Zeitschrift Aufsätze

Stefano Lombardo*

Il conflitto tra la magistratura e l’esecutivo attraverso gli uffici del pubblico ministero. I resoconti giudiziari nell’Italia postunitaria. I resoconti giudiziari nell’Italia postunitaria

1. Premessa: l’evoluzione funzionale e strutturale della magistratura italiana nel post-Unità.

1A lungo, le prerogative e i compiti degli organi giudicanti italiani dell’Età liberale sono stati descritti come meramente esecutivi1. Un orientamento storiografico consolidato2, infatti, definisce la politicità giudiziaria – ossia l’interventismo politico della magistratura attraverso l’attività giurisdizionale – negli ordinamenti di civil law, come un fenomeno solo in attuale affermazione ed espansione3.

2Tuttavia, nella seconda metà dell’Ottocento italiano, le magistrature superiori – in antitesi con la suddetta ricostruzione storiografica – dimostrarono di influenzare direttamente a monte il procedimento legislativo e di codificazione partecipando con i propri membri ai lavori parlamentari4, fino ad intervenire politicamente in numerose occasioni attraverso l’esercizio della funzione giurisdizionale.

3Questo interventismo crebbe con l’avvio del processo di conquista formale, tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, della autonomia burocratica e corporativa della magistratura italiana postunitaria che ne consolidò l’indipendenza dall’esecutivo5. Il processo evolutivo6 si realizzò gradualmente, anche se già nell’immediato post-Unità vi furono dimostrazioni di indipendenza nei confronti dell’esecutivo da parte delle Corti di cassazione di Palermo e di Napoli7. In primis,fu la conquista dell’unità della giurisdizione suprema penale, affidata dalla legge n. 5825 del 1888 alla Corte di cassazione di Roma8, a determinare un rafforzamento istituzionale dell’intera magistratura italiana9.A distanza di un anno, nel 1889, giunse l’agognata conclusione del processo di unificazione legislativa con la promulgazione del codice penale unitario. Seguì, nel 1890, la riforma zanardelliana dell’ordinamento giudiziario10 e l’avvio verso l’autonomia burocratico-istituzionale della magistratura italiana: l’aumento degli stipendi dei bassi magistrati (per lo più i pretori) per aumentarne il prestigio sociale11, l’introduzione del reclutamento ordinario dei magistrati tramite concorso(mentre la nomina diretta ministeriale divenne uno strumento eccezionale) e il contestuale rafforzamento della graduatoria nazionale per la regolazione delle promozioni e dei trasferimenti furono tra le principali introduzioni della riforma, nell’ottica del rafforzamento dello status e dell’indipendenza del magistrato. La riforma agì anche sul piano della coesione tra magistratura giudicante e requirente prevedendo la fusione della graduatoria dei pubblici ministeri con quella dei magistrati giudicanti, il rafforzamento della Commissione centrale12 e l’accrescimento delle sue competenze, estese anche alla carriera della magistratura requirente. Iniziava così una vera e propria fusione corporativa, anche da un punto di vista normativo, della magistratura italiana.

4Tuttavia, un primo vero e proprio formale riconoscimento legislativo dell’autonomia burocratica e corporativa della magistratura giunse con l’istituzione, rispettivamente, del Consiglio Superiore della Magistratura nel 1907 e dell’Associazione Generale dei Magistrati Italiani nel 190913. Già all’indomani della riforma zanardelliana dell’ordinamento giudiziario si assistette ad un concreto rafforzamento istituzionale14, come dimostrato da un più incisivo interventismo politico, anche sul piano dei rapporti di forza con l’esecutivo, attraverso l’esercizio della funzione giurisdizionale. Come si è detto, la riforma del 1890 è frutto di un più generale progetto riformatore di affrancamento e di accentramento istituzionale della magistratura italiana e segue alla legge n. 3761 del 31 marzo 1877 che affida alla Cassazione di Roma la giurisdizione sui conflitti di attribuzione tra autorità giudiziaria e amministrativa (sottraendola al Consiglio di Stato) e alla già citata legge n. 5825 del 6 dicembre del 1888, istitutiva della Corte suprema unica in materia penale.

5Infatti, «con l’acquisizione di tali competenze la Corte di cassazione di Roma si colloca nella dialettica tra i poteri qualificandosi come custode dei limiti di tutti i poteri tra loro, nella veste di giudice di prima ed unica istanza». Seppur formalmente si presentino quali riforme parziali e «non ancora riconducibili alla realizzazione di un progetto […] di tipo organico», il risultato in termini sostanziali è comunque innegabilmente «di rilevanza strutturale»15 e giurisprudenziale. È proprio sotto quest'ultimo profilo che si ebbero le più tangibili dimostrazioni della rinnovata potenza istituzionale della magistratura italiana: innanzitutto, sul piano strutturale si accentravano le competenze apicali, anche se dapprima solo in materia penale, in un’unica Corte suprema, creando in tal modo «una convergenza degli indirizzi interpretativi» che implicava inevitabilmente la «uniformazione della giurisprudenza nella applicazione della legge». È così che «si attribuiva ad una delle cinque Corti supreme un potere sostanzialmente gerarchico sulle altre»16. Un’unità gerarchico-strutturale che, per eterogenesi dei fini, portò ad un rafforzamento sul piano istituzionale dell’intero giudiziario, con le dovute conseguenze nei rapporti di forza con gli altri poteri dello Stato17.

6Se sul piano formale sembrerebbe ancora lontana l’indipendenza istituzionale della magistratura italiana, tuttavia, sul piano sostanziale, la riforma del 1888, «pur essendo orientata su altri obiettivi, […] produce effetti strutturali»18.

7La più lampante dimostrazione di queste nuove attribuzioni e funzioni istituzionali è data dall’emblematica sentenza della Cassazione di Roma del 20 febbraio 1900, con la quale la Corte (ormai suprema in materia penale e di conflitti di attribuzione delle competenze tra amministrazione e giudiziario) si arrogò un vero e proprio controllo di costituzionalità19.

8Persino nella letteratura coeva, in particolare nelle opere veriste, i magistrati venivano spesso descritti come liberi da vincoli e controlli, così intraprendenti al punto da scadere nell’arbitrio. Fulmineo, irreprensibile, temibile: così Giovanni Verga, ad esempio, descrisse il prototipo del «signor Giudice»20, riferendosi in realtà ad un magistrato requirente. Un apparente lapsus che sottolinea la confusione nell’immaginario popolare delle funzioni e quindi la sostanziale unità del corpus dei magistrati.

2. Il ruolo del pubblico ministero nel conflitto politica-magistratura nell’Italia postunitaria attraverso i resoconti giudiziari.

9Emerge quindi un rapporto complesso tra la magistratura italiana postunitaria e l’esecutivo, tutt’altro che di mera subordinazione della prima al secondo21. In particolare, la funzione del pubblico ministero rappresentò il terreno di scontro tra il Governo e l’alta magistratura giudicante. Alcuni significativi episodi mostrano come gli alti magistrati ̶ in particolare, come già anticipato, quelli delle Corti di cassazione ̶ svolgessero una pragmatica e costante funzione di indirizzo politico-legislativo, soprattutto in materia penale22. Si notano chiaramente su più livelli alcune dimostrazioni di sostanziale unità corporativa della magistratura, in opposizione all’assetto formalmente vigente.

10Sin dall’immediato post-Unità, si può assistere ad un aperto orientamento politico, autonomistico e contrario al Governo di una consistente parte dell’alta magistratura italiana23, in particolare delle Corti di cassazione di Palermo e di Napoli24. Una lampante dimostrazione è data dalla sentenza della Corte di cassazione di Palermo del 22 giugno 1862, con la quale venne dichiarato colpevole di «denegata giustizia» il procuratore generale della Gran corte criminale di Palermo, Gaetano Meli,

11per non aver dato corso alle querele presentategli dal dottor Giovanni Raffaele, per la punizione degli autori, fautori e complici dell’arresto arbitrario e della arbitraria deportazione che egli avea sofferto nei primi giorni del gennaio 1860.25

12Giovanni Raffaele, membro del Partito repubblicano di Palermo, in seguito ai moti del 1860, venne prelevato per ragioni prettamente politiche senza mandato e nel cuore della notte – prescindendo da tutte le forme richieste dal codice penale e dalle garanzie statutarie – per poi essere trasferito nelle carceri di Genova. L’inerzia del pubblico ministero in seguito alla querela sporta dal Raffaele fu tutt’altro che fondata su ragioni o valutazioni tecniche; rappresentò invece un concreto esempio delle conseguenze fattuali dell’interpretazione letterale e pedissequa dell’art. 146 dell’ordinamento giudiziario allora in vigore «per cui il pubblico ministero è il rappresentante del potere esecutivo ed è posto sotto la direzione del ministro di Grazia e Giustizia», agendo quale braccio operativo dell’esecutivo e, in virtù della propria discrezionalità riguardo all’esercizio dell’azione penale, quale censore, in termini politici, delle condotte potenzialmente rilevanti in sede penale.

13La condanna del procuratore generale Gaetano Meli da parte della Cassazione palermitana è di notevole importanza poiché impose nel dispositivo un’interpretazione innovativa delle funzioni del pubblico ministero, considerato «il rappresentante della legge» prima ancora che il rappresentante dell’esecutivo, riconoscendo, dunque, alla magistratura «il potere di garantire l’osservanza della legge, tanto più che in questo caso si tratta della legge fondamentale dello Stato, lo Statuto». Ma non basta: la sentenza arrivò a sancire, in virtù di una pura creazione giurisprudenziale senza alcun fondamento legislativo, la responsabilità giuridica, oltre che esclusivamente politica, del ministro, per la quale egli poteva «benissimo essere chiamato a rendere degli atti e provvedimenti dinanzi al magistrato e come tutti gli altri cittadini sottostare alla sentenza»26.

14Non è irrilevante che una corposa parte dell’opinione pubblica si fosse schierata apertamente a sostegno dell’operato (politico) della magistratura, elevandola a sua protettrice. La partecipazione popolare al processo fu tale che

15fragorosi applausi accolsero la decisione della Corte di cassazione; poiché ciascun cittadino sentì nell’animo suo che ormai egli è sicuro che sarà rispettata la sua libertà personale, e che ove per avventura altri attentasse a questo prezioso diritto, non tarderà la giustizia a reprimere l’iniquo sopruso. Sia lode, sia gloria al nostro supremo magistrato che sì nobilmente adempì l’altissimo suo ufficio. Apprendano i popoli e i governanti.27

16È indubbia, dunque, la rilevanza politica della decisione, in quanto vera e propria presa di posizione pubblica ed istituzionale contro la linea governativa autoritaria e repressiva verso gli opposti schieramenti politici28. L’esempio rivela quindi un conflitto politico tra l’alta magistratura meridionale e l’esecutivo già durante la formazione del nuovo Stato unitario.

17L’intraprendenza della Corte di cassazione di Napoli nel post-Unità emerge anche, ad esempio, nel 1862. La spedizione clandestina per l’annessione dei territori dello Stato pontificio da parte dei volontari garibaldini, fermata in Aspromonte dalle truppe regolari italiane, costituì un fatto giuridicamente rilevante, tuttavia, il procuratore del re presso la Corte di assise di Catanzaro (facente capo alla Corte di cassazione di Napoli) decise, in accordo con la procura generale della Cassazione napoletana, di non esercitare l’azione penale contro Giuseppe Garibaldi e i volontari29.

18In entrambi gli esempi citati lo scontro politico-istituzionale si svolse, non a caso, dentro ed attraverso gli uffici del pubblico ministero.

19L’ordinamento giudiziario del 185930 esteso al neoistituito Regno d’Italia31 prevedeva che all’inaugurazione dell’anno giudiziario i procuratori generali e i procuratori del re dovessero esporre i «rendimenti di conto». Si attuava così formalmente una funzione di controllo e di rendicontazione dell’attività giudiziaria al Ministero32.

20La funzione di controllo, articolata in più adempimenti, era affidata al pubblico ministero in quanto, come già precisato, diretto rappresentante dell’esecutivo33. Tramite il pubblico ministero infatti il ministro di Grazia e Giustizia avviava il procedimento disciplinare per l’irrogazione delle specifiche pene di cui agli articoli 221-253 dell’ordinamento Rattazzi del 185934. Anche per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari più gravi ed invasive nei confronti dei magistrati (la destituzione e la rimozione dall’impiego) era cruciale il ruolo affidato al pubblico ministero: seppur decise dal guardasigilli - fatta salva comunque, in questo solo caso, la previa approvazione da parte della Corte di cassazione a sezioni unite - il formale procedimento doveva essere promosso sempre dal pubblico ministero, che «in pratica decideva, in nome del governo, della carriera dei giudici»35. Sino all’istituzione della Commissione consultiva centrale per le promozioni e i tramutamenti, furono i procuratori generali delle Corti d’appello ad essere incaricati di «formulare le proposte riguardanti sede e carriera del singolo magistrato»36.

21Ciononostante, gli alti ranghi riuscirono comunque a garantire «una relativa protezione alla bassa magistratura contro le ingerenze della politica» anche per «tutelare il proprio monopolio sul corpo giudiziario, non garantendo ai giudici minori l’indipendenza interna (nella struttura gerarchica)»37.

22Il discorso tenuto dal procuratore generale della Corte di cassazione di Napoli, Giuseppe Vacca38, nel 1862 dimostra la propensione indipendentista delle Corti di cassazione meridionali e offre un primo esempio sostanziale dell’unità corporativa tra la magistratura giudicante e quella requirente nell’immediato post-Unità39. Piuttosto che di una rendicontazione al Ministero in funzione di controllo politico dell’attività giurisdizionale, si tratta di un libero monologo elogiativo della Cassazione partenopea e, ancor prima, della tradizione giuridica di cui la Corte viene descritta, nel contempo, quale erede e custode. Sfocia nell’esercizio di un vero e proprio potere di proposizione legislativa, sino ad assumere i tratti di un sindacato nel merito dell’attività del legislatore unitario:

23Ho esposto alla fuggevole, o signori, le considerazioni principalissime che mi paiono atte a chiarire quale e quanta sia l’importanza delle Riforme Legislative accomunate a questa estrema e nobilissima parte d’Italia40.

24Il procuratore si riferisce al Codice penale per le Provincie Napoletane41, ossia ad una versione del codice penale sardo del 1859 riletta, parzialmente modificata e adattata alla tradizione giuridica meridionale, da una commissione per gli studi legislativi istituita con decreto regio del 6 febbraio 1861. Il codice penale borbonico, da cui derivarono le modifiche apportate, viene descritto come «ottimo tra i codici europei», tanto da essere proposto a modello da adottare su scala nazionale, sulla base della necessità di una codificazione penale unitaria42 e della consapevolezza (ben fondata, come la storia ha dimostrato) che «sarebbe davvero il più vano dei sogni» riferendosi all’«attendere una codificazione da un’assemblea Legislativa in tempi sì concitati e procellosi». Prevedendo i decenni che dovettero effettivamente trascorrere prima della introduzione del codice penale unitario del 1889 da parte del legislatore italiano, viene proposta una più immediata soluzione: «Dimostrata pertanto l’alta convenienza di unificare, e senza dimore, la Legislazione Penale, non rimarrà altro compito che quello di emendare e perfezionare»43 quella già esistente che sarà ritenuta la migliore.

25Ed ecco, o Signori, quali si fossero i desiderati della nostra Legislazione Penale; ai quali desiderati ben potea soddisfare il Codice Penale delle antiche Provincie Italiane [quelle napoletane], siccome quello ch’era fattura dei nuovi tempi, e però nudrito dell’alito vivificante degl’Istituti di libertà44.

26A questo scopo il procuratore si rivolge direttamente agli uditori, i magistrati della Cassazione di Napoli, invitandoli ad interpretare in senso creativo sino a legittimarli a censurare e a disapplicare nel caso concreto a mo’ di controllo di costituzionalità diffuso, tipico degli ordinamenti di common law, il decreto luogotenenziale del 17 febbraio 1861:

27Non ci sono ignoti i vizii e le mende di quella pubblicazione alquanto affrettata del 17 febbraio del caduto anno. Agevol cosa è il censurare quell'opera, ove la si misuri con la stregua dell'ottimo, e della desiderabile perfezione; senonché [sic] ponete, o Signori, che i consigli cautelosi, e timidi l'avessero vinto a quei dì sugli animosi propositi, e tenete certo in tal caso che le riforme oggidì inaugurate sarebbero rimaste uno sterile voto, ed un bisogno inappagato, Dio sa per quanto volger di tempo.

28Questa censura a cui la Corte è istigata è in linea con la predetta, impellente, finalità. Come spiega lo stesso procuratore, la necessità di un codice penale unitario non era avvertita solo come una necessità tecnica in riferimento all’unità della legislazione criminale del Regno, bensì anche, e anzi soprattutto, sociale e politica. Si riferisce alla codificazione penale come ad una «Costituzione politica»45. Una Costituzione che il procuratore sembrerebbe affidare alla custodia dei magistrati della Cassazione - secondo il modello britannico che, anche se non è espressamente menzionato in questo senso, sembra implicitamente richiamato46 - data la sua (in realtà più che fondata) diffidenza verso le capacità del legislatore penale italiano del 1862. Così la magistratura è chiamata a riempire i vuoti lasciati dalla legislazione formale:

29Altissimo mandato è prescritto per vero oggidì al magistrato. Risollevare la maestà del diritto e della giustizia, procacciandole credito e onora ma: vendicare le offese alla legge e all’ordine sociale con animo imperturbato e sereno, nulla curando le ire di parte, gli assalti della calunnia e le minacce della prepotenza. Ridestare con l'esempio delle grandi virtù e dei nobili atti quel sentimento infelicemente smarrito di rispetto alla legge, e di confidenza nel potere, tolto il quale ogni Governo è impossibile, ogni migliore istituzione intisichisce e sfuma.

30Più che un «rendimento di conto» al ministro, per contenuto e toni appare una relazione sull’operato del legislatore, non già delle Corti, contenente veri e propri giudizi, oltre che spunti propositivi, in merito alla politica legislativa dello Stato unitario.

31Lo conferma l’approvazione da parte del procuratore Vacca della scelta del legislatore unitario di importare il modello della cassazione francese. Quell’endorsement non è quindi solo specifico in merito al prestigio della Suprema corte partenopea, ma si estende alla «istituzione», definita come «collocata in una regione pura e serena, dove non giungono né gli accidenti dei fatti contigibili, né la voce degl’interessi che tenzonano, né i rancori e le ire di parte», e per questo stesso motivo una «istituzione infine eminentemente acconcia a cementare l’unità nazionale». Il procuratore generale ostenta l’imparzialità e la terzietà che garantisce il modello della cassazione attraverso quella che però, di fatto, è una mera fictio iuris: il controllo di sola legittimità. Difatti il caso coevo della Cassazione napoletana sulla spedizione garibaldina è sufficiente a dimostrare la propensione della Corte ad eludere i limiti del controllo esclusivamente di legittimità, operando palesemente scelte giurisdizionali non solo estese al merito del giudizio, ma addirittura politicizzate ed antigovernative.

32Il procuratore Vacca non solo difende ampiamente il modello della cassazione rispetto a un giudice di terza istanza, bensì arriva a proporre l’istituzione di un’unica Suprema Corte di cassazione, auspicandone tra l’altro la sua identificazione proprio in quella di Napoli.

33E lasciatemi poi dichiarare con libera sentenza, o Signori, che dove per avventura si pensasse di affrontare anzi tempo codesta formidabile quistione dell'unica sede della Corte di cassazione, a niuno sarebbe lecito postergare o respingere gl'irrepugnabili titoli di preminenza che alteramente affaccerebbe la Curia Napolitana, ricca di tanti splendori di scienza e di tante illustri tradizioni.

34Il discorso appena analizzato è dunque un’importante testimonianza della concreta ed autoindotta, si potrebbe dire quasi ontologica, propensione all’unità corporativa dei magistrati italiani sin dall’immediato post-Unità. Non è casuale che l’oratore ̶ formalmente un rappresentante dell’esecutivo nella sua funzione di rendicontazione sull’attività giurisdizionale47 - si rivolga ai giudici uditori con il titolo di «onorandi Colleghi»:

35Udrete (rivolgo a voi la parola, onorandi Colleghi) intimarvisi, e dimostrarvi essere assurdo codesto assetto molteplice di una Corte regolatrice, cui se togli l'unità, avrai tolto la condizione di vita e la ragion di essere48.

36È molto più che un «rendimento di conto»: è un vero e proprio strumento di rivendicazione della piena autonomia del «Magistrato»49, che ne propugna anche la necessaria inamovibilità.

37Il che essendo si avrà a conchiudere essere ottima quella tale organizzazione giudiziaria che meglio e più efficacemente provvegga alla vera e sincera indipendenza del magistrato, separandone gelosamente gli uffizii da ogni ingerimento, o influenza della potestà governativa. […]
38Protetto il Magistrato dallo scudo della inamovibilità, costituito in condizioni di vera e piena indipendenza, ed abusando egli per avventura la santità del suo Ministero, avrà a subire la inesorabile legge della ugualilità che adegua tutti gli atti punibili di fronte alla giustizia sociale; sicché ogni concessione privilegiata e parziale al pubblico funzionario non riescerebbe che a pubblico scandalo50.

39La stessa conclusione del discorso è un inequivocabile elogio alla «magistratura napolitana» da cui emerge, almeno per quanto riguarda i territori delle Provincie napolitane, un forte senso di unità corporativa. Del resto, l’intera orazione sembra essere stata dettata dai giudici della Corte di cassazione e non già esposta da un membro del pubblico ministero che, almeno in teoria, avrebbe dovuto rappresentare il Governo sulla base dell’allora vigente ordinamento Rattazzi51.

3. La dualità del pubblico ministero nello scandalo della regìa cointeressata dei tabacchi

40Dalle prime dimostrazioni di politicità giudiziaria, contestuali al completamento dello stesso processo di unificazione, si passò ad un’espansione dell’indipendenza e dell’interventismo politico della magistratura su scala nazionale. Lo scandalo della Società Anonima per la Regìa Cointeressata dei Tabacchi è emblematico. Nel 1869, il relativo procedimento giudiziario52 divenne ben presto un vero e proprio processo politico nei confronti del Governo e del suo operato. Agli occhi della pubblica opinione apparve come un caso di «politica d’affari»53, tanto da spingere la Camera dei Deputati, temendo che anche in appello i giudici potessero confermare la ricostruzione dei malaffari governativi data in primo grado, a nominare una commissione di inchiesta parlamentare nel tentativo di sottrarre alla magistratura la cognizione del caso54. La vicenda, assai articolata per le molteplici implicazioni che ne derivarono, si concluse con il tentato omicidio55 prima, e con due successivi processi, poi, a carico di Cristiano Lobbia, il deputato della Sinistra che mosse alla Camera le accuse di corruzione nei confronti del deputato Giuseppe Civinini, con la riserva di esibirne le prove soltanto dinanzi alla commissione parlamentare costituenda56. Proprio da queste ultime vicende giudiziarie si ottiene la dimostrazione di un aperto scontro politico con antagoniste la giurisdizione e la magistratura requirente.

41All’indomani del tentato omicidio di Cristiano Lobbia, anziché proseguire con maggiore vigore, l’inchiesta parlamentare sulla vicenda della regìa cointeressata dei tabacchi si arenò. Una vera e propria persecuzione giudiziaria arrivò a condannare quest’ultimo ad un anno di carcere militare per simulazione di reato57. In breve tempo Lobbia da denunciante incorruttibile divenne giuridicamente un mitomane. Decisiva fu in questo senso l'opera del pubblico ministero sottoposto all’indirizzo politico governativo. Il guardasigilli Michele Pironti affidò l'inchiesta della procura di Firenze sull'agguato subìto da Lobbia ad un uomo di propria fiducia trasferito appositamente da Bologna, il conte Adolfo De Foresta: le testimonianze che confermavano il tentato omicidio, numerose e pertinenti, furono sistematicamente distorte o ignorate. Stessa sorte toccò al parere formulato dai periti nominati dal tribunale. In definitiva, venne ricondotto un attendibile e comprovato tentato omicidio58, con un palese movente politico, ad una mera simulazione di reato.

42Il caso Lobbia è una fulgida dimostrazione dell’importanza politica del pubblico ministero nell’Italia postunitaria, dal momento che offre un esempio concreto del coinvolgimento degli uffici della procura nello scontro politico-istituzionale. Ma non solo. Rappresenta altresì la prova dell’indipendenza di un titolare del pubblico ministero dalle direttive politiche ministeriali. Dapprima, il procuratore generale di Firenze originariamente competente, Lorenzo Nelli, esitò, infatti, ad esercitare l’azione penale contro Cristiano Lobbia, ignorando le disposizioni del ministro Pironti, il quale era, invece, ansioso di concludere celermente il procedimento giudiziario, «per non chiedere l’autorizzazione a procedere alla Camera (in quel momento chiusa)»59. Successivamente, il procuratore Nelli mostrò apertamente al ministro il suo dissenso ad un processo meramente politico60. La risposta del ministro Pironti fu il trasferimento di Nelli alla procura de L’Aquila e la sua sostituzione con il fidato procuratore De Foresta. Ne seguirono la richiesta di aspettativa da parte del procuratore Nelli e, poco dopo, le sue dimissioni61.

43Anche in questo caso una relazione annuale, quella del 7 gennaio 1870 dinanzi alla Corte di cassazione di Firenze, divenne uno strumento comunicativo per diffondere le rivendicazioni del corpo giudiziario. Così esordì il procuratore generale Raffaele Conforti nella propria relazione pronunciata, non a caso, all’indomani del trasferimento politico del procuratore Nelli ed interamente finalizzata a ribadire l’indipendenza della magistratura, denunciando apertamente e con fermezza la violazione sostanziale del principio di inamovibilità dei magistrati:

44Nel principio di quest'anno giuridico intendo ragionare brevemente intorno ad un suggetto,che fu trattato da prestanti oratori e da sapienti giureconsulti - la indipendenza […] in cui dev'essere il magistrato di fronte al potere esecutivo. […] Nelle odierne costituzioni de' popoli si trova scritto un capitolo speciale riguardante l'ordine giudiziario ed un'apposita disposizione, che fa consistere la indipendenza del magistrato nella sua nomina a vita, altrimenti detta inamovibilità. Ma cotesta inamovibilità non è da tutti intesa allo stesso modo, e non è guarentita egualmente dalle varie costituzioni62.

45E difatti, precisa il procuratore, «la stessa inamovibilità, intesa nel più ampio significato della parola, non basta ad assicurare la indipendenza del Magistrato», dal momento che alcune prerogative ministeriali possono facilmente eluderla63. Allude ai poteri del guardasigilli di trasferimento64 e di promozione65 dei magistrati. In merito alla prima, più nel dettaglio, il relatore denuncia che

46ciascun vede, che giusta il paragrafo secondo del riferito articolo 199 dell' ordinamento giudiziario, il Ministro di giustizia è arbitro assoluto del tramutamento de' giudici da una sede all'altra; la qual cosa a me sembra assai grave, tanto più che l'Italia per la sua pastura, estensione e configurazione offre varietà infinite66.

47L’attacco è esplicitamente rivolto ai trasferimenti dispotici ordinati dal Ministro Pironti e, inevitabilmente, al recentissimo caso Lobbia.

48Contro l'istituzione del Pubblico Ministero si mosse ultimamente un'aspra guerra in Italia; perocchè l'art. 199 dell' ordinamento giudiziario dichiara, che il Pubblico Ministero rappresenta il potere esecutivo. Quindi si dice: esso non è libero, esso deve eseguire gli ordini del potere esecutivo e non gl' impulsi della sua coscienza. […] Ma in uno Stato libero sarebbe tenuto il Pubblico Ministero ad ubbidire al potere esecutivo, il quale gli ordinasse di promuovere una persecuzione ingiusta, illegale, persuaso fin dal principio di non poterla sostenere al cospetto della magistratura giudicante? Dovrebbe farsi il Pubblico Ministero istrumento di una vendetta politica, perché così piacerebbe al potere? lo non saprei pensarlo67.

49Più che una rendicontazione al ministro di Giustizia sull’attività giudiziaria della Cassazione di Firenze (allora capitale del Regno) da parte di un suo fedele rappresentante e sottoposto, quella del procuratore generale Conforti è una pubblica accusa nei confronti dello stesso guardasigilli:

50un savio Ministro userà rarissimamente della facoltà, che gli accorda il secondo paragrafo dell'articolo 199 dell' ordinamento giudiziario. […] Non pertanto io riconosco che un savio Ministro di giustizia è un gran bene, ma non vi si può far fondamento; dappodichè i Ministri di giustizia in Italia appariscono e si dileguano come le ombre di Banco68.

51Il procuratore generale, «fiero della sua indipendenza», prende nettamente le distanze dalla linea dell’esecutivo, invocando l’annullamento giurisprudenziale di tali provvedimenti dispotici:

52Dopo queste osservazioni permettetemi che io vi rimembri che il Pubblico Ministero presso questa suprema Corte di Firenze, fiero della sua indipendenza, concluse costantemente per la inefficacia di quei decreti e regolamenti del potere esecutivo, che non si conformavano alla legge, e Voi tenaci mantenitori del diritto accoglieste le sue conclusioni69.

53Il discorso si incentra, così, sulla rivendicazione dell’indipendenza dell’ufficio del pubblico ministero:

54II Pubblico Ministero, secondo il mio modo di vedere, rappresenta il potere legale e non già il potere arbitrario. […] Non comprendo un Pubblico Ministero non libero e libero, dipendente ed indipendente, un Pubblico Ministero che deve per comando superiore promuovere una persecuzione criminale, che crede ingiusta, per correggerla e rinnegarla poi di fronte alla magistratura giudicante ed alla pubblica opinione con grave scapito, non solo della sua riputazione personale, ma ancora della istituzione, alla quale appartiene.70

55Prendendo in prestito le parole dell’«illustre Ortolan», Conforti ribadisce che «gli uffiziali del pubblico Ministero sono gli agenti della legge, e non già del potere». Viene espressamente rivendicata la fusione corporativa della magistratura in quanto i membri del pubblico ministero vengono definiti «come parte integrante dell'ordine giudiziario», rammentando che «la inamovibilità di questo ordine è un principio fondamentale»71. In sostanza, in virtù dell’esplicito senso di appartenenza al medesimo corpus giudiziario, l’inamovibilità sostanziale garantita al giudice viene rivendicata anche per il pubblico ministero.

56In materia civile il Governo non può, non deve esercitare alcun influsso sulla magistratura giudicante, ora perché dovrebbe esercitarlo sul Pubblico Ministero che interviene ed agisce? Non è la legge, la legge sola che deve essere applicata dagli uni e difesa dagli altri? In materia criminale, se il giudice non dev'essere amovibile, per tema che non divenga istrumento del potere, perché il Ministero Pubblico sarebbe cotesto istrumento? Se delle guarentìe sono necessarie contro le condanne arbitrarie, perché non lo sono egualmente contro le persecuzioni arbitrarie?

57La finalità antigovernativa della relazione di Conforti che seguì allo scandalo della regìa cointeressata dei tabacchi è dunque esplicita e fa emergere un altro importante aspetto del duro scontro tra quella parte della magistratura che aveva mire indipendentiste e l’esecutivo.

58Sebbene, a prima vista, sembrerebbe aver avuto la meglio il Governo tramite gli strumenti del trasferimento arbitrario e del processo politico conclusosi con la condanna di Cristiano Lobbia, una più accurata analisi non lascia dubbi in merito a chi vinse realmente lo scontro. Innanzitutto, sotto il profilo dell’opinione pubblica, oltre alle pesantissime accuse mosse dal procuratore generale della Cassazione, gli avvocati difensori di Lobbia (tra i quali figurano nomi di spicco della politica italiana quali Pasquale Stanislao Mancini e Francesco Crispi) trasformarono il processo pilotato dal guardasigilli in un «processo al costume politico della Destra»72 e smascherarono pubblicamente la strumentalizzazione politica dell’ufficio del pubblico ministero nel caso di specie.

59Ad ogni modo, la vittoria dell’opposizione politica si ebbe anche sul piano giudiziario. La Corte di cassazione di Firenze73, il 10 settembre 1872, annullò la sentenza di condanna e dispose la rinnovazione del processo d’appello dinanzi alla Corte d’appello di Lucca. Quest’ultima, il 14 gennaio 1875, «criticando a fondo il lavoro compiuto sei anni prima dai giudici fiorentini, emise un verdetto di assoluzione»74.

60Anche in occasione di un secondo processo contro Lobbia, con l’accusa questa volta di aver derubato un altro deputato dei documenti dei famosi plichi con cui aveva denunciato in Parlamento i fatti corruttivi sulla regìa cointeressata dei tabacchi, l’ufficio del pubblico ministero dimostrò la propria indipendenza dall’esecutivo. Ancora una volta intervenne il ministro Michele Pironti, dapprima cercando di fare pressioni sul procuratore investito del caso, Giuseppe Borgnini, poi, incontrata la ferma ostinazione di quest’ultimo a non procedere, trasferendolo ad altra sede. La risposta anche del procuratore Borgnini furono le dimissioni75: «fu la goccia che fece traboccare il vaso»76. L’opposizione aveva, ormai, prove a sufficienza per dimostrare il tentativo del Governo di asservire in termini assoluti la magistratura e la volontà di insabbiare velocemente scandali come quello sulla regìa cointeressata dei tabacchi. L’esecutivo rispose inasprendo la propria linea autoritaria77: ritenne di poter pilotare l’opinione pubblica, diffondendo voci sul pericolo di un colpo di Stato da parte di organizzazioni rivoluzionarie e repubblicane, ma occorreva la legittimazione di tali voci attraverso le condanne giudiziarie. Il Governo, così, sollecitò processi contro i rappresentanti dell’opposizione, specialmente repubblicani. Vi furono numerosi arresti dispotici nelle maggiori città del Regno78, ma quando venne chiesto ai giudici competenti di convalidarli e di legittimare così la politica governativa, oramai apertamente autoritaria, furono questi ultimi a decidere le sorti dell’esecutivo e del Paese dichiarando costantemente il non luogo a procedere per l’insussistenza di prove. Il Governo veniva quindi completamente screditato e il 21 ottobre 1869 al ministro Pironti non restava che presentare le dimissioni, dopo appena otto mesi di incarico; al suo posto, non a caso, venne nominato il senatore Paolo Onorato Vigliani, il primo presidente della Corte di cassazione di Firenze, che tra i suoi primi provvedimenti richiamò ai loro posti i magistrati dispoticamente trasferiti79.

61Nel 1876, con l’avvento della Sinistra al potere, uno dei primi provvedimenti del nuovo guardasigilli, Pasquale Stanislao Mancini (difensore di Lobbia nel processo per simulazione di reato), fu la riammissione in servizio dei magistrati precedentemente dimissionari, tra cui i procuratori dissidenti dei processi contro il deputato Lobbia, Lorenzo Nelli e Giuseppe Borgnini, e contemporaneamente di trasferire a sedi secondarie il procuratore Adolfo De Foresta80 e lo stesso ex ministro Michele Pironti81.

62Sull’onda dell’opinione pubblica, schieratasi a sostegno della magistratura dissidente, la stessa vittoria elettorale della Sinistra, nel 1876, fu per buona parte dovuta alle denunce delle prevaricazioni della Destra nei confronti dei magistrati82.

4. Il pubblico ministero e i resoconti giudiziari: una dimostrazione concreta del conflitto tra la magistratura e l’esecutivo.

63Lo scontro istituzionale tra la magistratura e l’esecutivo, a parere di chi scrive, trova evidenze anche nella campagna di delegittimazione contro l’istituto dei resoconti giudiziari annuali avviata da alcuni alti magistrati per abrogare tale rendicontazione in quanto strumento di controllo nelle mani del ministro. Questa campagna è sintomatica dell’indipendenza della magistratura dall’esecutivo anche prima delle riforme intervenute tra il 1888 e il 190983.

64Anzi, non sembra affatto casuale la pubblicazione nel 1890, proprio in coincidenza con l’introduzione della riforma zanardelliana dell’ordinamento giudiziario, del pamphlet dell’alto magistrato Giuseppe Miraglia84 intitolato Il pubblico Ministero e i resoconti giudiziari85. È un chiaro esempio di pressione mediatica sul legislatore da parte dei più alti ranghi della magistratura, spesso coincidenti, come nel caso di Miraglia, con figure di grande intraprendenza politica.

65Più nel dettaglio, l’incipit del pamphlet, nel quale l’autore descrive queste rendicontazioni, testimonia direttamente il sostrato culturale e l’intraprendenza di un alto magistrato del post-Unità:

66I discorsi inaugurali, che gli agenti del pubblico ministero debbono pronunziare nella prima udienza del mese di gennaio, presso i rispettivi Collegi, in omaggio al disposto dell'art. 150 della legge di ordinamento giudiziario, formano ancora obbietto di discussione, alcuni volendoli sopprimere, altri mantenere, altri infine limitarli alle sole Corti di appello e di cassazione. Sfatati, com'essi sono, bisogna pur confessarlo, nella pubblica opinione, tutti sanno che cosa non debbano essere; ma, a giudicare della loro utilità, occorre esaminare che cosa invece propriamente essi siano86.

67Miraglia non nasconde di certo la discussione di cui sono oggetto i resoconti, anzi, la alimenta volontariamente precisando sin dalle prime battute il biasimo da parte della pubblica opinione87 riguardo alla loro strumentalizzazione, constatando che

68questo sindacato che il Pubblico Ministero si arrogava sul potere giudiziario, rendendosi, verso di lui, pubblico dispensiero di biasimo e di lode, non poteva non offendere la dignità del magistrato88.

69 Afferma apertamente che il resoconto del pubblico ministero è inaccettabile per la magistratura giudicante, in quanto ontologicamente consistente in un «sindacato sul potere giudiziario»89.

70Non si vede come dei giudici succubi del Governo potessero mai reagire con questi toni ad un istituto consolidato storicamente nell’ordinamento giudiziario italiano90. Al contrario, il pamphlet analizza il fenomeno dei resoconti giudiziari per redarguire tutti i relatori che avessero inteso o effettivamente utilizzato questo adempimento burocratico al fine di condurre un’ingerenza nei confronti degli organi giudicanti. Nel Regno d’Italia della seconda metà del XIX secolo, accusare il pubblico ministero significava accusare l’esecutivo e scagliarsi apertamente contro la volontà ministeriale, alla luce dell’art. 129 dell’allora vigente regio decreto del 6 dicembre 1865, n. 262691, che, così come il già incontrato ordinamento giudiziario del 1859, concepiva il pubblico ministero, almeno in teoria, quale «rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria» e, in quanto tale, «posto sotto la direzione del Ministro della giustizia».

71Del resto lo stesso Miraglia fu un protagonista politico, oltre che un autorevole alto magistrato. Risulta, ad esempio, tra i nomi dei senatori membri dell’ufficio centrale incaricato di redigere la relazione sulla proposta di legge presentata nell’aprile 1891, inerente alla modifica proprio dell’istituto dei resoconti giudiziari. Non stupisce quindi che nel suo pamphlet denunci così apertamente le ingerenze condotte dai pubblici ministeri tramite lo strumento delle rendicontazioni annuali. Per avvalorare retoricamente le proprie rivendicazioni Miraglia nasconde le chiare mire autonomistiche del giudiziario - emerse invece apertamente, ad esempio, nelle fonti precedentemente analizzate ̶ e, rivolgendosi direttamente all’esecutivo, tenta di manipolarlo sottolineando che i resoconti a cui sono tenuti i procuratori dovrebbero essere formalmente finalizzati al controllo da parte del Governo, non già dei singoli relatori, che invece dimostrano, almeno secondo l’autore, di essere troppo audaci ed indipendenti, tanto da non rendicontare nulla in realtà dell’effettivo operato degli organi giurisdizionali92. Divide et impera.

72In realtà, confrontando le fonti coeve e considerando il contesto storico precedentemente descritto nonché l’ideologia e la biografia dell’autore, il pamphlet è chiaramente finalizzato a sabotare un potenziale strumento di controllo diretto della attività giurisdizionale93. È così che l’affermazione del giudiziario passa anche dall’utilizzo diretto dei canali mediatici e culturali. Il fine dell’opera è quello di delegittimare i pubblici ministeri, ossia gli incaricati ufficiali del Governo di rendicontare sull’attività giudiziaria. Per dimostrare questa finalità e comprendere appieno la rilevanza dei dati ivi contenuti è necessario prestare uno sguardo generale ai fenomeni che investirono la magistratura italiana negli ultimi tre decenni dell’Ottocento.

73All’indomani della loro introduzione nell’ordinamento unitario è possibile constatare l’incremento esponenziale dell’atteggiamento di denigrazione verso queste rendicontazioni da parte dell’alta magistratura giudicante, con il chiaro fine di sabotarne la funzione, in quanto formalmente ancora concepiti come strumento di controllo politico da parte dell’esecutivo sull’attività giudiziaria. Numerose sono le testimonianze di questa azione di delegittimazione, non a caso spesso successive o comunque contemporanee alla caduta della Destra nel 1876, imputabile, tra le molteplici cause, anche ed in particolar modo all’opposizione dell’alta magistratura94. In questo senso rappresentano un’ulteriore dimostrazione dell’azione di rivendicazione autonomistica da parte del giudiziario. Un’azione che si fece sempre più pressante a partire dagli anni ’70 dell’Ottocento e che contribuì in modo determinante all’avvio del processo di conquista formale dell’autonomia burocratica e corporativa della magistratura italiana che, come si è detto, si ebbe tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Non a caso a metà degli anni ’70 del XIX secolo, il conflitto che aveva visto schierata l’alta magistratura contro gli esecutivi postunitari della Destra iniziò a volgere, in modo definitivo, a favore della prima con l’avvento della Sinistra al governo e la conseguente riabilitazione dei magistrati vittime delle epurazioni politiche nel decennio precedente95. Si tratta di quegli stessi magistrati che, come nelle vicende sopra analizzate, dimostrarono una propensione fortemente indipendentista ed antigovernativa. Si pensi, ad esempio al primo presidente della Cassazione di Palermo, Pasquale Calvi. A conferma di questo aperto schieramento politico della magistratura, il passaggio al governo dalla Destra alla Sinistra è scandito anche dall’epurazione, a loro volta, dei magistrati più fedeli al precedente esecutivo.

74Dunque, l’affermazione socio-politica ed istituzionale del giudiziario nel Regno d’Italia derivò, tra gli altri aspetti, anche dalla campagna di delegittimazione e di ridimensionamento dell’istituto dei resoconti giudiziari condotta, sulla base delle fonti qui analizzate e con il prezioso esempio del pamphlet di Miraglia, non a caso proprio durante gli ultimi tre decenni del XIX secolo.

5. I resoconti giudiziari alla fine del XIX secolo tra ridimensionamento e campagna di delegittimazione.

75Gli atti parlamentari e le discussioni su numerose proposte di legge96 verso la fine del XIX secolo testimoniano e denunciano espressamente il ridimensionamento di fatto di questo strumento di controllo. Non mancano esempi concreti del suo decadimento, in particolar modo negli uffici del pubblico ministero presso le Corti di cassazione che da sempre dimostrarono un atteggiamento autonomistico e spesso apertamente antigovernativo, come quella partenopea: si pensi, ad esempio alla consuetudine dei procuratori capo di delegare tale attività di rendicontazione ai loro sostituti97. Ciò che colpisce è proprio la discrasia tra l’importanza della funzione di rendicontazione all’esecutivo a cui i resoconti annuali erano ancora normativamente preposti ̶ con la finalità (almeno da un punto di vista meramente formale) di indirizzo politico dell’azione giudiziaria ̶ e la loro sostanziale incisività in tal senso.

76Perseguendo chiari fini di controllo politico, l’ordinamento giudiziario introdotto nel 186598 mutuò il modello sabaudo della rendicontazione da parte del pubblico ministero, ossia del rappresentante del Governo99. Si predisposero, dunque, i membri del pubblico ministero per rendicontare, nella prima udienza pubblica di gennaio, sull’attività giudiziaria della corte o del tribunale rispettivi100, imponendo loro

77di notare in Camera di consiglio gli abusi che fossero invalsi, e di farvi le requisitorie che giudicano convenienti nell’interesse del servizio; sulle quali requisitorie poi la corte ed il tribunale debbono deliberare101.

78Tuttavia, ben presto venne avviato un processo di revisione e di limitazione del sindacato, e più precisamente, come detto, a metà degli anni ’70 dell’Ottocento. Con le circolari del ministro di Grazia e Giustizia del 17 dicembre 1873 e del 12 ottobre 1874102, ad esempio, si iniziò a vietare ai procuratori di uscire fuori dai «limiti di una analisi scientifica» e, dunque, si invitavano i medesimi ad una rendicontazione scevra da valutazioni personali. Questa fase si presenta come un periodo di transizione in cui rappresentanti del pubblico ministero, e l’esecutivo per il loro tramite, nonostante le prime imposizioni di limiti valutativi, riuscivano ancora ad esercitare una certa influenza sulla giurisdizione, fatta eccezione in diversi occasioni per le frange storicamente più indipendentiste ed antigovernative (come i vertici delle Cassazioni partenopea e palermitana).

79A conferma di ciò, la circolare contenuta nel Bollettino Ufficiale del Ministero della Giustizia dell’8 agosto 1883 richiedeva nuovamente «agli uffici del pubblico ministero di fare oggetto speciale degli studi e delle esposizioni statistiche annuali» (quasi a ribadire i limiti da rispettare). La circolare allo stesso tempo imponeva ai medesimi uffici di spaziare anche nella «ricerca delle cagioni speciali, fisiche, morali od economiche che avessero contribuito alla persistenza, all’accrescimento o alla diminuzione di alcune specie di reati nel territorio di loro giurisdizione»103. Veniva sostanzialmente richiesta ai procuratori anche l’individuazione delle cause dei reati, perseguendo una finalità tipica del positivismo giuridico tardo-ottocentesco che, inevitabilmente, sfociava nell’ingerenza sulla valutazione e sulla relativa punizione delle fattispecie incriminatrici.

80Tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90 del XIX secolo104, si può assistere ad un processo di involuzione dei resoconti giudiziari.

81La più lampante dimostrazione della conclusione di questo primo ridimensionamento – o, se si vuole, del disarmo – dei resoconti giudiziari è data dalle stesse relazioni ufficiali governative sui medesimi:

82Molti capi d’ufficio persistono ad affidare l’incarico di pronunciare i discorsi ai loro sostituti e non tutti i Procuratori generali si sono ancora convinti dell’importanza di questi rendiconti che dovrebbero essere campi fecondi di ricerche e di studii, attestare dell’opera vigilante del Pubblico Ministero, far conoscere in qual modo la giustizia viene amministrata nelle varie giurisdizioni105.

83Utile in tal senso è l’analisi della relazione del procuratore generale della Corte di cassazione di Napoli del 1888106. Qui, oltre alla denigrazione («questa croce degli annuali resoconti, che non si sa dove dar di capo per assolvere in una forma decente il debito nostro»107) è dedicato soltanto un brevissimo spazio alla rendicontazione dei dati statistici inerenti all’operato della Corte, dove non si perde occasione di evincere, tra l’altro, la maggiore efficienza della Cassazione di Napoli rispetto alle altre supreme Corti. Il resto della relazione consiste interamente in un vero e proprio monologo a difesa della magistratura e, addirittura, contro il Governo, tanto da auspicare una «giurisprudenza progressiva»108. Questo concetto consiste nella preminenza delle decisioni giurisprudenziali sulla stessa legge scritta, tramite cui i giudici, in quanto veri «custodi della legge», possano adempiere il loro «ufficio di antesignani del progresso»109, scrutando la ratio del dispositivo e creando loro stessi la norma, anche oltre la miopia del legislatore rispetto agli istituti che più necessitano di una interpretazione progressista:

84Pe’ nuoi istituti in ispecie, deve il magistrato assumere quasi ufficio legislativo completando, dove per alcuna guisa monco apparisca nella espressione sua, il pensiero non incerto del legislatore110.

85Nella relazione si aspira finanche ad avere il minor numero possibile di leggi e si elogia il ruolo dei giudici nel common law:

86Più si consolida e si rassoda lo stato sociale, quanto più leggi e codici stanno fermi ed immutati; e più prospere, ricche, fiorenti vediamo le nazioni che meno cangian di leggi; esempio la potente Inghilterra, che del suo vecchio arsenale legislativo si tien paga, fidando tutta nei magistrati suoi, mentre è delle civili nazioni la più progredita. E però io ritengo, e credo avervi meco consenzienti, che davvero risponda all’esser suo quella Magistratura che meno lasci da fare al legislatore; che sia eminentemente fautrice di progresso nel modo d’intender le leggi111.

87La magistratura – paragonata ad una «antica Vestale»112, custode del fuoco sacro della legge – viene definita una milizia disciplinatrice come l’esercito113 e i magistrati vengono qualificati come «Autorità che della Legge sono ad un tempo i sacerdoti e i servi»114. La dimostrazione di questa ricercata affermazione dell’intermediazione sacrale dei magistrati e della imposizione degli arcana juris115 si ha nella volontà del procuratore di precisare il rispetto della suddivisione dei poteri e l’imparzialità istituzionale, quasi a voler sin da subito giustificare l’operato dei giudici della Cassazione:

88E non è da dire che di questo spirito invasore abbia la Magistratura, né diversi ordini suoi, dato alcun segno, o se apparve, solleciti, furono ad accorrere i Collegi Supremi; e la Cassazione romana da ultimo, giudice irrevocabile dei conflitti far i Poteri giudiziario ed esecutivo116, si palesò rigida osservatrice dei limiti delle sue Potestà117.

89Si è ben lontani, quindi, dal pubblico ministero quale mero controllore dell’esecutivo, come voleva l’ordinamento giudiziario del 1865. Anzi, ancora una volta è tangibile lo spirito di appartenenza al medesimo corpo della magistratura con la dimostrazione dell’avvio, questa volta anche formale, dell’autonomia dei pubblici ministeri e della formazione di un’entità burocratica autonoma.

90Proprio all’indomani dell’avvio del processo di riforma dell’ordinamento giudiziario nel 1890, come dimostrato ad esempio dall’attività di ingerenza mediatica e legislativa di Giuseppe Miraglia, la magistratura dimostrò di voler delegittimare con maggiore incisività lo strumento di potenziale controllo della rendicontazione sulla propria attività giudiziaria. Del resto non era ancora completa la conquista dell’autonomia istituzionale dall’esecutivo che, come visto, si consoliderà, non a caso, solo nel primo decennio del XX secolo con l’istituzione del CSM e dell’AGMI. Infatti, seppur in buona parte dei discorsi inaugurali sembrerebbe emergere lo spirito corporativo del giudiziario, non sono assenti in questo arco temporale esempi di relazioni di segno opposto e di critica all’attività giurisdizionale delle Corti118. A parere di chi scrive, è la volontà di estirpare alla radice il pericolo di simili attacchi, volti al controllo dell’attività giurisdizionale, a motivare la suddetta campagna di delegittimazione dei resoconti annuali condotta dai ranghi superiori del giudiziario, come dimostra in modo inequivocabile, tra le altre fonti, il pamphlet di Giuseppe Miraglia sopra analizzato.

91Dalla Relazione dell’ufficio centrale del Senato sul progetto di legge del 1891 inerente alla modificazione dell’art. 150 dell’ordinamento giudiziario119, emerge chiaramente la finalità dell’alta magistratura giudicante di ridimensionare a mere «storie sommarie» i resoconti annuali dei procuratori generali. Innanzitutto salta subito agli occhi la presenza dello stesso Giuseppe Miraglia tra i membri dell’ufficio centrale del Senato a cui venne affidata la relazione alla proposta di legge presentata dal ministro di Grazia e Giustizia Luigi Ferraris. Ebbene, la proposta di modifica dell’art. 150 dell’ordinamento giudiziario in questione (che disciplinava proprio i resoconti annuali), così come presentata dal ministro, risulta molto più blanda e consiste principalmente nel dilazionare l’adempimento di tale rendicontazione al mese di marzo anziché a gennaio, per lo più per esigenze organizzative. L’ufficio centrale del Senato, tuttavia, nella sua Relazione, boccia in gran parte tale proposta di modifica dell’articolo 150 e opera una vera e propria manipolazione del progetto di modifica, suggerendo (e motivando energicamente), in pratica, una nuova proposta di modifica del medesimo articolo. In primis, propone

92che il pubblico ministero dica, non in pubblica udienza, ma in «camera di consiglio»120, tutto quello che crede dover riferire, osservare e proporre, in adempimento del suo dovere di «vegliare all’osservanza delle leggi, e alla pronta e regolare amministrazione della giustizia»121.

93È inequivocabile la volontà della commissione senatoria dietro la proposta di modifica del progetto ministeriale. Viene esplicata nella stessa Relazione, da cui emerge un’ulteriore, chiara dimostrazione dello scopo della magistratura italiana di affermare la propria «mediazione patriarcale»122, da attuare nell'oscurità della camera di consiglio, faccia a faccia con i soli procuratori a cui è affidato il rispettivo resoconto annuale. Questo è ciò che auspicano apertamente i senatori firmatari della proposta di modifica dell’art. 150:

94Ora cosiffatti lavori sono il risultato dell’assidua vigilanza esercitata sul movimento degli affari giudiziari da magistrati123 esperti, dotti e sagaci, meritano di essere letti e meditati attentamente; ma non vanno recitati, in pubbliche adunanze, perché sono ordinariamente tanto lunghi da stancare l’attenzione degli uditori meglio disposti; sono astrusi ed incomprensibili per una buona parte del pubblico, se toccano argomenti giuridici; sono sibillini ed inutili per tutti, se s’ingolfano in disquisizioni statistiche, perché veramente il linguaggio delle cifre richiede attenta e riposata meditazione, e quelle serie numeriche, quelle formole, quelle medie, pronunziate dall’alto di una tribuna124, percuotono come vani rumori l’orecchio degli ascoltanti, senza lasciare alcuna traccia nella loro intelligenza125.

95Non è casuale la repulsione per i dati statistici ed oggettivi: non essendo interpretabili né mutabili con l’uso di tecnicismi giuridici, o comunque essendo custoditi esclusivamente da altri tecnici, escludono la «mediazione sacerdotale» dell’organo giudicante e, ancor più grave, fanno luce sulla sua attività giurisdizionale.

96L’ufficio centrale del Senato appoggia la modifica proposta dal ministro solo in merito alla dilazione a marzo del resoconto, ma specifica che tale spostamento dovrebbe essere motivato esclusivamente dall’inserimento di un vero e proprio controllo preliminare da parte delle rispettive Corti126.

97Infatti, a tale scopo non si nasconde che

98l’assemblea che deve ascoltarla [la rendicontazione annuale], è rimandata ad un giorno della seconda metà di marzo, che si stabilisce d’accordo tra i capi del collegio. Per tal modo avranno i procuratori generali il tempo necessario per attendere con calma al lungo ed arduo lavoro, e potranno anche giovarsi dei dati statistici di altre Corti o di tutte le Corti del Regno per utili confronti e ragionevoli induzioni127.

99Solo in questa parte della Relazione, con totale incoerenza rispetto a quanto rilevato in precedenza nella medesima128, vengono ammessi i dati statistici che, ad un tratto, non percuotono più «come vani rumori l’orecchio degli ascoltanti, senza lasciare alcuna traccia nella loro intelligenza»129. La finalità sottesa permette di comprendere tanta incoerenza: i dati statistici sono qui ammessi dall’ufficio centrale solo per giustificare la dilazione del resoconto al mese di marzo, in modo da permettere, nel frattempo, che il resoconto possa essere sottoposto alla valutazione preliminare delle Corti a cui si riferisce. In sostanza, solo per introdurre una valutazione da parte degli organi giudicanti sullo stesso strumento predisposto, a questo punto solo in teoria, per la valutazione della loro attività giurisdizionale.

100In sintesi, «questo riscontro periodico dell’amministrazione della giustizia, che la legge richiede per fini pratici e non per formalità», per l’ufficio centrale del Senato si riduce a non dover essere altro che «una storia sommaria, tracciata a grandi linee dell’opera della magistratura»130, scevra da oggettivi dati statistici e, soprattutto, preliminarmente controllata ed approvata dagli stessi organi giudiziari a cui si riferisce.

101Il Governo tentò di opporre una forma di resistenza a questo tentativo di invalidare totalmente i resoconti e, nel 1896, cercò di dare una rinnovata rilevanza ai resoconti giudiziari, istituendo presso il Ministero della giustizia un’apposita Commissione per la statistica giudiziaria e notarile, con il precipuo fine di

102esaminare le relazioni statistiche annuali fatte dai rappresentanti del Pubblico Ministero ai termini dell’articolo 150 della legge sull’ordinamento giudiziario, e proporre i provvedimenti che stimasse utili per dare alle relazioni medesime armonia ed unità di intenti, e per coordinarle coll’indirizzo delle statistiche giudiziarie che si pubblicano dall’Amministrazione centrale131.

103«Armonia ed unità di intenti»: l’istituzione di questa Commissione permanente dimostra la volontà del Governo di perseguire una spinta accentratrice attraverso cui esercitare l’indirizzo politico sulla magistratura. Questo fine è più che comprensibile, tenuto conto che, come ha dimostrato Mario Da Passano, anche durante il XIX secolo non mancarono testimonianze per poter pacificamente affermare che «la tribuna del pubblico ministero era utilizzata [dai procuratori generali] per esprimere anche opinioni personali sulle politiche del governo», valutazioni che oltre ad essere semplicemente personali erano anche, innegabilmente, «provenienti dalla “corporazione” giudiziaria»132. Così, nonostante il tentativo dell’esecutivo di assumere il pieno controllo della relazione inaugurale tenuta da parte dei pubblici ministeri e di farne, anche nei fatti, uno strumento di indirizzo della attività giurisdizionale, non si riuscì a concretizzare questo obiettivo133. Ormai la magistratura poteva vantare una sostanziale indipendenza dall’esecutivo e, anzi, era l’esecutivo a dipendere per molti aspetti dalla magistratura134.

104D’altro canto, le pressioni della magistratura per la completa delegittimazione di questo strumento di controllo (anche se solo potenziale) dell’attività giurisdizionale non furono certo un mistero. Anzi, non si fece attendere la risposta della magistratura all’istituzione da parte dell’esecutivo della Commissione per la statistica giudiziaria: nella tornata del 7 marzo 1899 venne depositata in Parlamento la proposta di legge sulla «abrogazione del resoconto annuale del Pubblico Ministero presso i Collegi giudiziari», mossa dal fine apertamente espresso dal proponente, il deputato Nicola Vischi, «di assicurare meglio l’indipendenza della magistratura giudicante»135. Nonostante una sua prima proposta di abrogazione dei resoconti giudiziari fosse già stata respinta nel febbraio del 1894, Vischi la ripresentò, con «il plauso di non pochi che si occupano di simili materie»136, alla luce dei recenti «fatti avvenuti e deplorati», ossia in risposta all’imposizione da parte dell’esecutivo della «tirannia dei dati statistici»137.

105Ora io domando se non è lecito il timore che il magistrato giudicante debba essere turbato da questo diritto che ha il rappresentante del potere politico di esaminare l’opera sua e di giudicarla in pubblico. […] Non sarà mai citato tanto a proposito quanto per la magistratura il detto celebre che la moglie di Cesare non solo doveva essere ma altresì [e soprattutto] parere onesta.

106Il riferimento è al pubblico ministero, che è «per l’articolo 129 dell’ordinamento giudiziario […] rappresentante del potere esecutivo e agisce sotto la direzione del ministro di grazia e giustizia». Ad ulteriore dimostrazione della strumentalizzazione politica a cui potevano essere esposti i resoconti giudiziari e che era fortemente temuta dalla magistratura giudicante, il deputato Vischi spiega inoltre che, non avendo i procuratori alcuna competenza tecnica in materia, tali rendicontazioni avevano ben poco di scientifico riducendosi a

107considerazioni che vengono fatte non solo con scarso elemento materiale, ma con assoluta mancanza di nozioni della scienza della statistica […], refrattaria ai medesimi studi ed alle medesime abitudini di coloro che passano la loro vita tra i processi.

108Per rafforzarne le ragioni, tra le motivazioni retoriche su cui poggia la proposta di abrogazione dei resoconti giudiziari viene anche evidenziato il decadimento di tale istituto che, in particolare nelle giurisdizioni meridionali (nelle quali non a caso si riscontra un maggiore spirito corporativo della magistratura giudicante e requirente, sin dall’immediato post-Unità, come sopra analizzato), si limita ad essere il frutto di una «indigesta erudizione, sovente di seconda mano».

109La proposta è lapidaria e si snoda in un unico brevissimo articolo che sintetizza l’obiettivo perseguito dall’alta magistratura giudicante senza compromessi di alcun genere: «Sono abrogati gli articoli 150 e 189 n. 4, della vigente legge sull’ordinamento giudiziario»138, gli unici articoli a prevedere normativamente il resoconto annuale del pubblico ministero sull’attività giudiziaria.

6. Conclusioni

110Seppur formalmente si limitò ad essere una semplice proposta di legge, l’abrogazione dei resoconti giudiziari quali strumenti di controllo del giudiziario si concretizzò, di fatto, nella loro totale innocuità. Alle soglie del XX secolo lo strumento del resoconto venne sostanzialmente delegittimato nella sua funzione di controllo e di indirizzo politico da parte dell’esecutivo. Anzi, ben presto venne utilizzato dalla magistratura come vero e proprio mezzo di rivendicazione delle proprie pretese: numerose diventarono le dimostrazioni di resoconti usati dalla magistratura, oramai di fatto unita tra giudicante e requirente nella medesima corporazione e sempre più indipendente dall’esecutivo, quali strumenti di affermazione istituzionale e di ingerenza politica nei confronti dell’esecutivo.

111Parallelamente al processo evolutivo della magistratura unitaria si può assistere, dunque, ad un processo di trasformazione anche dell’istituto dei resoconti giudiziari. Dai primi del Novecento, i resoconti si tramutarono in discorsi inaugurali più propriamente detti: monologhi celebrativi ricchi di spirito corporativo in cui elogiare la magistratura, non solo dalla stessa ormai pienamente ammessi ma, semmai, strumentalizzati al fine di affermarne le pretese politiche, spesso anche a discapito del Governo. È così che singoli esempi – per lo più circoscritti alle Corti di cassazione da sempre particolarmente indipendentiste e attive politicamente come quella partenopea139 – divennero il modello ordinario delle relazioni inaugurali.

112Durante il Novecento, salvo la parentesi fascista140,

113la grande maggioranza dei PG non rispetta quelle disposizioni: anzi, talvolta polemizza con esse per rivendicare il diritto e quasi la necessità di esorbitare i limiti di una arida cronaca e di manifestare invece liberamente opinioni a largo spettro141.

114Il resoconto giudiziario prende le forme di un discorso inaugurale «dal colore di una scenografia autoritaria e classista […] fra toghe, gradi, ed esoterici rituali»142 e i discorsi inaugurali dei procuratori generali divengono definitivamente testimonianze inequivocabili dell’unità corporativa della magistratura143.

115La fusione corporativa era ormai tale, già nel 1912, da consentire al procuratore generale della Corte di cassazione di Roma di parlare di «questa nostra famiglia giudiziaria»144, creata dalla stessa attività giurisdizionale.

116Nel 1906, ad esempio, la medesima Corte, suprema in materia penale definì espressamente il pubblico ministero il «rappresentante della società»145 a discapito della concezione del pubblico ministero quale «rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria» ai sensi dell’art. 146 dell’ordinamento giudiziario del 1859 prima, e dell’art. 129 dell’ordinamento del 1865 poi. Questa accezione evolutiva sopraggiunse in modo per nulla casuale e sembrerebbe trarre origine dalla definizione del pubblico ministero quale «rappresentante della legge», creata giurisprudenzialmente dalla già analizzata sentenza della Corte di cassazione di Palermo del 1862 e poi avallata dagli stessi procuratori generali nei propri discorsi inaugurali, come quello della Cassazione di Firenze del 1870. Nel 1906, dunque, la Cassazione romana esaudiva le ferventi esortazioni di Antonio Buccellati, secondo il quale «spetta ai giudici [sic] indipendenti l’azione [penale], non ai mandatarj del potere esecutivo»146.

117In conclusione, sulla base dei casi giudiziari e delle relative fonti analizzati e proposti in questo articolo, seppur quantitativamente limitati al titolo esemplificativo, si può ritenere dimostrato l’interventismo politico della magistratura italiana postunitaria ̶ fatte salve le sue tappe evolutive funzionali ed istituzionali ̶ che portò in molte occasioni ad un ricorrente conflitto con l’esecutivo. Questo conflitto politico-istituzionale emerge ai nostri occhi di posteri in ogni occasione di confronto, quali appunto le relazioni inaugurali dell’anno giudiziario, che divennero un annuale terreno di scontro, una ricorrente damiera con le medesime pedine e dame per entrambi gli sfidanti, rappresentate dai procuratori e dai procuratori generali. Uno scontro che, come visto, traendo le sue origini dall’immediato post-Unità, si è sviluppato trascinando i propri effetti sino alla più vicina contemporaneità, quando è stata, anche formalmente, sancita l’incondizionata vittoria della toga con l’introduzione dell’art. 2. comma 29, lett. a) della legge del 25 luglio 2005 n. 150, che ha affidato ufficialmente tali relazioni annuali al primo presidente della Corte di cassazione e ai presidenti delle Corti d’appello147.

118Quelli che un tempo erano, almeno formalmente, gli organi deputati al controllo dell’attività giurisdizionale attraverso la loro storica funzione di rendicontazione annuale al Ministero (i procuratori ed procuratori generali), oggi, possono solo limitarsi a presenziare alla cerimonia. Si tratta del riconoscimento, finanche legislativo, della concreta trasmutazione del resoconto all’esecutivo in discorso inaugurale dell’anno giudiziario, autocelebrativo del corpus dei magistrati tanto da trasportare, oggi più che mai, la funzione giurisdizionale «su un piano di sacralità e di missione»148.

119Così, ancora oggi, è possibile assistere agli annuali riti di autocelebrazione dei giudici di alto rango, i quali, per l’occasione, continuano ad ornarsi con l’intramontabile toga rossa149 e pelliccia di ermellino, prerogative dei robins del Parlamento di Parigi150. «A quanto pare, proprio a questo riguardo gli effetti della storia sono stati più duraturi» tanto che all’inaugurazione di ogni anno giudiziario «si può ancora scorgere la presenza spettrale dei magistrati dei Parlamenti, maestosi nelle loro toghe rosse ammuffite»151.

Aufsatz vom 24. Dezember 2021
© 2021 fhi
ISSN: 1860-5605
Erstveröffentlichung
24. Dezember 2021

DOI: https://doi.org/10.26032/fhi-2021-15

  • Zitiervorschlag Stefano Lombardo, Il conflitto tra la magistratura e l’esecutivo attraverso gli uffici del pubblico ministero. I resoconti giudiziari nell’Italia postunitaria. (24. Dezember 2021), in forum historiae iuris, https://forhistiur.net2021-12-lombardo