soprattutto) ricchi di suggestione alle novelle imprese italiane quali naturali prosecutrici delle gesta di Roma. Se ne possono già cogliere gli echi a partire dal formale pronunciamento del ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini, al momento dell’acquisizione della baia di Assab, «primo lembo d’Italia in terra d’Africa» (1882)89: afflati di romanità che ben potevano cogliersi già nelle parole di Francesco Crispi, precedenti di più di vent’anni la prima missione ufficiale eritrea, ma nelle quali erano lumeggiati anche dal punto di vista culturale gli auspici delle mire espansionistiche italiane90.
41Esemplarmente distanti quanto a discendenza accademica e orientamenti politici, le vicende e i convincimenti scientifici di grandi antichisti, quali Ettore Pais (1856-1939)91 e Gaetano De Sanctis (1870-1957)92, mostrano singolari e significativi punti di contatto proprio relativamente alla necessità dell’impresa coloniale93. L’uno legato alla scuola del Mommsen, il secondo a quella del Beloch (con tutto ciò che ne consegue, quanto all’interpretazione delle fonti e ad impostazione storiografica94), anche colleghi (per un breve periodo) nella Facoltà di Lettere di Roma, il De Sanctis fu costretto a lasciare l’insegnamento nel 1931 per non aver voluto giurare fedeltà al fascismo95. Ma egli non ebbe a rinnegare l’appoggio fornito alla ‘causa colonialista’: gravi sentimenti avevano scosso il suo giovane animo in occasione delle disfatte di Dogali e di Adua (come sottolineato in uno scritto autobiografico apparso postumo96), che si erano riaccesi e fortificati, agli inizi degli anni ’10, nel prevalere delle contingenze storiche proprie della vigilia della guerra per il controllo della Libia97. Lo stesso sostegno si poteva riscontrare, corroborato da convinto vigore di studioso e di senatore di nomina regia98, dalle proposte e dalle affermazioni espresse dal Pais99, in una con i paralleli tra antico e presente, che facevano perno sulla sua specifica e profonda conoscenza della colonizzazione in età imperiale100.
42Peraltro, come noto, il grande ‘sdoganamento’ culturale e morale nei confronti delle guerre coloniali era passato attraverso il celebre discorso tenuto da Giovanni Pascoli101 a Barga il 26 novembre 1911 per commemorare i caduti della contemporanea impresa libica ed in favore, ovviamente, delle aspirazioni territoriali del Regno, nel cinquantenario della sua agognata unità. La visione del Pascoli, per la verità in contrasto con quella del maestro, Giosuè Carducci102, ben si conciliava con il colonialismo demografico ed agricolo riconosciuto quale proprio del popolo romano e che infatti non tarderà a sollecitare proprio quei «doveri di colonizzazione africana, comandati dalla storia di Roma»103.
43Si deve però ammettere che sarebbe stata la nascita dell’impero, solennemente proclamata il 9 maggio del 1936 a seguito della vittoriosa campagna etiopica, a far risaltare nettamente la stabilizzazione dell’appoggio all’azione politica del tempo, in un modo che ancor oggi può esser rilevato, di parte considerevole degli studiosi del mondo antico104. Si trattò di un fenomeno ben noto e sul quale si è molto indagato105. Certo, molto era accaduto nel venticinquennio precedente: l’Italia ‘giolittiana’ era diventata ‘fascista’, passando per i lutti della Grande Guerra che, pur vittoriosa, aveva lasciato in molti la delusione per le aspettative territoriali frustrate a Versailles106. Ma, per quanto in questa sede soprattutto rileva, la Grande proletaria si era mossa.
44Ebbene, è possibile affermare, come in effetti è stato fatto, che il supporto fornito dagli antichisti alle imprese coloniali si limitò, in quella temperie culturale, ad un impegno di carattere «ideologico»107. Il regime, cercando di conferire una più elevata dignità alle rinnovate ambizioni coloniali, aveva individuato nel richiamo ai colli fatali di Roma «una patente di nobiltà storica ed etica»108 e nel suo diritto una riconosciuta forza di legittimazione109. Furono all’uopo posti in risalto tutti i volti negativi del mercantilismo di matrice cartaginese110, in opposizione al colonialismo agricolo e con prevalenti fini demografici proprio dei Romani111. Secondo i valori tradizionali della società romana antica, infatti, la ricchezza accumulata con il commercio non era ben vista: di più, agli occhi dell’opinione pubblica riceveva sicuramente una valutazione negativa. Esisteva cioè un pensiero dominante in base al quale tutte le occupazioni che mirassero al puro lucro fossero di per sé disdicevoli: Roma, si affermava, nasce e prospera ‘con la terra’. Di conseguenza era radicata nella società una vera e conformistica esaltazione della proprietà fondiaria e dell’attività agricola come propria del civis112.
45Quanto poi all’apporto fornito dal diritto romano e, in modo più specifico, dall’opera dei giusromanisti, si tratta di un tema complesso, cui si può tentare di far cenno partendo da un dato: il diritto romano, che aveva attraversato l’età intermedia quale antonomastica rappresentazione del diritto di natura o di ragione113, era stato nel tempo modellato secondo le più varie esigenze114. Elaborato in un’epoca ben precedente rispetto all’affermazione degli stati nazionali, si presentava in effetti come un diritto «senza tempo né spazio»115, per cui alcuni tra i suoi cultori si distinsero per un impegno latamente politico o propriamente tale.
46Vittorio Scialoja (1856-1933) è un esempio appartenente a tale ultima categoria. Giurista insigne116, senatore fin dal 1904, più volte ministro (e con incarichi di spicco117), occupò sicuramente posizioni di vertice al momento di portare a termine importanti compiti in relazione a problemi di natura giuridica nelle colonie: fino ad integrare118, e poi presiedere, la commissione che arrivò a varare, nel 1909, il codice civile per l’Eritrea119 (in effetti mai entrato in vigore per difetto di traduzione nelle lingue locali120).
47Ma qual è il peso da assegnare alla sua affermazione, rimasta celebre, relativa alla «gloriosa applicazione del diritto romano»121 nelle colonie? Quanto è qui il giurista a parlare o, piuttosto, il politico che, in modo pragmatico, ebbe più tardi ad esporre un programma in cui realisticamente si prendeva atto delle condizioni di vita nei domini transmarini122, o, ancora di colui che non mancava di esprimere dubbi sull’eventuale ed ulteriore espansione coloniale per «le inevitabili e ingenti spese a cui si andrebbe incontro»123?
48Evaristo Carusi (1866-1940), accademicamente nato quale romanista124, fu scientificamente125 e civilmente126 attratto dall’‘affaire’ coloniale. Nel 1919 è il primo docente italiano ad esser nominato ordinario di Diritti orientali e mediterranei, quattro anni più tardi ottiene, per incarico, l’affidamento del Diritto musulmano127, e arriva a sostenere un sistema di comparazione giuridica il cui asse di riferimento abbia la propria identificazione nei rapporti tra il diritto romano e i diritti dell’Oriente mediterraneo, indagati a partire dal profilo storico128.
49La proposta comparatistica del Carusi, nei confronti della quale, in un certo senso, non mancheranno di manifestarsi fautori nel tempo129, sarà osteggiata (e affossata) da Pietro de Francisci (1883-1971)130, altro storico del diritto romano di grande levatura, rettore dell’Ateneo di Roma, che nel suo notevole cursus honorum arrivò ad essere alla guida, per poco meno di un triennio (fino ai primi di gennaio del 1935), del dicastero di Grazia e Giustizia: nel presumibile momento di progettazione da parte dei vertici del regime della guerra d’Etiopia, se non proprio alla sua vigilia131, in una congiuntura evidentemente molto delicata, in cui de Francisci non soltanto non ridusse il suo impegno politico, ma si prodigò entusiasticamente nella proposizione di un modello consapevolmente continuistico tra passato e presente132, francamente fondato «sull’essenza della civiltà creata da Roma», in contrapposizione netta con le ideologie democratiche e liberali i cui promotori, nel tempo «erano stati costretti ad arrestarsi, come davanti ad un mistero, dinanzi alla originale singolarità, per loro inafferrabile, dell’anima romana»133. L’adesione al fascismo di de Francisci, come mostra uno studio recente134, fu serena e convinta: ma davvero non è possibile tenere in considerazione la relazione tra le asserzioni testé riferite e la nuova volontà del regime che faceva ora perno sull’imperialismo militare in Africa e la correlata esportabilità della dottrina fascista?
50Esiste cioè, come è chiaro, un problema di fondo, che è qui possibile solo indicare, sul livello di legittimazione retorica utilizzata dal fascismo ed operata per mezzo della scienza del mondo antico e dei suoi cultori (e quindi anche del diritto romano)135: ed è ben noto che le stesse categorie giusromanistiche spesso siano state piegate alle esigenze del contesto storico da chi romanista in realtà non era e contro i dettami del diritto romano.
51È il caso dell’occupazione delle res nullius come fattore legittimante delle conquiste delle potenze occidentali, vero atout giuridico del colonialismo europeo all’indomani della Conferenza di Berlino del 1885, ma che dovette le sue fortune già soprattutto all’energico favore espresso da John Locke136 e da Emer de Vattel137 tra XVII e XVIII secolo. Il fatto che l’occupazione delle res nullius costituisca in effetti una tra le modalità d’acquisto a titolo originario della proprietà per il civis138, non fa sì che risulti, per altro lato, essere il fondamento delle guerre tra popoli che, al contrario, necessitavano secondo i Romani di precisi atti rispondenti ad un diritto ritenuto condiviso139.
52Ad ogni modo, anche per questa via impropriamente riconducibile al diritto romano, emerge in modo palese come il conflitto coloniale non fosse, in assoluto, reputabile come una relazione tra pari. Esempio ne è, per l’Italia, la mancata dichiarazione di guerra all’Etiopia e la relativa aggressione armata del 1935140. La discriminazione razziale sottesa (e che ne seguì) ebbe l’appoggio cospicuo dei mezzi di informazione dell’epoca141 e, quel che è più grave, di un numero consistente di giuristi che, spesso, si trincerarono dietro il formalismo della specialità del diritto coloniale142. Non fu indenne da macchie la scienza romanistica143, seppur a volte impropriamente rappresentata144, ma va sicuramente segnalata la felice eccezione costituita dal pensiero di Giorgio La Pira145.
53Dell’impero, tornato «sui colli fatali di Roma»146, non poté mancare anche una materiale rappresentazione artistica, realizzata attraverso una tavola marmorea, la V, che completava la serie di quelle ancora visibili in via dei Fori imperiali e che fu solennemente inaugurata in coincidenza con il XIV anniversario della marcia su Roma147.
54Anche su questi presupposti, l’assunzione organica del modello romano come base dottrinale del colonialismo si compì agevolmente; le sue peculiarità impedirono, però, per tratti distinti e per evidenti ragioni148, la concezione di una comune linea ideologica italo-tedesca149. Ma ‘dettagli’ del genere non avrebbero potuto certamente sbarrare il passo ad Ernst Kornemann, proprio l’estensore della voce coloniae per la Pauly-Wissowa150, nel momento di chiudere, quale portavoce di tutti gli studiosi stranieri, il grande convegno per le celebrazioni del bimillenario augusteo151, il 27 settembre del 1938152.
55Sembra allora potersi confermare, per le colonie di Roma ed il loro destino, l’insegnamento secondo il quale una storia di parole nasconda in effetti una storia di cose153. Roma, del resto, nata forse come una colonia di Alba154, detto status avrebbe fittiziamente recuperato per breve tempo quando, sul finire del II sec. d.C., le era stato imposto, per volere dell’imperatore, il nuovo nome di Colonia Commodiana155. In questo senso le colonie avevano travalicato, nel lungo periodo, la funzione di propugnacula imperii attribuita loro da Cicerone156, cogliendo un’affermazione e guadagnandosi un ruolo rivolti a divenire parte integrante del tessuto dell’ecumene mediterranea157.