Zeitschrift Rezensionen

Rezensiert von: Arduino Maiuri

Aglaia McClintock, Storia mitica del diritto romano Società editrice il Mulino (= Collana del Centro di Antropologia del Mondo Antico dell’Università di Siena, a cura di Maurizio Bettini, 13) , Bologna 2020, 240 p., ISBN 978-88-15-28607-9

1Il volume, presentato il 23 giugno 2021 presso il Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo della “Sapienza” Università di Roma, con interventi dei discussants Giorgio Ferri, Arduino Maiuri e Alessandro Saggioro, della curatrice Aglaia McClintock e degli autori Maurizio Bettini e Luigi Garofalo, coordinati da Gianluca De Sanctis, si fa notare per una serie di pregi di cui è difficile rendere conto adeguato in una recensione ordinaria, per quanto programmaticamente dettagliata. Occorre subito dire che la trasversalità dell’approccio costituisce una delle note centrali: storia, mito e diritto dialogano proficuamente in ciascun contributo, offrendo prospettive di ricerca nuove e originali, anche rispetto a una tradizione di studi già ricchissima, come quella dei rispettivi ambiti disciplinari. Questo habitus critico, fertile, innovativo è emerso spontaneamente anche in occasione della presentazione del volume, in cui il gruppo di ricerca ha prospettato le sue prossime iniziative, sia a livello editoriale che congressuale, nel chiaro intento di consolidare il dialogo tra storici delle religioni, giuristi ed antropologi, già foriero di risultati così concreti e significativi.

2La nota introduttiva (Storie, luoghi e istituzioni, pp. 7-18), curata da Aglaia McClintock, evidenzia i punti sensibili sviluppati all’interno del testo: anzitutto la sua essenza di fondo, ovvero il comune denominatore di «favole per giuristi» (p. 17), dal momento che ciascuna delle storie presentate sintetizza e rappresenta una fase essenziale dei primordia civitatis. Illustra compiutamente tutto ciò la scaletta di p. 10, che raggruppa le sezioni interne secondo questa organica scansione: l’analisi procede dal primo matrimonio al primo ius commercii, quindi il primo processo penale, e così via il primo divieto di sepoltura, la prima damnatio capitis, la prima legge scritta, con il relativo processo privato, e il primo ricorso del popolo al sapere giuridico. Viene giustamente rilevato che le leggende analizzate risultano accomunate dai due tratti essenziali della tradizionalità e significatività (corsivo dell’A., p. 9): nel primo caso perché ovviamente entrano a far parte del patrimonio popolare della civiltà romana; nel secondo perché gli eventi narrati, non di rado orridi, anzi raccapriccianti, hanno una funzione rasserenatrice, poiché la tutela del ius di fatto garantisce anche quella della civitas, consentendo così di fronteggiare con la massima efficacia sia i pericoli esterni che interni.

3Il contributo di Maurizio Bettini (Sposare una Sabina, pp. 21-40) indaga il racconto mitico del ratto delle Sabine secondo la chiave di lettura del funzionalismo, che spiega il significato del fatto storico secondo quanto sia effettivamente riuscito a produrre. Un risalto speciale viene conferito al forte legame tra il discorso indiretto con cui Romolo esorta le Sabine a concedersi agli sposi (Liv. I, 9, 15: mollirent modo iras et, quibus fors corpora dedisset, darent animos, «calmassero ora la loro rabbia e donassero la vita a coloro ai quali la sorte aveva assegnato i loro corpi») e il valore giuridico della adfectio o mens maritalis, ovvero il consensus parentale, necessario a definire le iustae nuptiae (p. 23). Un tratto che va subito posto in rilievo riguarda la straordinaria apertura alla celebrazione del matrimonio tipica della mentalità romana, coerentemente con la sua attitudine espansionistica, destinata ad affermarsi nel tempo: secondo la calzante definizione di John Scheid la donna sabina è una «indispensabile straniera»1. L’aspetto rituale è quello più curato, anche e soprattutto in virtù del suo taglio deterministico: il cerimoniale era contrassegnato dal dativus commodi «Talasio!», urlato per sottolineare che la più bella delle donne sabine spettava al cittadino più ragguardevole (Plut., Rom. 15, 3), con l’aspetto sonoro che giocava un ruolo determinante. I seni crines dell’acconciatura della sposa andavano tracciati con la punta di una lancia, mentre Festo (p. 364 Lindsay) e Catullo (61, 56-60, max. 58-59: a gremio suae/ matris) documentano che la donna andava simbolicamente sottratta al grembo materno, come «rievocazione ritualizzata del ratto primitivo» (p. 25). Un altro aspetto nodale cui lo studioso conferisce il debito risalto è l’inclusione del ratto nella categoria elettiva del charter myth, la «carta di fondazione» (p. 27). Il dato si ricava dallo status della matrona, guarnito di rispetto ed attenzioni speciali, come l’esenzione dai lavori domestici (Plut., Rom. 19, 7: significativamente l’unica eccezione è costituita dal lanificium, attività dall’indubbio risalto simbolico), il divieto di pronunciare in sua presenza espressioni improprie, l’obbligo di cederle il passo, la proibizione più assoluta di mostrarle parti intime del corpo, pena la denuncia ai tribunali degli omicidi. L’episodio costituisce un “mito”, possedendo i tratti necessari per l’attribuzione di tale definizione: è tradizionale perché risponde al mos, essendo attestato fin dal pater dell’epica latina, il poeta Ennio (Ann. 98 Skutsch); inoltre risulta significativo per la sua stretta connessione con i riti e i costumi della civiltà romana. In tal senso i due paragrafi successivi pongono le basi per definire al meglio il piano giuridico e civile. Anzitutto vengono presentate due leges regiae, attribuite rispettivamente a Romolo e Tito Tazio la prima, comminante la sacertas alla nuora (nurus) rea di aver picchiato il suocero o la suocera, e a Servio Tullio la seconda, che prevede lo stesso procedimento contro il figlio che percuote i genitori (Fest., p. 260 Lindsay). Chiaramente la situazione peculiare dello stato romano in via di formazione rende necessario un atteggiamento severo e intransigente, in grado di stornare i comportamenti difformi rispetto alla voluntas regia. In perfetta coerenza, come si è avuto modo di accennare, il paragrafo seguente sottolinea la «curvatura civica» (p. 30, il corsivo è dell’A.) della cultura romana. I punti enucleati sono la «cosmogonia», la «teogonia», l’«antropogonia» e la «gynaikogonia», raro conio semantico riferito nello specifico all’argomento in oggetto. A Roma, infatti, diversamente che in altre realtà, comunque misogine (basti pensare alla Pandora esiodea o all’Eva biblica), non c’è una definizione specifica della donna come entità a sé stante, ma del suo specifico ruolo matronale. E non solo, ma mentre le altre civiltà ordinariamente la reputano una causa di mali e sofferenze per l’uomo, questo discorso non vale per la matrona romana, che gode di diritti e prerogative speciali. Gli ultimi due paragrafi del capitolo si soffermano, rispettivamente, sul’aspetto toponomastico e su quello più squisitamente normativo, rimontando così alle origini dell’istituto matrimoniale. Servio (ad Verg. Aen. VIII, 636) riferisce che Romolo organizza la corsa di cavalli per invitare i Sabini in occasione dei Consualia: in quello specifico frangente assumono un ruolo decisivo tre dei certi, vale a dire Consus, Murcia e Venus Verticordia. Del primo Plutarco, Servio, Festo, Tertulliano e Arnobio rilevano la connessione con il cons-ilium, quindi la sua qualità eccelsa di nume ispiratore (p. 33, n. 39); anche la seconda divinità ha un ruolo capitale, condizionando un habitus nimis desidiosus e inactuosus («un contegno assai accidioso e inattivo»: l’attributo murcida in effetti vuol dire proprio «inoperosa»; cfr. Th.l.L. VIII, 1670, 33 ss.); e la terza mostra nel suo stesso nome la capacità di vertere corda («muovere i cuori»), ancora una volta in ossequio ad un chiaro intento suasorio. Le conclusioni raccolte vengono affidate ad una sezione a sé (La violenza e la fondazione delle regole, pp. 35-38), che ha il pregio ulteriore di sottoporre all’attenzione del lettore un interessante spunto finale, potenziale viatico di un futuro, originale approfondimento: Virgilio (Aen. VIII, 635) parla di raptas sine more Sabinas, e cioè di «Sabine rapite al di fuori della regola». Ora, l’intuizione è che, «quando Virgilio definisce sine more “privo dei costumi” il rapimento delle Sabine, in realtà stia affermando qualcosa di molto più profondo di come potrebbe apparire. In quella circostanza, il comportamento dei Romani era da considerarsi “senza i costumi” (sine more) semplicemente perché i mores matrimoniali a Roma non esistevano – corsivo dell’A. –, dovevano ancora essere fondati. La storia del matrimonio romano cominciava allora» (p. 38). La proposta risulta particolarmente persuasiva: sine more non indica qualcosa di illegale, contrario alla norma, ma di novus, ossia l’introduzione di una trasgressione necessaria per l’attivazione di un fenomeno ancora non contemplato nel panorama giuridico e sociale di Roma antica. Un «momento bianco» (p. 37) rapportabile agli albori dell’umanità, in cui uomini e donne erano consanguinei e l’incesto, poi giudicato nefas, era di per sé inevitabile (Aug., De civ. Dei XV, 16). Il fulmen in clausula dell’epilogo costituisce l’exitus spontaneo di uno studio che spicca per la sua densità: ogni paragrafo offre spunti di notevole respiro e meriterebbe di essere sviluppato in trattazioni più complesse e articolate, in nome del criterio comunicativo trasversale che costituisce il pregio essenziale di questa lodevole iniziativa editoriale.

4Cristiano Viglietti (Ercole, Caco e il commercio nel Foro Boario, pp. 41-64) si sofferma su due realtà basilari delle origini di Roma, ossia quella mitica e prosopografica da un lato, sostanziata da due protagonisti in positivo e in negativo, quali furono l’eroe e il ladro per eccellenza agli albori della civiltà, e quella topografico-economica dall’altro, dedicata alle attività commerciali e ai luoghi specifici in cui si svolgevano. Già questa contestualizzazione rende il lavoro originale, poiché l’aspetto mitico trova il suo pendant in quello economico, in un dialogo fertile e interattivo. Può essere utile notare, in proposito, come proprio al termine della ricerca (p. 60, n. 84) venga offerta una nota illuminante, ossia il richiamo, già evidenziato da Mario Bretone, al passo ulpianeo di Dig. I, 3, 41 (totum ius consistit aut in adquirendo aut in conservando aut in minuendo: aut enim hoc agitur, quemadmodum quid cuiusque fiat, aut quemadmodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet aut amittat, «tutto il diritto consiste o nell’acquistare o nel conservare o nel subire una perdita: quel che interessa, infatti, stabilire è in che modo qualcosa divenga di qualcuno, o in che modo qualcuno conservi una cosa o una posizione giuridica, o in che modo la alieni o la perda»)2. Il mito di fondazione del Foro Boario rappresenta così il punto di partenza dell’indagine. Come il suo stesso nome lascia intendere, sono i capi di bestiame (lat. boves) a dare il nome all’area compresa tra Palatino, Campidoglio ed Aventino, in cui Ercole sverna dopo la decima fatica, compiuta ai danni del gigante Gerione: il brigante Caco, infatti, li ha sottratti e li tiene nascosti, ma un muggito ne rivela la presenza all’eroe, che interviene, li recupera e uccide il ladro. Il re Evandro, anch’egli straniero, lo ringrazia e gli dedica gli onori dell’ospitalità (ξενία), mentre a sua volta Ercole nel luogo dell’uccisione edifica l’Ara Maxima, a fini catartici e commemorativi. Questo, naturalmente, è il resoconto trasmessoci dalle fonti, ma il merito dell’A. è avervi letto e rinvenuto degli spunti utili sul piano comparativo. In particolare, viene giustamente accolta la definizione di «port of trade» già riservata al Foro Boario da Karl Polanyi nel 1963 (p. 49, n. 42 e s.)3, avvalorata dall’ubicazione del punto proprio all’incrocio tra due direttrici fondamentali, la via Campana e la via Salaria, percorse per il trasporto del sale dall’area ostiense al guado tiberino fino all’entroterra sabino. La compravendita dei bovini sarebbe quindi il tratto caratteristico dell’area considerata, come attesta il quarto paragrafo (Scambiare «res mancipi» tra stranieri nella Roma arcaica, pp. 52-55) attraverso puntuali annotazioni giuridiche, come la distinzione tra res mancipi (e mancipatio) e res nec mancipi (e traditio), all’interno delle quali vengono fatti rientrare, oltre agli schiavi, anche i capi di bestiame, per una trasmissione più agevole. Come ha dimostrato Mario Torelli4, il culto di Ercole nel Foro Boario si caratterizza per uno spiccato valore sincretico, garantendo un’utile affinità ad etnie altrimenti non tacitamente assimilabili, come quella greca, punica o sabellica. Il riferimento ad una tesi recente e originale di Filippo Coarelli, che colloca l’area considerata al di fuori del pomoerium5, consente di concludere che il culto del semidio avrebbe reso più sicura e immediata la traditio di res mancipi tra hostes – nel senso etimologico di hospites –, dal momento che «il mito di Ercole garantiva che, in quel luogo, il disonesto e il ladro sarebbero stati puniti» (p. 58)6.

5Luigi Garofalo (Sull’Orazio sororicida, pp. 65-89) tratta un’altra vicenda estremamente importante della storia romana, analizzando con attenzione le fonti che riportano l’assoluzione dell’unico Orazio superstite dall’accusa di aver ucciso sua sorella, in quanto colpevole di aver pianto uno dei Curiazi, cui era sentimentalmente legata (Liv. I, 26). Il punto fondamentale di tutto il discorso è costituito dal sororium tigillum, cioè un travicello sotto il quale il giovane dovrà passare, come fosse un iugum, per scontare la sua gravissima colpa. Questo atto espiatorio, alias piaculum, assume un decisivo risalto catartico, ed anzi proprio per questo motivo viene fatto approvare dal defensor del giovane, suo padre Publio Orazio. Come giustamente rileva l’A., il merito di questa intuizione proviene da una voce «illuminante» (p. 71), ossia quella dello stesso Maurizio Bettini7. La donna, infatti, sarebbe venuta meno al ius osculi, rifiutando il bacio di suo fratello: ed il suo gesto non si sarebbe tradotto in una semplice presa di distanza, ma in un atto di rilevanza giuridica, ledendo «un vero e proprio diritto soggettivo di matrice consuetudinaria» (ibidem). Dopo un attento esame degli aspetti tecnici del procedimento, la conclusione è che l’obbligatorietà del diritto in una circostanza come questa può essere attutita solo dalla voluntas populi, il che corrobora «la forza pedagogica» (p. 81) dell’evento, tale da giustificare la disapplicazione nei confronti del sororicida delle terribili istanze del crimen perduellionis: si pensi, in proposito, che la previsione normativa che regolamentava simili crimini era nientemeno che la lex horrendi carminis8. Lo studioso attesta la sua gratitudine per gli stimoli ricavati dal collega anche in altre occasioni: ad esempio accoglie la resa dell’attributo usato dall’Orazio per descrivere l’amore della sorella per un Curiazio, immaturus, come «inopportuno», nel senso di «fuori luogo», e non «precoce», come veniva ordinariamente proposto dai traduttori, portati a conferire un risalto esclusivo alla mera evidenza letterale, e non a suggestioni più profonde (p. 83). Non diversamente condivide la giusta osservazione secondo la quale «a Roma non si sposa la cugina» (p. 85)9, consuetudine normalmente osservata nei racconti sulle origini di Roma, tranne che in rari casi, peraltro tutti infelici, come quello in oggetto, l’ipotesi di nozze tra Lavinia e Turno, cugini di primo grado, e il matrimonio realmente consumatosi, ma infausto, tra i due fratelli Tarquini e le loro cugine, figlie del re Servio Tullio, poi vittima del suo stesso sangue (Liv. I, 48, 5: creditur, quia non abhorret a cetero scelere, admonitu Tulliae id factum. Carpento certe, id quod constat, in forum invecta nec reverita coetum virorum evocavit virum e curia regemque prima appellavit, «si ritiene che ciò sia avvenuto – i.e. l’uccisione di Servio Tullio –, poiché non risulta affatto estraneo a tutti gli altri misfatti, per la cospirazione di Tullia. E come risulta abbastanza sicuro, dopo essersi fatta trasportare su un carro in foro e non temendo il fatto che gli uomini fossero riuniti, chiamò suo marito fuori dalla curia e per prima lo chiamò re»). Impreziosisce lo studio l’approfondimento di tutte le fonti antiche, da Livio, Festo, Dionigi di Alicarnasso, Valerio Massimo, Floro, Cicerone, Cassio Dione fino ad Aurelio Vittore, ogni volta con l’indicazione degli aspetti peculiari offerti dallo specifico punto di vista del singolo autore, fino alla suggestione finale dell’extrema ratio insita nell’essenza del diritto, che tra le sue previsioni terminali accoglierebbe anche quella di escludere la propria applicazione, come in tempi moderni hanno dicotomicamente dimostrato studiosi del calibro di Carl Schmitt e Walter Benjamin (p. 87).

6Mario Lentano (Suicidi infamanti e divieto di sepoltura, pp. 93-106; 122-124) prende le mosse dalla drammatica decisione di Amata, moglie di Latino, di togliersi la vita nell’ultimo libro dell’Eneide, quando gli eventi incalzano e la regina sceglie la strada del suicidio. L’innovazione di Virgilio è rappresentata dalla modalità con cui viene messo in atto il gesto estremo, ovvero l’impiccagione e non l’inedia, come invece aveva proposto Fabio Pittore (fr. 2 Cornell). Servio (ad Aen. 12, 603) non esita a definire una «morte indegna» (infirme letum) questo genere di trapasso, perché disonorevole fino al limite estremo: ben diversa sarebbe stata una «uccisione sanguinosa» (cruenta caedes), dal valore non solo simbolico, ma sostanziale. Stabilite simili premesse, il discorso si sposta sul fulcro della prima metà del contributo, ossia la costruzione della Cloaca massima, al termine del VI sec. a.C. Stando all’annalista Cassio Emina, sotto Tarquinio il Superbo (Prisco secondo Plin., Nat. Hist. XXXVI, 107, ma la confusione onomastica è frequente: cfr. p. 98) lo sforzo probante di questo impegno avrebbe indotto molti cives a togliersi la vita impiccandosi, il che avrebbe cagionato loro la crucifixio, come dimostrazione di una manifesta reità, aggravata dal sottrarsi agli opera publica. La privazione della sepoltura, osserva giustamente lo studioso, è da intendersi come un motivo di vergogna: lo dimostrano il feroce spectanda con cui Plinio definisce l’esposizione all’altrui sguardo (p. 104) e il parallelismo istituito con un episodio diverso nella forma, ma non nella sostanza, come quello delle vergini di Mileto, condotte nude al sepolcro e seppellite insieme con il laccio infame che avevano utilizzato per la loro inhonesta mors, a scopo palesemente intimidatorio e preventivo nei confronti di futuri comportamenti analoghi10. Un altro aspetto che viene rilevato è quel motivo malinconico che risulterà centrale nella morte di Cicerone o nel suicidio della Didone virgiliana, il taedium vitae così dettagliatamente esposto da Paolo Mari nel suo ricordo del maestro Sebastiano Timpanaro11. A Rossella Brescia si deve invece la parte centrale del lavoro (pp. 106-122 = §§ 4-8), che anzitutto si sofferma su quelle che le fonti antiche reputarono iustae causae dei suicidi, tra cui quella impatientia doloris che molto si avvicina alla decisione collettiva dei plebei di sottrarsi alle sofferenze dei lavori funzionali alla costruzione della Cloaca massima. Quindi affronta un aspetto alquanto significativo, nonché strettamente connesso con la fattispecie, ossia la vena declamatoria. L’autodenuncia dell’aspirante suicida rappresenta la traslazione, se non addirittura la sublimazione, della sua vicenda da un piano privato e personale a uno pubblico e ideale, da gestire con i dovuti crismi, quelli offerti dalla lex. L’analisi puntuale e diffusa di alcune declamationes, come la minore pseudo-quintilianea 335, la maggiore 4 ed in particolare l’altra minore pseudo-quintilianea 337, consente alla studiosa di notare che «il declamatore fittizio sembra avvalersi di una sorta di reinterpretazione metonimica di quell’etica del suicidio che […] giudicava turpe l’atto di togliersi la vita» (p. 120 s.). Ne consegue che con il trascorrere del tempo le causae turpes, vale a dire tutte le ignominie lesive dell’onorabilità, come una sorta di «eco semantica» abbiano condotto all’estrema sanzione della privazione della sepoltura, a prescindere che il suicidio fosse avvenuto o meno con l’impiccagione (Decl. 337, 2 e 5). Tali osservazioni tracciano un ponte particolarmente significativo tra la pratica declamatoria ed il diritto arcaico, un «dialogo a distanza» che individua il proprio comune denominatore nelle stesse macchie indelebili della turpitudo, plinianamente intesa come «negazione del pudor» e quindi «deterrente del suicidio di massa».

7Già l’incipit del contributo di Carlo Pelloso (Bruto, il console che fece uccidere i figli, pp. 131-169) offre un nugolo davvero travolgente di suggestioni: «Il compito del padre è quello di trasmettere il desiderio da una generazione all’altra, permettendo l’eredità: fuori da questo schema vi sarebbe spazio solamente o per un padre totemico e titanico (ossia quello divoratore dei propri figli, di cui Freud parla in Totem e tabù), o per un padre evaporato (ossia quello più propenso a cercare l’amore dei propri figli più che a educarli, di cui parla Lacan in Dei nomi del padre)»; quindi viene citato ad litteram, e in nota, un passo lapidario dello psicoanalista Massimo Recalcati, che definisce «il compito della testimonianza paterna […] quello di rendere possibile un senso del mondo. Ma anche quello di trasmettere il desiderio da una generazione all’altra, di trasmettere il senso dell’avvenire» (p. 134, n. 1)12. La figura cui viene dedicato un risalto speciale è il console Lucio Giunio Bruto, che decretò la morte dei suoi figli Tito e Tiberio, rei di aver complottato con il deposto Tarquinio il Superbo per ripristinarne il regnum (Liv. II, 4, 1; 5, 8). All’inizio viene presentato un passo molto dibattuto dell’Eneide (VI, 817-823), che definisce Bruto con l’appellativo polisemico di superbus13: il suo senso di giustizia e l’amore per la patria soverchiano il riguardo per i figli. Dopo un’analisi serrata delle fonti, funzionale a determinare l’intrinseca substantia giuridica del ius vitae necisque, l’A. conclude che effettivamente il pater familias poteva avvalersi di questa facoltà, ove fosse stata accertata la colpevolezza dei figli. Emanare una sentenza capitale in sede domestica significa dimostrare il proprio potere, ed insieme stornare la profonda umiliazione che il nucleo familiare subirebbe a causa di una pubblica esecuzione. Bruto, consul e pater, può sottrarre i figli a un crudele destino ma non lo fa perché hanno sbagliato, mirando a ripristinare il regnum. Così accetta, anzi prospetta la loro morte (Val. Max. V, 8, 1), rinunciando a quel privilegio discrezionale che gli avrebbe permesso di salvarli. Non solo, ma il consul rifiuta a priori quei cogenti sistemi giuridici che gli avrebbero propiziato l’esito opposto, come la provocatio ad populum o la stessa intercessio spettante alla par potestas dell’altro console Collatino, ammantandosi così dei tratti archetipici che lo sottraggono alla rigida contingenza della sfera giuridica, e lo fanno lievitare su un piano paradigmatico ed esemplare.

8Gianluca De Sanctis (L’onore di Virginia e le XII Tavole, pp. 173-214) approfondisce un mito finora poco percorso dalla critica letteraria, conferendogli una notevole attenzione anche sotto il profilo della storia degli studi: il corredo bibliografico, davvero cospicuo, sostiene con pregevole dovizia di particolari tutte le tesi argomentate e proposte. Il primo paragrafo ripercorre l’evento con una narrazione articolata. Il testo di riferimento, Liv. III, 44-54, adeguatamente accompagnato dai resoconti paralleli, come quello non meno ricco di Dionigi di Alicarnasso (Ant. Rom. XI, 28-46), riceve un risalto particolare14. L’analisi dell’episodio parte dal confronto tra la vicenda di Virginia e quella di Lucrezia, di qualche anno prima. Le analogie sono palesi, anzi l’A. non dubita affatto che si tratti di una variazione dello stesso tema, con l’avvertenza che «la difesa della pudicitia spetta alla donna quando è già matrona; ma al padre della donna quando questa è ancora una virgo» (p. 182). Eloquente, ancorché feroce, è in proposito la locuzione fundus saeptus, che relega la fanciulla ad un hortus conclusus della voluntas del pater, il quale la protegge e costeggia come un agricola sollers. Il paragrafo seguente esamina i concetti integrati e complementari di pudicitia e libertas: nella società romana le donne sono il simbolo dell’identità e dell’integrità della familia, sebbene il sesso maschile abbia una naturale preponderanza; eppure il loro onore è al servizio dell’istituzione, il suo granitico fundamentum. Del resto liberi («figli») è un corradicale di libertas, a dimostrazione del fatto che si tratta di uno stato acquisito fin dalla nascita (Dig. I, 5, 4). Subito a seguire un’intera sezione è dedicata alla figura di Appio Claudio, sottilmente definito con l’oxymōron «legislatore in prigione» (pp. 188-192). La sua metamorfosi, da decemviro ligio e stimato a sfrenato ed autocratico detentore del potere, ha una logica nel delicato equilibrio dell’imperium secondo la concezione tipica della res publica: la carica di console dura un anno ed al contempo i magistrati devono essere due, perché l’uno sorvegli l’altro. Appio Claudio viene così innalzato ad exemplum paradigmatico di ciò che non si deve arrivare a perpetrare, e nemmeno lontanamente a concepire: superbia (con richiamo all’etimo, legato all’avverbio super) e libido, il capriccio senza limiti di decenza e pudore, sono inevitabilmente destinati alla sanzione. Lo spettro del cesaricidio incombe sovrano su questi eventi, per la sua attualità persistente e invasiva15. Ma sono le parole conclusive del paragrafo a segnare un limes ancora più nitido: «Le leggi […] possono facilmente trasformarsi in strumenti di prevaricazione, se non vengono “abitate” dalla coscienza degli uomini, poiché, al di fuori del mondo delle idee platoniche, resta valido il principio orwelliano per cui “all animals are equal, but some animals are more equal than others”» (p. 192). Il paragrafo seguente (Venere Cloacina) rappresenta il perfetto pendant dell’analoga sezione di Maurizio Bettini, anche come collocazione all’interno del testo, a conferma di un sistema metodologico programmaticamente affine: lo dichiara apertis verbis lo stesso A. nella n. 88, con il riferimento a due loro contributi imperniati sul concetto antropologico di storytelling e il ruolo giocato dai luoghi nella mitologia romana16. L’analisi investe quel tempio di Venere che sorgeva accanto al luogo in cui trovò la morte Virginia. Situato nel Foro, di fronte alla Basilica Emilia, ove si trovavano anche le Tabernae Novae, aveva una chiara valenza catartica, come attesta del resto l’epiteto Cloacina, legato a cluere, «pulire», nonché, segnatamente nell’ambito religioso, «purificare». Un ulteriore richiamo trasversale porta a conclusioni pienamente condivisibili: si tratta del riferimento al denarius Lucio Massidio Longo del 42 a.C., sul cui verso è stampigliata l’immagine del sacello di Venere Cloacina, mentre sul dritto risulta effigiato il busto della dea Concordia. Ancora una volta l’assetto etimologico consente di ricavare dati significativi: la concordia (da cum + cor) in quella fase – come del resto anche nel 42 a.C.: ma sarebbe stata la pax Augustea a propiziarla – è un oggetto del desiderio della Roma protorepubblicana, quantunque l’affronto al centurione, nonché futuro tribuno, Virginio la renda decisamente improponibile. Di qui il rilievo programmatico di un’unione come quella tra Romani e Sabini, avvenuta proprio sotto il segno della dea che propizia l’accantonamento delle ostilità. Il saggio si conclude con il riferimento a tre importanti riferimenti normativi, ovvero le prime leggi riconducibili all’operato dei neoeletti consoli Valerio e Orazio. In particolare viene esaminato il secondo provvedimento, che conferma ai magistrati il diritto di provocatio ad populum, palesemente ignorato nel caso di Appio Claudio. La frase liviana assunta a chiarire il concetto è quella che definisce il reo legum expertem et civilis et humani foederis, «al di là della legge e privo di rapporti con il consorzio umano e civile» (Liv. III, 57, 1). La perifrasi, dal tenore apparentemente riservato ad aspetti politici e giuridici, viene estesa a quello religioso, anzitutto con l’aggiunta del carattere di sacertas, e nello specifico la consecratio capitis formulata da Virginio nell’atto di uccidere la figlia (te, Appi, tuumque caput sanguine hoc consecro, «te, o Appio, maledico con questo sangue, e il tuo capo»); quindi con l’analisi funzionale ed interconnessa dell’atto locutorio e della gestualità, che creano la devotio ducis, ossia il patto con le potenze ultraterrene con cui il comandante subordina la propria esistenza al bene della patria17. La conclusione, spontanea, è che «queste cerimonie […] ci immettono in un mondo che ci appare al tempo stesso vicino e lontano, simile e diverso, moderno e selvaggio; un mondo in cui gli spiriti dei morti possiedono iura e il diritto è ancora “incastrato” nel religioso» (p. 203).

9In una ideale Ringkomposition interna, come il capitolo introduttivo anche il contributo conclusivo del volume (Gneo Flavio, lo scriba che rubò il diritto, pp. 215-237) è opera della curatrice, Aglaia McClintock. La figura di Flavio, il cui nome è inscindibilmente legato al Ius civile Flavianum, ossia la trascrizione dei testi giuridici affidati alla gelosa custodia dell’organo pontificale (Dig. I, 2, 2, 7), è accostata a quella di Appio Claudio Cieco, rispetto al quale si pone come una sorta di “clone plebeo”. Appio Claudio fu giustamente definito Centemmanus («dalle cento mani»), per aver rivolto la sua attenzione a molteplici attività, propiziando quelli che a Roma sarebbero divenuti dei punti fermi: l’acquedotto che da lui prese il nome (Aqua Claudia), l’«arteria militare e commerciale» (p. 219) della via Appia, la letteratura giuridica (Liber de usurpationibus, di cui non è rimasta traccia) e oratoria (un’orazione contro Pirro, re dell’Epiro, a sua volta andata perduta: Suet., Tib. 2, 1), fino all’introduzione di una nuova lettera alfabetica, il rho, funzionale a definire il fenomeno fonetico del rotacismo. La vis euristica incontenibile di questo straordinario uomo politico ebbe tuttavia un adeguato contraltare nella figura di Gneo Flavio, sicuramente meno noto ma altrettanto efficace. Il suo temperamento coriaceo è testimoniato da un frammento degli Annales di Lucio Calpurnio Pisone, citato da Gellio: pretendendo il rispetto di alcuni giovani patrizi che lo ignoravano, si fece portare la sella curulis sulla soglia della porta dell’edificio in cui si trovavano e vi si stanziò, in modo da non passare inosservato e far sì che chiunque volesse uscire fosse costretto a riverirlo come aedilis (Noct. Att. VII, 9). Un altro erudito di non minore levatura, come Plinio il Vecchio, riferisce che i potentiores rimasero indignati di fronte alla sua nomina, tanto che i nobili deposero le insegne, i senatori gli anelli d’oro e i cavalieri le falere, in evidente segno di protesta (Nat. Hist. XXXIII, 18). Gneo Flavio, tuttavia, non volle mai occultare la sua reale natura, anzi la svelò sempre nel modo più evidente, giungendo persino a sottrarre all’egida dei loro ufficiali detentori due sfere eccelse come il tempo e il diritto: non solo, infatti, pubblicò il calendario, ma si spinse a divulgare il sapere processuale, al fine di limitare l’autorità sacerdotale (Cic., Mur. 25; ad Att. VI, 1, 8). Risulta, pertanto, particolarmente efficace ed accattivante la definizione di «trickster»-Demiurgo che l’A. gli riserva a p. 232: la sua fisionomia «liminale», derivante da una capacità innata di assemblare i tratti del sacro e del profano o dell’alto, relativo al ruolo raggiunto, e del basso delle sue modeste origini, non solo lo porta a percorrere nuove frontiere esistenziali, ma lo induce persino a svelare i secreta dei pontifices, quegli ἀπόρρητα che il re Numa avrebbe fatto seppellire con sé per non lasciarne traccia (Plut., Num. 22, 2). Significativo è anche il monito conclusivo: questo singolare personaggio avrebbe dimostrato già ai suoi tempi, tra la fine del IV e l’inizio del III sec. a.C., una sorprendente attualità, perseguendo il valore inestimabile dell’ordine attraverso il ricorso funzionale al disordine (corsivi dell’A.), in un processo in cui assume un rilievo cruciale anche l’ultima testimonianza del suo operato, ossia la dedica di una struttura templare alla dea Concordia(Liv. IX, 46, 6-7): κόσμος ed ὀμόνοια in uno, a sottolineare il sorvegliato taglio prospettico del suo operato.

10La qualità del dialogo tra gli ambiti disciplinari costituisce senza dubbio il motivo saliente di questa collettanea, che brilla per la coerenza interna dei temi proposti e la ricchezza della documentazione fornita, sia antica che moderna. Gli spunti ricavabili dalle singole trattazioni potranno, inoltre, essere auspicabilmente sviluppati in futuri approfondimenti, a conferma di quali risultati, un tempo utopici18 ma ora oggettivamente perseguibili, riesca ad assicurare una comunicazione fondante e interattiva.

Rezension vom 4. Oktober 2021
© 2021 fhi
ISSN: 1860-5605
Erstveröffentlichung
4. Oktober 2021

DOI: https://doi.org/10.26032/fhi-2022-10